Il finlandese Aki Kaurismäki nel 1986 dà il via a un trittico di film con protagonisti gli emarginati della classe media di Helsinki. I proletari, coloro che in qualche modo si adattano alle loro condizioni, senza smettere al contempo di sperare in un futuro migliore. Kaurismäki dipinge un’altra faccia della sua terra natia, sottolineando lo sfruttamento disumano dei lavoratori scandinavi e il modo in cui le precarie condizioni di lavoro influiscono sull’incapacità di creare rapporti o relazionarsi ad altre persone. L’insopprimibile desiderio di fuga, dal loro Paese, dalla loro condizione sociale, dai loro ideali, dalla loro alienazione, rappresenta il nirvana dei protagonisti per sfuggire alla mediocrità delle loro esistenze, sia sul piano umano che professionale.
L’intera trilogia è disponibile su MUBI
Ombre dal paradiso: l’incomunicabilità al centro del racconto
In Ombre dal paradiso (1986) Nikander (Matti Pellonpää) è un disincantato netturbino che, finito il turno, passa il tempo a fumare e bere alcolici. Ilona (Kati Outinen) è una cassiera insoddisfatta della sua condizione che ritroverà, proprio nell’incontro con Nikander, un senso nella sua esistenza. La loro relazione sarà messa a dura prova principalmente a causa dell’incapacità di entrambi di intrattenere rapporti sociali per via dell’alienazione che permea le loro vite, dovuta a una difficile condizione di precarietà lavorativa.

Una scena di ”Ombre dal paradiso’
Con il primo capitolo Kaurismäki mette al centro proprio gli effetti dello status del proletario sull’indole della persona, a sua stessa insaputa. Essere costretti a trascorrere le proprie giornate in maniera funzionale solo al lavoro, apaticamente e con ritmi estenuanti, finisce per disumanizzare l’uomo, annichilendo i suoi naturali tratti distintivi quali l’empatia, l’emotività e l’interazione con gli altri. Ombre del paradiso è, forse, il migliore della trilogia proprio perché il messaggio del regista è messo in scena nella maniera più semplice e genuina possibile, senza per questo risultare didascalico. Lo stesso finale, con l’agognata fuga dei due protagonisti, dimostra la speranza che il regista ancora nutre per il riscatto della classe operaia (la stessa, forse, che nutriva Elio Petri al termine de La classe operaia va in paradiso).
Ariel: il citazionismo fatto bene
Taisto (Turo Pajala) e Irmeli (Susanna Haavisto) sono due sconfitti, emarginati, che si arrangiano come possono. L’uno, appena arrivato a Helsinki in cerca di fortuna, l’altra, madre single bramosa di riscatto. Dopo essere finito ingiustamente in prigione, Taisto elaborerà un piano tutt’altro che onesto per fuggire dal Nord Europa e iniziare una nuova vita insieme a Irmeli, che tuttavia avrà risvolti imprevisti e surreali.

Una scena di ”Ariel”
Ariel (1988) riparte dalla stessa base del film precedente (un uomo e una donna, disillusi e squattrinati, ansiosi di ricostruire la propria vita) per poi percorrere, nella seconda parte, un cammino più nazional popolare. Il film con più citazioni della trilogia, mosso dalla volontà di allargare il suo pubblico. Un “pastiche”, realizzato comunque con classe e rispetto. Questo nuovo capitolo cerca di rifarsi alle dinamiche del polar francese, con sprazzi chapliniani (ripresi nel recente Foglie al vento) e sottili familiarità col Fuori orario di Scorsese . Ciò nonostante, Kaurismäki rimane fedele alla sua etica e sottolinea nella sua opera come la mancanza d’identità diventi la principale barriera per il salto di qualità delle vite dei protagonisti. Un film minimalista, tanto nell’interpretazione quanto nella parte tecnica, con una riuscitissima alternanza di momenti malinconici, teneri e leggeri.
La fiammiferaia: il lato oscuro della rivalsa sociale
Iris (Kati Outinen) è una giovane donna che lavora in una fabbrica di fiammiferi, dalla vita paurosamente monotona, vuota e ripetitiva. Si sente oppressa da una famiglia bigotta e dalla mancanza di prospettive. Conoscerà poi un breve momento di rivalsa grazie all’incontro casuale con un uomo e al sogno di un amore duraturo. Quando anche questa speranza sfumerà davanti ai suoi occhi, Iris manifesterà la sua frustrazione nella maniera più tragica possibile.

Una scena de ”La fiammiferaia”
L’ultimo capitolo, pur non lasciandosi divorare in toto dalla sua cupezza, si attesta come il più pessimistico dei tre. Gli elementi di alienazione, che nelle precedenti pellicole fornivano le motivazioni ai protagonisti per ribaltare le proprie condizioni, ne La fiammiferaia (1990) sono amplificati all’estremo. Iris è il personaggio più cupo e alla deriva della trilogia. Parla poco, esprime tutto in maniera gestuale e meccanica, come gli strumenti della fabbrica per cui lavora. Il suo modo di agire rappresenta l’altro lato del riscatto sociale, quello di chi trova nella vendetta l’unico senso di rivalsa personale per una vita condannata all’indolenza. Kaurismäki ha voluto completare il discorso sul proletariato mettendo al centro in tutti i sensi un perdente, qualcuno che alla fine non ce l’ha fatta, a cui vengono negati i mezzi per migliorare il suo stato sociale e le cui flebili ambizioni vengono stroncate sul nascere.