In Family Feast, presentato alla Settimana Internazionale della Critica, Nadir Taji utilizza un linguaggio cinematografico sobrio e misurato, fatto di silenzi prolungati, inquadrature lente e dettagli domestici che amplificano la tensione emotiva. La sua regia attenta ai cortocircuiti emotivi e culturali, nonostante la giovane età, mostra una notevole maturità nel trattare con rigore un tema delicato e complesso.
La scena d’apertura: un rituale e una crepa nell’armonia
La vicenda si apre con una sequenza rituale, seguita subito dall’immagine di una tavola imbandita. È un momento di festa, con luci calde e gesti familiari. Ma in questa cornice tradizionale si insinua presto una crepa. Hassan, figlio di Karim e Naima, rivolge attenzioni inopportune ed esplicite alla cugina dodicenne Jamila. Un richiamo materno interrompe l’azione, ma la tensione ormai è entrata nella scena. Lo sguardo lento della camera, che alterna primi piani di Hassan e Jamila durante il pranzo, amplifica un senso di inquietudine che diventerà il nucleo emotivo del film.
Festa in famiglia – Settimana Internazionale della Critica
Il conflitto morale: silenzio o verità?
Taji costruisce la rivelazione con delicatezza ma senza edulcorare il tema: pochi gesti, silenzi prolungati e l’uso strategico delle porte socchiuse, come nel confronto in bagno tra Milouda e Naima. La prima vuole parlare apertamente a Said, la seconda invoca il silenzio per “non rovinare la famiglia”. È in questo scambio che il film mette a fuoco il proprio conflitto morale: la protezione dell’immagine familiare contro la responsabilità verso la verità e la giustizia.
La negazione dell’evidenza: “Non è successo niente”
Il racconto procede come una partita a scacchi emotiva. Said, messo di fronte all’accaduto, reagisce con rabbia, ma la pressione di Karim e Naima lo porta progressivamente a ritrattare, arrivando a negare l’evidenza.
“Non è successo niente”
è la frase che pronuncia per rassicurare i parenti prima della partenza, risuona come il colpo più devastante, cancellando simbolicamente la voce di Jamila, che resta ai margini della narrazione.
La regia insiste su dettagli domestici — il frigo sullo sfondo, lo specchio del corridoio, le porte che separano e insieme collegano gli spazi — per trasformare l’ambiente familiare in un luogo di claustrofobia morale. Il ritmo lento e i colori caldi generano un contrasto disturbante: l’armonia visiva avvolge un conflitto etico corrosivo.
Il meccanismo del silenzio e l’ultimo scatto di impotenza
Se la protagonista bambina rimane volutamente sfocata nella costruzione dei rapporti di potere, è perché Family Feast sembra voler raccontare soprattutto il meccanismo del silenzio: come gli adulti, uno dopo l’altro, scelgano di proteggere la struttura familiare più che i suoi membri vulnerabili. L’ultimo scatto di Karim, che attacca fisicamente suo figlio quando ormai la frattura è insanabile, è insieme una punizione tardiva e un atto di impotenza, privo della forza risolutiva che la verità avrebbe richiesto fin dall’inizio.

Un cortometraggio incisivo e dal peso morale
Family Feast di Nadir Taji è un film breve ma incisivo, che lascia addosso il peso di un dilemma irrisolto. Attraverso un uso calibrato del tempo e dello spazio, costringe lo spettatore a sostare nello spazio scomodo dove l’amore per la famiglia e il dovere verso la giustizia collidono senza compromesso.