Nelle scene iniziali di Nobu, lo chef Nobu Matsuhisa presenta il suo sashimi, un piatto simbolo: perfettamente rosato, tagliato in modo uniforme, che sboccia su piatti bianchissimi, ogni pezzo intriso di miso. È un balletto minimalista di colori e consistenze, una festa per gli occhi che rispecchia la maestria dietro l’impero in crescita di Nobu.
Diretto da Matt Tyrnauer, il documentario immerge gli spettatori in quella stessa eleganza sensoriale, dipingendo il ritratto di un uomo la cui cucina è una galleria e i cui piatti, capolavori.
Un viaggio travagliato da Tokyo a Lima
Sebbene oggi Nobu evochi il lusso in tutto il mondo, la sua storia è iniziata con umiltà. A 17 anni, Matsuhisa iniziò un estenuante apprendistato di sette anni in una sushi house di Tokyo. Il suo primo momento di trasformazione arrivò a Lima, in Perù, dove abbracciò la cucina Nikkei, fondendo il piccante chili, il fragrante coriandolo e il classico ceviche con la precisione giapponese.
Ma non fu tutto rose e fiori: il proprietario del ristorante di Lima spinse per un pesce più economico per aumentare i profitti, innescando il capitolo successivo di Nobu.
Quasi al collasso ad Anchorage
Il film assume una piega intima quando Matsuhisa riflette sull’apertura di un ristorante ad Anchorage, in Alaska. La tragedia lo colpì quando il ristorante andò a fuoco, senza assicurazione.
“Era davvero sull’orlo del baratro e pensò al suicidio”,
racconta il regista Matt Tyrnauer. Questo punto più basso spinse Nobu a tornare in Giappone in cerca di chiarezza e negli Stati Uniti in cerca di opportunità, approdando infine a Los Angeles, pronto a ricostruire da zero.
Los Angeles e l’effetto Hollywood
Nel 1987, Nobu ci riprovò, aprendo il suo ristorante omonimo a Los Angeles. La punta di diamante della critica gastronomica – Ruth Reichl del Los Angeles Times – lo definì “sensazionale”.
Entra in scena Robert De Niro, convocato dai colleghi e subito incantato dal genio di Nobu. La sua improvvisa offerta di aprire a New York si sarebbe trasformata in un’amicizia e una collaborazione che avrebbero rimodellato il percorso di Nobu.
De Niro: più di una figura da poster
Ciò che distingue questa storia è il coinvolgimento attivo di De Niro. Non si è limitato a prestare la sua fama e andarsene, ma ha plasmato il marchio. Secondo Tyrnauer, fu De Niro a spingere per il nome del flagship store di Manhattan “Nobu” anziché “Matsuhisa”, gettando le basi per l’impero globale che ne sarebbe seguito.
Le loro discussioni in sala riunioni, immortalate con schiettezza, mostrano l’intensa tensione creativa che si cela dietro ogni espansione strategica.
Un impero in divenire
Oggi, Nobu conta 55 ristoranti e 45 hotel in tutto il mondo, da boutique hotel in hotel di scambio a destinazioni di lusso indipendenti. Nobu cattura momenti di questa crescita in movimento: dibattiti sulla gestione, assunzione di rischi e il sangue, il sudore e la consapevolezza che definiscono l’ospitalità di alto livello.
È una storia di resilienza abbinata a un’ossessiva ricerca della perfezione.
Il perfezionista e la sua umanità
Anche i maestri inciampano. In una scena piacevolmente vulnerabile, Nobu lascia cadere i noodles durante una ripresa dal vivo. Il suo raro imbarazzo è viscerale, una crepa nell’armatura di una disciplina zen.
“È una storia umana”,
spiega Tyrnauer.
“Ha fatto cadere i noodles per terra… Ma per me, quello doveva essere un punto di forza”.
Sì, lo adoriamo per aver creato impeccabili nigiri di toro, ma questo momento senza filtri dimostra che l’uomo dietro il mito è affascinante quanto lo chef.
Assaporare la storia dietro il brand
Nobu è una lezione di equilibrio, che unisce il piacere visivo alla profondità narrativa e alla verità emotiva. È una testimonianza di arte culinaria, spirito imprenditoriale e resilienza umana.
Che abbiate cenato con il franchising globale o abbiate provato il sushi bar della sua città natale, il documentario di Matt Tyrnauer presenta lo chef, l’uomo e il mondo che ha costruito: ogni livello è ricco, complesso e innegabilmente degno di attenzione.
Fonte: Deadline