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67 Festival di Berlino: Django apre il concorso a ritmo di ‘gypsy-swing’

Reda Kateb veste impeccabilmente i panni dell’artista dal baffo inconfondibile, nato in Belgio in una famiglia rom e apprezzato nella Parigi culla di cultura e plaisir. Django vive con la madre, interpretata da BimBam Merstein, e con la moglie Naguine (Beata Palya). Corre l’anno 1943 e Django è “invitato” (non pare abbia altra scelta) a compiere un maestoso tour in Germania, nonostante gli ufficiali nazisti considerino la sua musica degenerata

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Con Django di Étienne Comar la memoria cinematografica va a Emmet Ray/Sean Penn, l’immaginario chitarrista jazz di Accordi e disaccordi che si infuriava al pensiero di essere secondo al grande (e reale) stimato suo rivale, Django Reinhardt per l’appunto. Il genere mockumentary scelto da Woody Allen per raccontare di un talento tormentato, lascia il posto al biopic di una figura leggendaria sopravvissuta alla seconda guerra mondiale grazie al suo genio artistico. Il produttore e sceneggiatore francese Comar (Uomini di Dio, Timbuktu, Il mio re) esordisce alla regia a ritmo di swing e blues per riportare alla memoria la persecuzione della comunità rom perpetrata dai tedeschi, e dai francesi, ai tempi del secondo conflitto mondiale. Viene da pensare a una scelta politica del festival, a uno schieramento a supporto delle minoranze e contro ogni forma di persecuzione a loro danno, sicuramente un concetto che non fa male ribadire in questi tempi bui e di dolorosa chiusura all’altro-da-noi. La posizione per così dire politica della Berlinale non è di certo una sorpresa: basti pensare all’Orso d’Oro 2015, Taxi di Jafar Panahi, al 2016 con il trionfante Fuocommare di Gianfranco Rosi. Vince il cinema si, ma il cinema oppresso dal potere, il cinema dei migranti che ogni giorno rischiano la vita. Django, seppur non sia l’Orso d’Oro di questa edizione, sembra voler rimarcare uno statement.

Reda Kateb veste impeccabilmente i panni dell’artista dal baffo inconfondibile, nato in Belgio in una famiglia rom e apprezzato nella Parigi culla di cultura e plaisir. Django vive con la madre, interpretata da BimBam Merstein, e con la moglie Naguine (Beata Palya). Corre l’anno 1943 e Django è “invitato” (non pare abbia altra scelta) a compiere un maestoso tour in Germania, nonostante gli ufficiali nazisti considerino la sua musica degenerata. La sua amante (Cécile de France), che poco si fida dei tedeschi, convince lui e la sua famiglia a spostarsi ai confini con la Svizzera per poi oltrepassarli e mettersi al sicuro.

Comar sceglie un preludio mortifero prima di presentarci Django attraverso la sua musica. Il film si muove entro le due coordinate, di morte/guerra e musica, laddove quest’ultima incarna l’evoluzione della Storia e di Django stesso, per il quale essa è all’inizio pura manifestazione dell’estro artistico, poi inno alla resistenza e infine un canto luttuoso – nella magnifica e dolente esecuzione finale della composizione perduta “Requiem for Gypsy Brothers”.  Se la musica coinvolge, traina e punteggia i passaggi temporali ed emozionali, nonché la posizione di Django rispetto alla guerra – il cui pensiero di partenza era “Questa non è la mia guerra”, la scrittura è superficiale e non tiene il passo. Ad esclusione del linguaggio musicale, della brillante performance di Kateb sull’esecuzione del chitarrista rom Stochelo Rosenberg e del cast principale, il film soffre. E noi con esso. Povero di affondi nei personaggi e di rotondità nel dettagliare le tensioni, Django appaga l’orecchio e trascura lo sguardo.

Pregevole, invece, l’esordio alla regia di Amman Abbasi, Dayveon, presentato al Sundance e a Rotterdam e nella sezione Forum della Berlinale. In una piccola città rurale dell’Arkansas, il 13enne Dayveon soffre per la perdita del fratello morto ammazzato. Tra iniziazione e affiliazione alla gang locale, amicizia sincera e dolore per l’assenza, il film conduce il suo viaggio introspettivo nella vita del protagonista seguendo le dicotomie innocenza e violenza, natura e rapporti umani. Muovendosi entro i confini del documentario etnografico, Abbasi si avvicina con rispetto al suo personaggio, si addentra nel suo mondo fatto di vuoti incolmabili, perdite affettive e di modelli e inquadra, partecipe, la sua ricerca di significato e appartenenza. La cornice del formato 4:3 racchiude la storia di un piccolo uomo che si sente solo e non riesce a comprendere il mondo che lo circonda. Potente è la scena iniziale, con Dayveon in giro in bicicletta e la voice over dei suoi pensieri che rimarca il suo smarrimento e quanto tutto gli appaia stupido.

La sua fascinazione per le armi, la partecipazione ad atti vandalici, l’incomunicabilità con la sorella e il suo compagno sempre pronti ad ascoltarlo, sono una tappa verso la conoscenza di sé e comprensione del mondo che Dayveon affronta mentre cerca di dare un senso alla vita e alla morte. Lavoro di rara onestà e verità, Dayveon finisce però quasi all’improvviso, o forse è la sensazione che si ha, di una chiusura arrivata bruscamente dopo uno sguardo che si prende il suo tempo per lasciarci entrare nel racconto di una vita possibile.

Francesca Vantaggiato

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  • Anno: 2017
  • Durata: 117'
  • Distribuzione: Good Films
  • Genere: Biografico
  • Nazionalita: Francia
  • Regia: Étienne Comar