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‘ARCA’ alla Settimana della Critica: parla Lorenzo Quagliozzi

Un cortometraggio come mosaico di frammenti: quando il montaggio diventa linguaggio

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Cosa succede quando Hitchcock “resuscita” grazie all’intelligenza artificiale? E come si trasforma l’Ikea in un corridoio rosso da fantascienza? Sono solo alcuni degli spunti che troviamo in ARCA, il nuovo cortometraggio di Lorenzo Quagliozzi, presentato alla Settimana Internazionale della Critica di Venezia, che successivamente ha vinto il premio Fedic per il miglior cortometraggio.

Classe 1999, Quagliozzi è una delle voci emergenti più interessanti del panorama italiano. Dopo il successo di De l’amour perdu (2023), già acclamato nella sezione SIC@SIC, il regista torna al Lido con un’opera che gioca tra archivio, found footage e nuove tecnologie, interrogandosi sul futuro del cinema e sulle possibilità di raccontare l’umanità in modi sempre diversi e inaspettati.

Il tuo film si apre con una voce di Hitchcock ricreata con l’intelligenza artificiale. Com’è nata questa scelta? E, secondo te, l’IA può essere davvero uno strumento utile per i registi o rischia di diventare un nemico?

Onestamente non l’avevo considerato inizialmente. Il prologo era previsto, ma non prevedeva questo intervento vocale. Una volta che ho scoperto questa possibilità mi è sembrata un’integrazione meno scontata, più giocosa, e che comunque rientrasse in quello che considero un legittimo uso dell’intelligenza artificiale.

Di per sé non mi spaventa, perché non credo che l’intelligenza artificiale sia – come posso dire – una forma di esproprio proletario. Non credo che l’IA sia un modo per soppiantare i problemi di budget. L’unico modo che ritengo non solo giusto ma anche funzionale per risolvere i problemi economici è il lavoro del regista. Se non c’è il budget per fare qualcosa, è compito del regista trovare una soluzione e un modo nuovo per raccontarla. È così che il cinema è sempre evoluto: proprio a partire dai limiti di budget.

L’IA non credo elimini queste limitazioni. Semplicemente crea un’immagine piatta, che magari serve a collegare un passaggio o a riempire un vuoto, ma rimane sempre piuttosto staccata da un film realmente girato. Io questo non lo volevo: infatti non ho usato l’IA per la parte visiva.

Poi bisogna anche chiarire cosa intendiamo per intelligenza artificiale. Anche i programmi di montaggio hanno tolto molta manualità al lavoro sulle immagini: svolgono azioni che noi decidiamo, ma lì il controllo resta completamente nelle mani di chi lavora. Con l’IA invece no: ti crea un’immagine ad hoc sulla quale, secondo me, hai un controllo molto limitato – almeno per quello che ho visto finora.

Non dubito che in futuro qualcuno potrà usarla per aprire strade nuove. Solo che non credo che la via dell’IA sia quella di soppiantare banalmente i limiti di budget dei registi. La vedrei più come una resa, e non come una sfida.

Qual è stata la sfida più grande nel trasformare i luoghi reali del cortometraggio in un universo fantascientifico? C’è un’inquadratura o una location di cui sei particolarmente orgoglioso?

C’è una delle nostre riprese più vecchie: un’inquadratura in un corridoio rosso. In realtà non era affatto rosso, è stato modificato al computer. La scena l’abbiamo girata nei sotterranei di Ikea, e ci sono molto affezionato perché in quel caso ero riuscito a portarmi a casa un risultato che non pensavo possibile. Avevo 16 o 17 anni al massimo, ero davvero molto giovane, ma in qualche modo riuscii a far funzionare il girato.

Il montaggio del corto è stato descritto come un dialogo tra frammenti della storia del cinema. C’è un messaggio che emerge da questa giustapposizione di immagini che non sarebbe stato possibile ottenere con un racconto lineare?

All’inizio non sapevo bene come realizzare la scena. Pensavo di far tornare tutti i personaggi sotto forma di silhouette, cioè come ombre. Il problema è che, a parte figure molto riconoscibili come Topolino, non tutti i personaggi risultavano leggibili sotto forma di ombra.

Così ho cominciato a valutare l’idea di usare footage di alcuni film, ma inizialmente non funzionava: un po’ per via della color correction, che non tornava, un po’ perché le espressioni dei personaggi non comunicavano ciò che serviva alla scena. Poi, piano piano, è venuta fuori l’idea di ambientare la sequenza al tramonto. Questa scelta mi ha permesso di creare tre situazioni di luce diverse dentro la stessa scena, grazie alle quali ho potuto adattare meglio le immagini d’archivio. Se una color non funzionava con il sole pieno, potevo collocarla in un momento di luce più bassa, o all’ombra, e così via.

Arca

C’è stato quindi un grosso lavoro di conformazione delle immagini originali. Naturalmente la scena non avrebbe avuto lo stesso impatto senza quell’intervento.

Nel cortometraggio ARCA si parla di un programma segreto per salvare l’umanità: se pensiamo al cinema di oggi, quali strategie o attenzioni servirebbero per garantirgli un futuro?

Il problema è che oggi siamo sommersi da tantissime forme di intrattenimento, e questo consumo compulsivo ha tolto importanza anche alle cose più rilevanti. Il cinema non occupa più lo stesso ruolo che aveva nella società un tempo.

Non saprei dire cosa farei di preciso. Per esempio, quando avevo 14 o 15 anni – quindi già solo dieci anni fa – trovare certi film non era così semplice. Oggi invece ci sono tante piattaforme, da Mubi a Netflix, che mettono a disposizione moltissimi titoli del passato. Quindi una forma di preservazione in realtà esiste.

Il problema è che pochi vanno davvero a cercare quel materiale. Rimane disponibile online, certo, ma spesso resta invisibile perché manca il desiderio da parte del pubblico di riscoprirlo. Quindi non è più un problema di accessibilità, quanto di volontà. È come se avessimo perso l’abitudine, o la curiosità, di tornare a un certo modo di vedere il cinema.

Arca