Presentato nella sezione Discoveries (dedicata ai corti e ai mediometraggi sperimentali) della 65esima edizione del Festival dei popoli di Firenze, My Sextortion Diary di Patricia Franquesa è un documentario in prima persona che gioca sul perenne stato di attesa per raccontare la violazione della propria privacy e intimità nell’era del digitale, con al centro un caso di estorsione di immagini strettamente personali di natura sessuale.
In poco più di un’ora la regista e protagonista di questo dramma tutto al femminile illustra le sue reazioni e azioni di fronte a una minaccia inafferrabile quanto pressante e insidiosa, con un linguaggio documentaristico che attinge dalla contemporaneità comunicativa più tecnologica, manifestando una forza di resilienza femminista, nella passività delle istituzioni.
Improvvisamente vittima
Patricia, detta ‘Pat’, è una film-maker e produttrice spagnola residente a Madrid, attiva in vari festival del cinema, una giovane donna moderna e risoluta. Il suo equilibrio si spezza però quando in un bar della capitale subisce il furto del computer portatile e presto un hacker, impossessatosi non solo dei suoi indirizzi di posta elettronica ma anche di suoi nudi espliciti, la contatta anonimamente per ricattarla, chiedendo un esoso riscatto economico del materiale sottratto. In caso di mancato versamento, tutti i contatti di Patricia riceveranno le immagini compromettenti.
All’umiliazione e all’angoscia, seguono i tentativi della protagonista di individuare i responsabili con l’intervento delle forze dell’ordine, nell’etica del non cedimento a compromessi; alla denuncia, tuttavia, non scattano indagini approfondite o risolutive e Patricia, sempre più vessata da febbricitanti messaggi minatori sulla condivisione degli scatti (già parzialmente inviati a una cerchia di conoscenze), veste i panni della detective per sopperire alla solitudine e al senso di denigrazione, fino a un finale inaspettato e catartico.
La frantumazione della fragilità
My Sextortion Diary esamina una tematica delicata e di desolante attualità (quella appunto del sextortion, del ricatto sessuale degenerato in modo capillare nell’era social), già esplorata e denunciata dal cinema documentario internazionale degli ultimi anni, con la potenza espressiva propria del vissuto personale e con la forma narrativa diaristica, che ne conferiscono un taglio, se non di innovazione, almeno di diversità.
L’alterità linguistica è infatti l’asse su cui costruisce il suo mediometraggio Patricia Franquesa, esponendo i fatti nelle cadenze di un thriller e con un’estetica minimalista intessuta prevalentemente di schermi di device o, verticali, di smartphone, messaggistica scritta e vocale, letture di IA, componendo un “desktop movie“. Un mosaico di virtualità in un mare troppo aperto di astrattezza che spiazza e intristisce, dove, a fianco della solidarietà degli affetti più prossimi, serpeggia anche un anonimato che svuota l’anima.
Una testimonianza di speranza, oltre a un vuoto sociale
In questo modo la scoperta del reato a proprio danno, l’appello alla giustizia, la ricerca spasmodica di indizi, il vicolo cieco delle indagini, l’inquietudine e il disorientamento di fronte ai diktat ricattatori, la risoluzione del caso grazie al proprio estro investigativo vengono documentati in un assetto cronachistico che lascia poco spazio all’interiorità (qui quanto mai profanata), alla grammatica emotiva del disagio, all’introspezione psicologica, che donerebbero a My Sextotation Diary quell’ascendente di universalità in un dramma femminile comunitario.
In questa sorta di cortocircuito espressivo, dove le nuove tecnologie sono sia arena di trappole e crimini, in particolare contro le donne, sia strumento linguistico per esporre il loro versante più rischioso con la complicità dell’anonimato, il documentario, nonostante l’impersonalità asettica delle immagini, riesce a smuovere le coscienze in alcune svolte del racconto (coadiuvato dalla presa thriller che rafforza il ritmo di coinvolgimento), nella tenacia combattiva della protagonista, nell’amarezza del finale che, pur liberatorio, non può risanare il senso di impotenza di fronte a una minaccia invisibile e tentacolare quanto difficile da estirpare per le istituzioni sovente impotenti.