“Ultimo lavoro di Peter Liechti, resistente filmmaker svizzero, The Sound of insects è un meticoloso diario interiore che avanza tra pratiche di svuotamento e s-vanimento, pregnato della sistematica indolenza di chi mira all’assottigliamento del corpo e della volontà, lasciandosi morire premeditatamente, nella quieta risolutezza e nel progressivo distaccamento dai desideri.”
Ultimo lavoro di Peter Liechti, resistente (tanto per le forme e i formati quanto per i soggetti che sceglie per le sue ricerche) filmmaker svizzero – autore, regista e cameraman dei suoi film, e anche in questo caso all’opera in collaborazione con il cracker di suoni Norbert Moslang (al cui lavoro aveva dedicato Kick the Habit, 1989) – The Sound of insects è un meticoloso diario interiore che avanza tra pratiche di svuotamento e s-vanimento (tutte dichiarate in voce fuori campo), pregnato della sistematica indolenza di chi mira all’assottigliamento del corpo e della volontà, lasciandosi morire premeditatamente, nella quieta risolutezza e nel progressivo distaccamento dai desideri.
Ulteriore occasione per stimolare la capacità di Liechti a far convergere materiale documentario e visionarietà dell’immaginazione (come aveva già fatto nello strabiliante Signers Koffer, 1996), il “diario di una mummia” di cui si tratta qui ha le sue origini in una storia vera (c’è un rapporto della polizia criminale sul ritrovamento da parte di un cacciatore di conigli di un corpo morto per fame nei boschi), trasformata poi in racconto dal giapponese Shimada Masahiko e poi – giocando quindi sul confine tra realtà e sua ri-costruzione – ripresa dal cineasta svizzero con il rispettoso atteggiamento che nei documentari si dovrebbe avere nei confronti del profilmico.
Come immersi in un limbo dai tempi rarefatti e nella quasi immobilità dello sguardo, si resta per più di ottanta lunghi minuti acquattati nel sottobosco dove il corpo è stato ritrovato, un rifugio-capanna dal quale è possibile sentire gli insetti o la pioggia che cade sulla testa, e dove tuttavia si è isolati dal resto del mondo, confinati in una semioscurità che rende improbabile una percezione serena della propria esistenza. È un habitat disumanizzato, in cui si percepisce che dell’uomo c’è solo il ricordo (disgustato?), il fantasma, la voce amara e grave che, squalificata dalla visione, annota con accuratezza quasi clinica quella che è l’esperienza finale d’ogni essere, la lotta che il corpo compie per restare aggrappato alla vita.
Con una camera che rimane molto bassa, quasi proprio ad altezza insetto, tra le foglie, i rami, la terra bagnata, e con improvvisi slanci allucinatori che vagheggiano la libertà del volo degli uccelli o creano l’immagine di quel traghettatore infernale pronto a scortare ogni anima fino ad un aldilà di non chiare fattezze, The Sound of Insects è poesia per immagini composta principalmente in super8, recuperando materiali da progetti preesistenti e restituendo visivamente le palpitazioni frastornate di chi mescola sogno e delirio, fermezza e ripensamento, nelle difficoltà del non aver fede (in un “manager for the afterworld”), nella volontà di sentirsi fino in fondo, percependo un’intensità che la condizione normale non riesce più a offrire, e restituendo la claustrofobia dello stare in attesa di una fine la cui scadenza rimane imprecisata.
E ricorrendo ancora una volta allo strumento metalinguistico per attraversare oltre l’oggetto d’analisi, torna qui in mente la celebre intuizione del Cocteau che parlava del cinema come “morte al lavoro”. Accettandone l’assunto, ogni film allora non potrà che sembrarci a ragione il fantasmatico diario (nemmeno tanto in fieri) di una mummia.