Sinossi: Tutto si svolge nell’arco di un giorno e di una notte a Kabukicho, il quartiere a luci rosse di Tokyo, sotto lo sguardo stralunato e rassegnato del giovane Toru. E’ lui che dirige, con pigrissima rassegnazione, lo squallido Atlas, uno dei tanti alberghi dell’amore, ed è sempre lui che, suo malgrado, fa da sponda al via vai, alle tresche, ai naufragi dei personaggi: amanti clandestini, ragazze fuggite di casa, finti talent scout, vere attrici porno, escort malinconiche, fidanzati ignari, donne delle pulizie che non sono chi dicono di essere, clienti che s’innamorano, aspiranti artiste che non disdegnano le scorciatoie.
Recensione: Tokyo Love Hotel (“Sayonara Kabukichō”) è l’ultima fatica di Ryūichi Hiroki ed è stato presentato al Far East Film Festival di Udine nel 2015. Il regista nipponico viene dal pinku eiga: quelle pellicole soft-core che ebbero un enorme successo nell’Arcipelago negli anni ’60, il vero marchio di fabbrica della casa di produzione Nikkatsu. Dunque, Hiroki e il sesso sono bene in sintonia. Autore abbastanza apprezzato in Patria (classe 1954), finalmente lo possiamo conoscere pure in Italia, grazie a una commediola come questa, con poche pretese e stilisticamente anonima, ma che lascia sicuramente “riempiti” alla fine della proiezione. Certo, magari quello di Tokyo Love Hotel è un racconto apparentemente naïf, ma lo è solo per chi di Giappone mastica poco.
Kabukichō (歌舞伎町) è un quartiere a luci rosse di Tōkyō, situato all’interno di Shinjuku. Qui vi è una alta concentrazione di love hotel, night club, bordelli e locali per adulti. Ma cosa sono questi love hotel? È fondamentale capirlo, anche perché tutto il film è incentrato proprio su uno di questi. Brevemente, sono degli alberghi sì, ma dove si va esclusivamente per fare sesso. Sia chiaro, non bisogna assolutamente confonderli con una specie di casa di tolleranza camuffata. In Giappone, differentemente che da noi, è inconcepibile avere dei rapporti intimi in macchina; come del resto non li si può consumare nella propria cameretta presso la casa dei genitori. Ragion per cui, sono stati creati questi luoghi, i love hotel per l’appunto, dove recarsi per fare sesso nella più totale riservatezza. Ci vanno gli innamorati, come i clienti delle prostitute. Puliti, silenziosi e discreti questi alberghi “speciali”… insomma, giapponesi!
Il lettore che, bontà sua, ci legge da tempo avrà notato che abbiamo parzialmente abbandonato quella nostra gravità crociana nel modo di scrivere di cinema. La pellicola di Hiroki incoraggia a tenere il “cuore leggero”, ma, come vedremo, non la mente. Sesso, umorismo, tanta speranza, questi sono gli elementi che connotano il film. Tutto si svolge nell’arco di un giorno e di una notte a Kabukichō, davanti allo sguardo stralunato e rassegnato del giovane Tōru, che lavora dentro l’hotel Atlas, che funge da palcoscenico per questa opera corale, popolata di personaggi tutti al limite: amanti clandestini, ragazze fuggite di casa, finti talent scout, attrici porno, escort malinconiche, donne delle pulizie; ognuno dei quali finge nella vita di tutti i giorni di essere diverso da quello che è quando varca le porte dell’Atlas.
Mentre si guarda rilassati Tokyo Love Hotel, sembra quasi di stare all’interno di uno dei libri di Haruki Murakami. Non è un caso, forse, che il protagonista del suo celeberrimo romanzo Norwegian Wood (1987) si chiami anche egli Tōru e, alla stregua di quello del film di Hiroki, funga da “lente di ingrandimento” su di una Umanità in fuga, in un Giappone spersonalizzato, ma pur sempre avvincente. Come anche la location (l’hotel Atlas) tanto ricorda il mitico Dolphin Hotel di un altro bellissimo romanzo di Murakami: Dance Dance Dance (1988). Se un film, per quanto “leggero”, richiama emozioni presenti in un autore come Murakami, che, malgrado abbia la insopportabile tendenza ad annullare la propria matrice culturale nelle sue storie, è comunque capace di raccontare, alla fine la pellicola in questione così frivola non può essere. Infatti, in essa si prende di petto la contemporaneità del Giappone, attraverso continui riferimenti alle problematiche che affliggono oggi la società dell’Arcipelago: la forte e dinamica immigrazione coreana, le conseguenze del Disastro di Fukushima dell’11 marzo 2011, nonché la fine, persino da loro, del cosiddetto welfare. Vi è altresì una armonia tra interni ed esterni e un suggestivo rispetto della unità aristotelica del “tempo”.
In sintesi, Tokyo Love Hotel è un’opera “simpatica” e, come abbiamo evidenziato, sotto alcuni aspetti persino intelligente. Piacevolmente autoriale la scelta di utilizzare un albergo come centro della narrazione: un luogo vuoto, senza una propria anima, che si riempie di quelle di chi lo abita per periodi brevissimi, per poi risvuotarsi e così via. In modo assai spensierato, Ryūichi Hiroki affresca uno spaccato assolutamente veritiero e coraggioso del suo Paese. La “Decade Dimenticata” (失われた10年, “Ushinawareta Jūnen”), creatasi dopo la crisi della “Bolla Immobiliare” di fine anni ’80, ha segnato il Giappone. Non più la seconda potenza economica al mondo dopo l’Impero Americano. I figli del Sol Levante si sono smarriti, per ritrovarsi poveri, e nulla è ormai garantito. Il Premier “duro e puro” Shinzō Abe sta tentando di ridare un ruolo internazionale alla sua Nazione, ma sino a quando il Giappone insisterà nell’essere il “giocattolino asiatico”, insieme alla Corea del Sud, degli statunitensi, ciò non sarà possibile. Un plauso dunque a Hiroki, che fa notare, ad esempio, come senza l’assicurazione sanitaria non ci possa più curare nell’Arcipelago. Assicurazione sanitaria privata, non ci ricorda forse qualcosa?
Riccardo Rosati