Carlo Mazzacurati – Una certa idea di cinema di Mario Canale ed Enzo Monteleone , al cinema come evento speciale con Fandango dal 3 al 5 marzo. Dopo il passaggio a Venezia arriva nelle sale il documentario che racconta il cinema di Carlo Mazzacurati attraverso le parole dello stesso autore. Del film abbiamo conversato con Enzo Monteleone.
Il documentario di Mario Canale ed Enzo Monteleone

Carlo Mazzacurati – Una certa idea di cinema nasce dall’incontro di due volontà, la tua e quella di Mario Canale, e ruota per lo più intorno a una lunga e inedita intervista a Carlo Mazzacurati.
L’idea di fare questo documentario è nata qualche anno fa. Mario Canale è stato il primo amico romano che abbiamo avuto io e Carlo quindi da allora siamo rimasti sempre in contatto. Mario è andato su molti set dei film di Carlo inventandosi il backstage con interviste e riprese dei set che ancora negli anni ottanta non si usavano fare. Nel 2002 realizzò questa lunga intervista con Carlo per il piacere di farlo e non perché ce ne fosse necessità. La stessa è rimasta nel cassetto per molto tempo fino a quando ci siamo detti che a dieci anni dalla scomparsa di Carlo sarebbe stata ora di mettere in moto la mdp e decidere di usarla come linea guida del nostro film. Abbiamo trovato un modo per rendere giustizia a un’artista ma anche a un caro amico.
La scena che apre Carlo Mazzacurati – una certa idea di cinema, – tratta da Notte Italiana -, è emblematica nel riassumere l’incipit del cinema dell’autore padovano, quello di raccontare un territorio dove la calma apparente del paesaggio è rotta dall’arrivo di un elemento perturbante che rompe gli equilibri e dà il via al racconto.
Sì, sicuramente. Abbiamo scelto di partire con Notte Italiana perché è stato l’apripista di quello che all’epoca si chiamava il nuovo cinema italiano che a metà degli anni Ottanta ha visto una nuova generazione di registi affacciarsi al cinema. C’è stata la fondazione della Sacher Film e nell’89 l’uscita di un film generazionale come Marrakesh Express che abbiamo scritto insieme a Carlo. Iniziare il film su Carlo con quelle immagini silenziose e in bianco e nero in cui si vedono i campi scossi dal vento ci sembrava avere le stesse suggestioni del cinema muto e che dunque potesse essere il marchio di fabbrica del cinema di Carlo.
Elementi ricorrenti

Peraltro nella sequenza a essere testimone dell’incidente è una bambina. Come ci dicono le tante sequenze da voi selezionate si tratta di una condizione destinata a ripetersi nella sua filmografia.
Se uno analizza i suoi film questo è un aspetto molto ricorrente, per esempio ne Il prete bello in cui il protagonista, Roberto Citran, è sempre accompagnato dallo sguardo di questi ragazzetti di strada. Così capita a Claudia Cortellesi che in A Cavallo della Tigre si deve occupare di una bambina. Insomma i figli sono presenti e ogni tanto riemergono qua e là nel nostro documentario perché costituiscono una cifra importante del racconto di Carlo.
Bambini che diventano in qualche modo testimoni degli eventi e che all’interno della storia sembrano riassumere un po’ il sentire del regista, ovvero quella di una presenza che non fa male e che però forse è incapace di fare del bene fino in fondo. In termini di sguardo il suo corrisponde a quello dei tanti bambini presenti nelle sue storie.
Carlo è stato un grande amante della letteratura. Ha letto tanti libri di cinema, di musica. Ha avuto un innamoramento molto forte per i racconti di Hemingway, di Salinger e per il nuovo cinema americano degli anni settanta, dunque de Lo Spaventapasseri, de La conversazione, di Cinque pezzi facili. Dopo il periodo romano si è riavvicinato alla sua terra e a scrittori di quei luoghi come Goffredo Parise e ancora Luigi Meneghello, di Mario Rigoni Stern, a cui poi ha dedicato una serie di ritratti nell’intento di ritrovare i suoi padri nobili e raccontare la sua piccola patria.
Enzo Monteleone e Carlo Mazzacurati
La sequenza dell’intervista a Carlo e Roberto Citran subito dopo la vittoria del Leone D’Argento per Il Toro lascia trapelare una timidezza e un disagio di fronte alle luci della ribalta che sono quelle che appartengono ai personaggi di Mazzacurati. Quel sentirsi fuori posto che porta Marco Paolini a paragonare la condizione esistenziale del toro a quella dello stesso regista.
Sì, il cinema di Carlo è sempre stato dalla parte dei perdenti. Uno dei film più amati è stato Fat City che è un’apoteosi dei losers, ma anche Un uomo da marciapiede e La conversazione. Insomma a Carlo non interessava raccontare i supereroi, i vincitori, soprattutto se bisognava parlare della società italiana. È chiaro che lui sta da quella parte lì. Gli piaceva parlare delle piccole vite dignitose e in qualche maniera delle piccole vittorie morali. Ne Il Toro alla fine i due disgraziati riescono a farcela. A modo loro riescono comunque a riscattarsi dalla propria condizione.
L’amicizia che ha contraddistinto il vostro incontro con il cinema, tua, di Roberto e di Carlo, quest’ultimo se l’è portata dietro non solo nei suoi set, ma anche al di fuori. Basta pensare al rapporto con Nanni Moretti che produsse il suo primo film e con il quale ebbe un’amicizia duratura.
La nostra è stata una generazione cresciuta attorno ai cineclub. Allo stesso tempo però Carlo era per sua natura un capo branco. La sua era una casa sempre aperta. La gente con cui lavorava in molti casi diventava sua amica. Succedeva così anche con gli attori. Albanese a un certo punto aveva preso una casa in Toscana vicina a quella di Carlo. Bentivoglio, da semplice new entry, fa quattro film uno dietro l’altro entrando a far parte della sua famiglia allargata. Con Moretti che non ha più prodotto dei film di Carlo sono rimasti sempre amici: giocavano a tennis, si vedevano d’estate, insomma Carlo aveva questa grande capacità d’aggregazione. Univa la gente. Le persone stavano bene con lui e tra di loro. Mi ricordo grandi serate passate insieme a Marina, sua moglie, che era una grandissima cuoca e faceva da mangiare per tutti. Era un modo molto bello di stare insieme, di parlare di cinema, ma anche d’altro.

Carlo Mazzacurati nel documentario
La sua cinefilia è entrata in maniera prepotente dentro i suoi film. Penso per esempio a Jessica Forde, attrice rohmeriana scelta per Il prete bello ma anche all’influenza della New Hollywood presente nel suo modo di essere autore, coniugando le tematiche personali alle forme di genere.
Sì sì, assolutamente. Mi ricordo che negli anni Ottanta a Milano c’era stata una grande rassegna intitolata Ladri di Cinema in cui registi come Bertolucci e Wenders raccontavano a chi avevano rubato cose e modi di fare. Carlo avendo avuto questo imprinting cinefilo ha rielaborato le sue passioni facendole diventare sue. Per esempio Notte Italiana è assolutamente debitore di Giorno Maledetto in cui c’è Spencer Tracy che interpreta uno sconosciuto destinato a sconvolgere la vita di un villaggio in cui nessuno riesce a capire cosa è venuto a fare. Domani Accadrà, western maremmano scritto da Carlo per l’esordio di Daniele Luchetti era ispirato a Uomini Selvaggi di Blake Edward, unico western di un regista che al di là della serie dedicata alla Pantera rosa ha fatto film bellissimi di cui ci eravamo appassionati. Il cinema di Carlo è pieno di riferimenti sotterranei non così espliciti che provengono da quell’iniziale formazione cinefila.
La forma di Carlo Mazzacurati – Una certa idea di cinema è costruita come si fa in certi film in cui l’ultima immagine non è quella conclusiva in ordine cronologico, ma una precedente cioè quella in cui vediamo il protagonista ancora pieno di forza ed entusiasmo. Costruire il lungometraggio attorno a una lunga e inedita intervista al regista ha il potere di restituirci un Mazzacurati in piena forma e quanto mai attuale.
Beh, certo, non volevamo fare un necrologio ma restituire l’energia, l’allegria la bellezza di certe immagini e di certe musiche che potessero riassumere la personalità di Carlo. Chi lo ha conosciuto attraverso i suoi bellissimi film non poteva sapere della sua energia, della sua allegria. La cosa curiosa di cui mi sono accorto durante la lavorazione del documentario è che in tutti i suoi film ci sono delle scene di ballo. Ne sono rimasto sorpreso perché Carlo non ha mai ballato in vita sua, neanche al matrimonio del miglior amico e quindi l’idea di scoprire che in realtà c’era questa grande voglia di divertirsi ci ha fatto anche pensare di unire tutte queste scene in un’unica sequenza per festeggiare il nostro caro amico che è ancora tra noi e ci saluta con un sorriso. Volevamo renderlo vivo, con la sua voce, con i suoi racconti e magari pensare che una volta uscito dalla sala lo spettatore cerca un giornale per sapere dove e quando uscirà il prossimo film di Carlo. Lo sberleffo finale, con l’inquadratura delle fototessere in cui Carlo e Moretti fanno finta di gridare è un po’ la sintesi dell’umore con cui abbiamo voluto raccontare il nostro amico.

Enzo Monteleone racconta Mazzacurati
Nell’intervista a Carlo emerge una consapevolezza del mezzo cinematografico e una teorizzazione del proprio cinema tipica di tutti i registi che sono diventati tali dopo una lunga gavetta cinefila. Ascoltando Mazzacurati mi sembra di riconoscere lo stesso punto di vista dei registi della nouvelle vague che si confrontarono in maniera profonda con la propria passione maturando dentro di sé l’universo che poi avrebbero raccontato.
Assolutamente sì, perché poi l’universo di Carlo non è solo cinematografico ma è fatto di letture, di amore per la pittura. Ne era così appassionato da passare intere giornate all’Accademia di Venezia a vedere il Giorgione oppure i veneziani del settecento. Nel film Battiston ci dice che quando erano a Parigi Carlo lo portò al museo a vedere una mostra di Fiamminghi perché voleva ricreare luci e volti ne La Passione. Carlo non era solo un cineasta ma un uomo con una cultura molto vasta e approfondita, alimentata da grandissime passioni. Perderlo è stata una ferita per tutti quelli che lo hanno conosciuto perché stare con lui generava sempre un grande godimento.
Mazzacurati faceva un cinema che era allo stesso tempo da ascoltare (a me è capitato di farlo con La Lingua del Santo usufruito come fosse trasmesso alla radio) e da vedere. Il suo era un cinema costruito sull’equilibrio tra la parola e l’immagine. Una non toglieva spazio all’altra. In questo senso uno dei pregi del vostro film è quello di averci ricordato la capacità evocativa delle immagini create da Mazzacurati.
Carlo cercava l’immagine perché il cinema è fatto di quelle. Attraverso la proposta di sequenze opportunamente selezionate abbiamo voluto sottolineare quanto i film di Carlo fossero visivamente potenti. Senza dimenticare che le immagini erano tali per la presenza dell’elemento musicale accostato in maniera solo apparentemente azzardata. Penso a quella di Jan Garbarek in Vesna va veloce, alle musiche di Ivano Fossati usate ne Il Toro. La scena delle mucche che camminano nella neve ha una forza enorme proprio per la presenza della sua colonna sonora. Usare una versione rifatta di Nothing Compared to You per raccontare la laguna veneta de La lingua del Santo crea delle emozioni visive ed emotive davvero notevoli. Carlo era un grandissimo scopritore di musiche. Ogni volta che andavi a casa sua ti faceva sentire un nuovo autore, una nuova canzone e questo per i suoi film, ma anche per noi era una grande ricchezza.

Per approfondire il cinema di Mazzacurati
Il documentario suggerisce come il cinema di Mazzacurati sia frutto di una consapevolezza anche teorica che però non toglie spazio all’imprevisto, alla realtà nel suo farsi. Dal controllo del set con gli story board disegnati per Notte Italiana si passa alla capacità di cogliere la verità dell’imprevisto. Penso, per esempio, alla sequenza delle mucche che attraversano il paesaggio innevato de Il Toro, oppure in Un’altra vita alla scena della colluttazione tra Claudio Amendola e Silvio Orlando per realizzare la quale Mazzacurati ritarda la fine del ciak per cogliere l’essenza di quel momento.
Gli Storyboard li uso solo per la paura che si ha al primo film poi evito di farlo nei lavori successivi. In realtà nel cinema come nella vita bisogna cogliere l’attimo. Nel bene e nel male. Mazzacurati racconta di come nell’ultima scena della Passione andò tutto storto e di come comunque riuscì a girarla in 25 minuti, superando ogni difficoltà. Come successe per la scena delle mucche in cui viene fuori la capacità di cogliere la bellezza trasformando l’inaspettato in un’opportunità.
Di Mazzacurati è noto l’amore per gli attori. Il documentario ci ricorda il caso di Antonio Albanese che Carlo fa esordire al cinema in un ruolo drammatico, ma anche le parole di stima nei confronti di Paola Cortellesi che, con il senno del poi, appaiono profetiche rispetto alla successiva carriera dell’attrice romana.
Carlo amava molto gli attori, li seguiva, li coccolava e quando trovava terreno fertile ne diventava amico. Fu così con Albanese e Bentivoglio. Anche con la Cortellesi ha avuto un rapporto d’amicizia. Fino ad allora lei aveva fatto piccoli ruoli e aveva lavorato con la Gialappa’s. A Cavallo della tigre è stato il suo primo film importante perché Carlo ebbe modo di vedere prima di altri le sue grandi capacità d’attrice.