Scritto e diretto da Claudio Giovannesi, e uscito nelle sale distribuito nelle sale da Vision Distribution, è il racconto di una città che diventa il riscatto di un’esistenza messa a nudo dalla Storia.
In attesa di vederlo su Sky e Netflix della costruzione del film, dei temi e dei suoi attori abbiamo conversato con Claudio Giovannesi.

Claudio Giovannesi e il suo Hey Joe
Hey Joe si apre con un campo lungo a camera fissa che si sofferma sui resti di un quartiere di Napoli sventrato dai bombardamenti della seconda guerra mondiale. La solenne evidenza di quell’immagine sembra trasfigurarne il principio di realismo amplificandone le valenze simboliche. Come una sorta di Ground Zero primordiale, la sequenza ci ricorda che le guerre sono tutte ugualmente tremende anche nella loro ineluttabilità. Per non parlare della voragine scavata dalle bombe, ventre della città stuprata dal conflitto a cui allude la scena seguente con le donne che offrono ai soldati americani il loro sesso come merce di scambio.
Quello che hai detto è molto preciso. Nella scena iniziale volevamo racchiudere tutta la dimensione tematica. Come dicevi, qui si trattava di raccontare le conseguenze della guerra attraverso il racconto di due passati, quello del 1971 e un altro ancora più remoto, collocato nel 1944. Ciò ha implicato un grosso sforzo produttivo giustificato dalla volontà di trovare nel passato un’assonanza con le vicende di oggi e purtroppo anche di quelle che verranno. Almeno per me era importante uscire dalla contingenza del racconto d’epoca per puntare a una dimensione più universale, quella che da un punto di vista psicoanalitico guardava all’assenza della figura paterna e alla costruzione del rapporto padre-figlio. Il secondo conflitto bellico mi interessava per la possibilità di riflettere in senso più ampio sugli effetti delle guerre nella vita della gente. Se guardi le immagini di Gaza ti accorgi che le macerie sono sempre identiche così come il fatto che a pagare sono sempre donne e bambini.
La sequenza iniziale è il risultato di tre grandi opere che abbiamo imparato a memoria, ovvero Napoli 44 di Norman Lewis che ci ha aiutato a trovare scenografie e atmosfere e ancora La galleria di John Horne Burns e La Pelle di Curzio Malaparte in cui Napoli veniva raccontata per quello che era, un bordello a cielo aperto in cui la fame veniva sfamata attraverso il sesso di madri che vendevano se stesse e i propri figli. Da qui la prevalenza dell’elemento femminile che abbiamo voluto raccontare non per andare incontro allo spirito del tempo ma proprio perché lo abbiamo ritrovato con abbondanza nei diari e nella documentazione consultata per preparare il film.
Sempre nella prima sequenza la prossemica dei soldati fornisce ulteriori informazioni. Il fatto che Dean proceda isolato dal resto del gruppo – e anche il fatto di essere un marinaio e non un soldato di terra – anticipa la diversità del protagonista che a un certo punto decide di assumersi le proprie responsabilità tornando a Napoli per incontrare il figlio mai conosciuto.
La scena iniziale ci mostra questo ragazzino che sta andando a un appuntamento con la ragazza che la signora ha promesso di farle conoscere, quindi si presenta con cibo e doni. Il suo atteggiamento è un po’ diverso dal soldato che va a divertirsi al bordello. C’è ancora un minimo di spensieratezza ma questo non giustifica la colpa, perché il rapporto d’amore con quella ragazza si basa sulla gerarchia che mette di fronte vincitori e sconfitti.

Rimediare ai propri errori
Parliamo di un rapporto che è anche mercantile.
Totalmente mercantile. Non è la storia d’amore di due adolescenti, o almeno lo è, però nasce dal bisogno, dalla necessità e da una sorta di potere perché portare del cibo a una giovane donna e in cambio ricevere amore non è un sentimento alla pari.
Hey Joe in qualche maniera è anche il racconto dell’ultima occasione di un uomo per rimediare ai propri torti. L’urgenza di tornare sui propri passi e la forza dei sentimenti che spingono Dean a tornare a Napoli è resa dalla continuità con cui il montaggio mette insieme il presente e il passato della storia, come se il secondo nascesse dal primo. D’altronde nel rapporto con l’entreneuse Dean rischia di reiterare ancora una volta il rapporto mercantile che aveva caratterizzato la relazione con la madre di suo figlio.
Lì c’era anche un discorso storico nel senso che negli anni settanta, con la nascita della società dei consumi, Napoli era ancora condizionata dalla presenza degli americani e della base Nato che attraverso una sorta di economia informale riproponeva il confronto tra una società opulenta e un’altra povera e distrutta. Questo crea una sorta di comportamento ambivalente di amore e ferocia verso l’America, allo stesso tempo amata e odiata dalla popolazione locale.
Dean è costretto a fare i conti con questa complessità sociale di cui inizialmente anche lui è vittima. Oltre a non essere esente da colpe Dean appare inizialmente titubante nelle sue azioni e sarà solo l’incontro con Bambi a scuoterlo dal torpore esistenziale in cui è precipitato dopo la fine della guerra.
Il veterano, il contrabbandiere e l’entreneuse sono personaggi iconici, figli del proprio tempo. In particolare lo è Dean che avendo dedicato tutta la sua vita alla guerra nel momento in cui ha l’occasione di una seconda possibilità non ha gli strumenti affettivi per poterla affrontare. Anche nel rapporto con il femminile ha una dimensione sentimentale ancora primitiva e che inizia a svilupparsi a partire dall’incontro con Bambi. A questo proposito mi viene da dire che se Hey Joe fosse un romanzo sarebbe una storia di formazione.
I sentimenti nel film di Claudio Giovannesi
Una delle qualità del film è quella di affrontare i sentimenti con un approccio anti retorico. Esemplare in questo senso è la rappresentazione del reducismo di Dean di cui dai conto procedendo per ellissi senza cadere nello stereotipo.
La scrittura del film è stata lunga e difficile. Con Maurizio Braucci e Massimo Gaudioso abbiamo lavorato un anno e mezzo nel tentativo di non affidarci all’invenzione. Avendo a che fare con elementi di verità come la guerra e i soldati è venuto naturale costruire il personaggio sulla base di esperienze reali di persone che hanno avuto vite simili a quelle immaginate per il film. Ad aiutarci è stato un veterano, Andres Caceres, che ha combattuto in Iraq e Afghanistan e ci ha fatto da consulente. Questo ci ha permesso di raccontare la comunità frequentata da Dean per come veramente era, senza ricercare valenze simboliche, ma preoccupandoci di mostrare come sono gli uomini dopo aver combattuto una guerra.
All’interno di una struttura classica il film si prende delle libertà che da una parte ti consentono di evitare l’abitudine di Napoli all’autorappresentazione, dall’altra ti permettono di raccontare la storia dall’interno, grazie a passaggi improvvisi in cui passato e presente si danno il cambio senza soluzione di continuità, diventando espressione immediata del sentimento del protagonista.
Con Massimo Gaudioso ci siamo detti di raccontare il passato solo in maniera soggettiva in cui sono regia e montaggio a crearlo. In quanto ricordo, il passato è sempre soggettivo e dunque raccontato in prima persona. Se ci fai caso, a parte il prologo, pensato come un flashback, tutte le immagini del passato nascono dalla forza evocativa che luoghi e ambienti hanno sul protagonista.
La sceneggiatura
A livello di sceneggiatura il caso gioca un ruolo fondamentale. A cominciare dalla guerra i personaggi sono vittime degli eventi tanto che la storia di Dean potrebbe essere riassunta come quella di un uomo che per una volta vuole provare a essere artefice della propria realtà, anche a costo di sacrificare la propria vita. La casualità è presente nel modo in cui Dean anni dopo riceve la lettera che gli annuncia la morte della madre di suo figlio. Lo è il modo con cui il protagonista al momento opportuno si ritrova tra le mani la pistola che gli salva la vita come pure quello che gli consente di fornire al figlio l’alibi che lo salva dall’arresto. E si potrebbe andare avanti.
Sì, assolutamente. Più in generale il tentativo è quello di muoversi a partire dai sentimenti del personaggio e dunque dal rimpianto e dal rimorso per ciò che non è stato. Sentimenti che partono da un’azione svolta al presente e al futuro, ma sempre connessa con un passato che a Dean ha lasciato grande rimpianto.
Il racconto è collocato per lo più negli anni Settanta che voi avete ricreato con una fotografia in cui prevalgono i marroni e con un approccio documentaristico che si affianca a una forma più cinematografica molto vicina a quella utilizzata nel cinema della nuova Hollywood.
Il tuo è un complimento enorme. Con lo scenografo abbiamo fatto un lavoro di documentazione molto importante. Provenendo dal documentario ho bisogno io per primo di credere in ciò che sto mostrando e questo nonostante ci siano capolavori che prendono vita proprio dall’esibizione di una dimensione lontana dalla realtà. Per fortuna gli anni Settanta hanno una quantità di fotografie e questo ci ha permesso di replicare quel periodo fino al minimo dettaglio nella consapevolezza che gli anni Settanta li abbiamo visti cosi tante volte nei film che è impossibile non tenerne conto a livello visuale. Questo sempre in ragione di una ricerca di credibilità e non per un vezzo estetico.

Richiami e omaggi nel film di Claudio Giovannesi
In un film in cui c’è molta America vista dall’Italia, ma anche il contrario, ho trovato echi del cinema del passato a cominciare da C’era una volta in America nella sequenza in cui lo sguardo di Dean si apre sulla bisca clandestina ma anche di Mamma Roma, ricordato nella sequenza della cena in cui Dean figura come una sorta di Cristo tradito. Ancora ho pensato a Il cacciatore nelle scene americane e a Cruising nella trasfigurazione fotografica che accompagna Dean in quella sorta di discesa all’inferno rappresentato dall’universo del Night Club.
Cruising non l’ho ancora visto mentre Pier Paolo Pasolini c’è sempre perché in lui la messa in scena iperrealista è continuamente accompagnata dalla presenza dell’elemento pittorico. In questo senso qui c’era l’ultima cena. All’inizio non era programmata, ma farla è stato naturale. C’è da dire che è venuta fuori una scena bellissima anche perché grazie a quest’ultima si compie uno scarto che permette al film di diventare un po’ più simbolico. Nello specifico più che l’affresco di Leonardo per me la sequenza era il modo di evocare la gente povera e in particolare il mondo dei pescatori. È stata la disposizione delle panche da parte dello scenografo a darmi la possibilità di mettere in scena in maniera un po’ più iconica quella tavolata di contrabbandieri che nasce intorno alla presenza di questo straniero.
Diverso è stato l’approccio con i film degli anni settanta che sono stata una fonte diretta d’ispirazione. Con il direttore della fotografia Daniele Ciprì e l’hair stylist Daniela Tartari, abbiamo preso come riferimento Assassinio di un allibratore cinese di John Cassavetes. Se ci fai caso il colore rosso del Night Daniele l’ha preso da lì. Non è una luce teatrale ma è quella che usavano nello stage degli anni settanta che ripresa oggi ha una forza espressionista.
Tutti gli incontri tra Dean e il figlio sono segnati da un’ideale linea di divisione. La prima volta è il bar a separare i due uomini. La seconda è la porta della bisca clandestina e una terza le tende della casa nella scena in cui Dino sta riparando il motore nel cortile interno. È come se attraverso queste immagini tu anticipassi la distanza incolmabile che divide le esistenze di padre e figlio.
Questo era veramente il cuore sentimentale del film, ancora di più di quello rappresentato dall’elemento femminile. Il rapporto tra storia e film è costruito proprio su presenza e assenza, due categorie della psiche appartenenti a tutti gli esseri umani. Quando con Daniele Frabetti abbiamo lavorato sul bar dove c’è la bisca siamo stati attenti a ricostruire l’ambiente in maniera che lo spazio creato potesse visualizzare l’avvicinamento progressivo in maniera antididascalica. Volevamo avere la possibilità di raccontare il processo di avvicinamento che è appunto un incontro nello spazio. Il primo avviene fuori dal bar, il secondo dentro, dove c’è il flipper, il terzo nella bisca. Per questo abbiamo costruito quell’ambiente dal punto di vista della profondità. Complimenti a te per aver verbalizzato tutto questo.
Un’altra cosa di cui ti volevo chiedere fa riferimento a quando passi dal filmino super 8 relativo al battesimo del figlio di Dino al telegiornale in cui si parla della guerra del Vietnam. Quel passaggio ci dice che non c’è tempo di gioire perché c’è sempre una guerra da combattere.
Il confronto tra pubblico e privato è inevitabile e in quel passaggio l’ho voluto sottolineare. Da una parte abbiamo un padre che tenta di riconciliarsi con il proprio figlio, dall’altra una nazione come l’America impegnata nella guerra del Vietnam. La storia dell’occidente nel novecento è un susseguirsi di conflitti bellici e in Hey Joe Dean si trova a vivere la sua sconfitta personale e di riflesso anche quella di una nazione che sta perdendo la guerra.

Il protagonista
Nella parte del protagonista James Franco è pervaso da una malinconia struggente ma anche dallo spaesamento di chi arriva in un contesto socio culturale diverso dal suo. Volevo chiederti se nel metterlo in scena hai utilizzato in qualche modo il disagio dell’attore che si trova a recitare in una lingua non sua. Ciò detto quella di James Franco è davvero una grande interpretazione.
La prima cosa che gli ho detto quando l’ho incontrato è che doveva recitare in italiano perché se era impossibile che un ragazzo del popolo come suo figlio parlasse inglese era invece plausibile che Dean essendo stato qualche tempo a Napoli avesse imparato in maniera sporca qualcosa della lingua locale. Hey Joe è un film che nasce dall’incontro tra due lingue che corrisponde allo sforzo fatto da due esseri umani per avvicinarsi uno all’altro. Lo spaesamento di Dean è quello di un uomo americano che si trova a vivere e a recitare in un paese straniero. A James dicevo che il fatto di non capire bene cosa gli diceva l’attore che interpretava il figlio sarebbe comunque andato in scena perché corrispondeva perfettamente alla realtà della storia. Lo sforzo di comunicare e l’alienazione che ne derivava se lui lo viveva io lo riprendevo con la mdp. D’altronde la storia è vista attraverso i suoi occhi e come dice James se fosse stato un romanzo sarebbe stato scritto in prima persona.
Nella messa in scena del personaggio ciò che mi ha più emozionato è il modo in cui siete riusciti a far rivivere la versione giovane di Dean in quella più matura. Senza esagerare l’ho trovata una cosa poetica e struggente.
Come me James ha quarantasei anni. Questo mi ha permesso di capire bene le vicissitudini e i sentimenti di un uomo della sua età. Normalmente sono abituato a scegliere un attore che corrisponda all’età del personaggio. Non mi piace ricorrere al trucco per modificare gli anni degli attori perché questo toglie realismo alla loro interpretazione.

Gli altri personaggi
Nella parte di Bambi Giulia Ercolini è una vera rivelazione. Il suo è un ruolo che fa un po’ da ago della bilancia nel rapporto tra Dean e la città e che quindi oscilla tra accoglienza e rifiuto.
Pur facendo l’attrice, Hey Joe, per Giulia, era il suo film d’esordio e a me serviva un’attrice che alla pari delle entraineuse che abbiamo conosciuto sapesse parlare allo stesso tempo il dialetto napoletano e un inglese perfetto. Questa è stata una cosa fondamentale per superare il provino. Giulia parla un inglese superiore a quella del suo personaggio ed è stata eccezionale per trovare la misura giusta lavorando insieme all’entraîneuse che ci ha fatto da supporto per il suo personaggio.
Ancora sugli attori, accanto a Francesco Di Napoli che aveva già lavorato con te ne La paranza dei bambini ritroviamo un Aniello Arena che nel ruolo del boss locale sembra uscito fuori da un film di Martin Scorsese. In termini di credibilità la sua ferocia ma anche il suo pragmatismo vale quello del De Niro di Quei bravi ragazzi.
James è stato il primo a dire che gli ricordava De Niro. Il suo ruolo riproponeva ancora una volta le dinamiche padre-figlio. Quando gli ho proposto il personaggio mi ha detto che gli stavo facendo un regalo perché anche suo padre era un contrabbandiere per cui in Hey Joe lui ha interpretato il proprio genitore. Il suo è un personaggio spregevole, un malavitoso figlio del proprio tempo ma è anche l’unico ad inquadrare la colpa di Dean e cioè quella di essersi comprato la mamma di Enzo per un po’ di cibo. Dunque anche lui nella sua brutalità ha una dimensione umana. In fondo, in assenza di Dean, è stato lui a occuparsi del ragazzino.

Collaborazioni di Claudio Giovannesi
In Hey Joe hai rinnovato il sodalizio con un maestro della fotografia come Daniele Ciprì. Le sue luci hanno un ruolo fondamentale nella drammaturgia del film.
Il lavoro con lui è iniziato molto prima delle riprese. Volevo assolutamente che Hey Joe sembrasse un film girato negli anni settanta però per me girare in pellicola è impossibile perché accumulo tantissimo materiale e sarebbe stato molto complicato farlo anche in termini di costi. Paradossalmente ricostruire il 1944 è stato più semplice perché da subito ho avuto l’idea di utilizzare il repertorio a colori che veniva girato solo dagli americani. Quindi con Daniele abbiamo deciso di girare in 16 mm riuscendo a far sembrare le nostre immagini identiche a quelle degli americani. Daniele ha deciso di mantenere lo stesso formato in maniera da passare dal repertorio alla realtà senza soluzione di continuità. Dunque ogni volta che giravamo il ’44 c’era la mdp in pellicola. Per il ’71 invece mi ha fatto vedere la Ferrania, una pellicola che si usava a quei tempi dunque abbiamo girato in digitale – tieni conto che io arrivo anche a 20 ciak per scena – sapendo poi che avremmo stampato tutto il film in pellicola. Quindi a montaggio finito abbiamo riversato il film sul 35 mm e poi in color siamo andati a ricreare le dominanti della Ferrania. A margine di questo il più bel complimento me l’ha fatto Matteo Garrone che è il mio vero maestro, dicendomi che il film assomigliava a L’ultima notte di quiete di Mario Zurlini che è girato nel ’71.
Essendo ambientato in due epoche diverse con Hey Joe è come se avessi completato una trilogia sulla città di Napoli. Il fatto di essere ritornato a raccontarla è perché questa ha dei tratti pasoliniani che Roma ha oramai perduto o è solo la storia che ti ha portato lì?
Dipende da una serie di cose. La prima è che lavoro con degli autori napoletani e poi perché mentre ne La paranza dei bambini volevamo raccontare le metropoli di tutto il mondo per Hey Joe la storia che mi ha consegnato Maurizio Braucci poteva esistere solo a Napoli che con l’arrivo degli alleati era una vera e propria città di frontiera, dunque una realtà unica nel suo genere.