Con Jaco, presentato ad Alice nella Città, nella sezione Onde Corte – Concorso Panorama Italia, Alessandro Penta costruisce un cortometraggio che è insieme esperienza sensoriale e riflessione morale. Un film che parte dalla materia viva — la pelle, la polpa, la terra — per arrivare a interrogare, in una climax discendente di quattro fasi, la tensione tra desiderio e appartenenza, tra fame e libertà.
Jaco: un’estate sospesa
L’azione si colloca nell’estate del 1987, un tempo che oggi appare remoto ma familiare, sospeso fra un passato ancora contadino e un futuro che preme alle porte. Forse è proprio lì che si innesta il senso più sottile del film: quasi quarant’anni dopo, molte conquiste sembrano ormai acquisite, ma altre sfide — quelle più intime, legate alla libertà dei corpi, alla vergogna, alla misura del desiderio — restano ancora aperte. Le pecore che attraversano l’inquadratura, i panni stesi, i ruderi di campagna: segni di una modernità che non ha mai davvero cancellato il suo fondamento arcaico.
La fame e il frutto
La prima immagine è luminosa, quasi edenica: un gruppo di tre ragazzi — Jaco (Nicolò Marabini), Anna (Camilla Ferrara) e Leo (Strato Marino) — raccoglie fichi in una campagna assolata, immersa in una naturalezza disinibita. Le chiacchiere scorrono sciolte, la macchina da presa indugia sui gesti, sui corpi, sulla materia stessa del frutto. Il fico, afrodisiaco, umido, dolce, metafora di una sensualità che pulsa nella natura e nelle relazioni.
Penta costruisce qui un ritmo carnale che percorre tutti i 15 minuti: dopo corpi madidi che si sfiorano, la camera si posa sulle masticazioni aggressive in un pranzo di famiglia, sugli atti che si ripetono con una fame, forse non solo fisica ma esistenziale. Una fame di vita, di contatto, forse di peccato.
Dal convivio alla costrizione
Quella vitalità iniziale si incrina. Il film si sposta verso un’altra collettività, quella del pranzo familiare, dove la convivialità diventa costrizione. Le stesse bocche che prima si aprivano alla spontaneità ora sembrano chiuse, rigide e impastate dal silenzio. La luce, sparata e sovraesposta, abbaglia i volti, rendendo la scena più asettica, innaturale: come se il sole d’estate, invece di scaldare, mettesse a nudo la finzione del legame familiare.
Nel mezzo, Jaco diventa il perno di una sofferenza taciuta, compressa sotto la superficie. È un giovane che sente il peso delle radici, di un’appartenenza che limita il corpo e lo spirito. La madre, libertina e distratta — forse più vicina ai tempi moderni —rappresenta una libertà solo apparente. Superficialità vestita di leggerezza; il padre, invece, incarna la rigidità di un ordine morale che soffoca fino a implodere.
La fuga e la ferita
L’esplosione arriva nel finale, quando la parola, fino a quel momento trattenuta, deflagra in un dialogo tagliente, un ricatto morale che mette a nudo il conflitto generazionale.
È qui che Jaco si sveste, letteralmente e simbolicamente, dei panni del figlio, per diventare un corpo che reclama la propria autonomia. Nudo, segnato dal sole e dalla terra che lo ha generato, corre verso una libertà che sa già di perdita, come se la campagna stessa, con le sue radici e i suoi frutti, lo destinasse alla sconfitta.
Con pochi elementi e una regia viscerale, Penta costruisce un corto sulla tensione fra natura e cultura, fra desiderio e vergogna, che trova nel corpo, nelle pelli, nel contatto, nella materia viva, il suo campo di battaglia.
Jaco è un film che mastica la realtà, la gusta, la respinge e infine la espelle in un grido di emancipazione. Ambientato in un’estate lontana, ma ancora presente nei nostri corpi e nelle nostre regole non scritte, è un ritratto del dolore di crescere, del bisogno di liberarsi, anche a costo di restare soli sotto il sole, con la pelle nuda e la fame ancora addosso.