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Conversation

‘Sulla Terra Leggeri’ conversazione con Sara Fgaier

Ovunque nel tempo. Sulla Terra Leggeri racconta i gangli dell'amore mescolando linguaggi e formati. Del film abbiamo parlato con Sara Fgaier

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Partendo da una frase di Julian Barnes Sulla Terra Leggeri è una recherche sentimentale di estasi e tormento messa in scena con la passione e lo stupore del grande cinematografo. Dopo l’avventura con Pietro Marcello Sara Fgaier spicca il volo firmando uno dei film più belli della stagione italiana.

Interpretato tra gli altri da Andrea Renzi, Sara Serraiocco, Emilio Francis Scarpa, Lise Lomi, Sulla Terra Leggeri esce nelle sale il 28 novembre distribuito da  Luce Cinecittà.

‘Sulla terra leggeri’, una storia d’amore e di memoria

Sulla terra leggeri di Sara Fgaier

La frase di Julian Barnes tratta dal romanzo Livelli di vita introduce lo spettatore alla storia del film ragionando sull’amore come elemento che eleva e allo stesso tempo deprime le nostre vite.

Del libro di Barnes mi ha affascinato la metafora dell’amore inteso allo stesso tempo come volo e come caduta. L’amore è un sentimento legato alla vertigine, una leggerezza che fa il paio con la sensazione di sentirsi appesi a un filo, tra presenza e assenza, come succede a Gian e Leila nel momento in cui si mettono in gioco. Un incontro che a vent’anni per entrambi è un misto di slanci e di ritrosie, di paura e meraviglia, ma il desiderio di unione che provano è così forte da suscitare per contraccolpo un bisogno di fuga.

Un sentimento che può avere un potere rivoluzionario, in grado di farci uscire da noi stessi e trasformare la realtà allargando i confini della percezione e dell’esistenza. Per citare Barnes: “Metti insieme due persone che insieme non sono mai state; a volte il mondo cambia e a volte no. Può darsi che si schiantino e prendano fuoco, o che prendano fuoco e si schiantino. Ma a volte, invece, ne nasce qualcosa di nuovo, e allora il mondo cambia. Insieme, in quel primo momento esaltante, con quella sensazione esplosiva di ascesa, esse sono più grandi dei loro sé individuali. Insieme, vedono più lontano, più chiaro”.

Dal punto di vista narrativo il significato di quella frase è incarnato dalla storia d’amore tra Gian e Leila, di cui esplori sentimenti opposti che vanno dalla beatitudine del primo incontro all’inferno della separazione.

Ci sono elementi premonitori che sembrano incrinare le cose dall’inizio, come se questo idillio fosse lì per essere rovinato. Lei è incerta, frenata, forse nessuno dei due voleva, ma l’evidenza del momento li ha sopraffatti, li ha convertiti alla religione della loro unione. Ma ecco che Gian si ritrova davanti a una nuova verità, ad altri due personaggi: la ragazza è riuscita a diventare aviatrice e sembra aver trovato sé stessa, e lui non è più il ventenne insicuro e romantico, ma appare disincantato, diviso tra Leila e un’altra donna. Tra speranze e frustrazioni, Gian si fa coinvolgere sempre di più dalla lettura di quell’amore, come se non ne fosse protagonista: è qualcosa che lo intriga senza appartenergli. Nelle notti insonni passate a leggere, a questo suo presente senza tempo si sostituiscono le immagini vivide di quel passato, le attese frustrate, le speranze in bilico, le attese, gli inseguimenti. Scopre di un appuntamento mancato con Leila e di un periodo di profonda crisi e inquietudine in cui ha rasentato la follia.

L’intensità di questo sentimento dolce, tenero, struggente non fa che accrescere il dolore e il vuoto di Gian senza memoria, che adesso si sente ancora più sperduto, incapace com’è di riconoscersi in questo ragazzo innamorato. È come se qualcuno gli avesse rubato quel momento di tempo e non riesce a rassegnarsi. Non si tratta di nostalgia, ma di una specie di reincarnazione precedente in un paradiso perduto. Possiamo dire che sta conoscendo se stesso giovane attraverso il suo modo di innamorarsi. Questo lo fa sentire estraneo al suo stesso mondo e si rende conto di essere diventato vecchio. Tuttavia gli sembra finalmente di potersi aggrappare a qualcosa e si prende il rischio di scoprire la sua propria storia, consapevole delle ferite che questo può comportare. In tale contesto mi stimolava dare a Gian lo stesso grado di conoscenza dello spettatore, per lui il suo passato non è una semplice ricostruzione, ma una scoperta che noi facciamo insieme a lui.

Opposti che si inseguono

Sul piano formale la frase di Barnes diventa una dialettica tra opposti che si inseguono per tutto il film. Il più evidente è dato da due movimenti rovesciati. Il passato del film infatti ci mostra Leila in cerca di Gian, mentre nel presente i ruoli si invertono.

Sì, mi piaceva molto l’idea che questo inseguimento fosse legato alle diverse età dei protagonisti come per dire che in qualunque età della vita si fossero incontrati Gian e Leila si sarebbero comunque amati.

Con l’abbandono all’hotel il diario è finito e lui non si dà pace all’idea di non sapere dove sia finita Leila. Lei gli chiede di non abbandonarla. Gian, come rispondendo a quell’appello del passato, riesce finalmente con uno sforzo immane a ritrovare al pianoforte delle note di un canto malinconico e in quel momento ha il primo ricordo spontaneo che si affaccia di nuovo alla sua mente dopo settimane di vuoto. Ma lui non può raccontare una storia che non conosce anche se non c’è dubbio che sia Gian a trasformarsi, che sia lui che si sta scoprendo, facendo una cosa incredibile: si ritrova mentre si sta perdendo. È allora Leila che può parlare da una posizione in cui lui non può essere. Lo fa in modo involontario, non ha altra scelta, non parla perché vuole farlo, parla perché non può non farlo. Una voce staccata dal corpo, incarnata da corpi diversi, la voce di un fantasma che parla da un’altra dimensione. Di fatto è lei che lo chiama a sé da un tempo diverso perché è quella l’unica possibilità per lui di ritrovarsi, di ritornare a essere padre e di accettarsi come vedovo.

Tanto che a un certo punto il racconto prende la forma di un thriller esistenziale in cui pubblico e protagonista hanno il dubbio sul fatto che Gian abbia davvero sposato Leila?

Sì, esatto. Ciò che mi interessava era declinare la perdita mettendo insieme il passato in maniera da far emergere la condizione di chi si sente a rischio, sempre sul punto di perdere l’altro.

Il paradosso è che lui decide di resuscitarla proprio nel momento in cui realizza che lei non c’è più e che per farlo deve renderla viva dentro di sé. Questo perché Sulla terra leggeri non parla solo dell’elaborazione di una perdita, ma anche del desiderio di far rivivere la persona cara creando le condizioni per collocare la sua esistenza in un nuovo modo di essere che si oppone alla morte. Credo che sia un aspetto molto potente perché in fondo i morti vogliono essere ricordati e non sono morti finché noi non li cancelliamo.

Il protagonista di questa storia – moderno Orfeo – quando cerca nei suoi sogni di riportare indietro la moglie defunta, quando attiva il pensiero magico che permette alla donna di vivere ancora attraverso di lui, non fa che dialogare con l’invisibile.

Sara Fgaier: letteratura e cinema

Sulla terra leggeri ragiona anche sul rapporto tra parola e immagine e dunque sulla relazione che esiste tra letteratura e cinema. Anche il tuo lavoro precedente (Gli anni, ndr) aveva come base un testo letterario, ma qui il discorso è ancora più forte per la forza evocativa con cui la parola dà vita alle immagini. La cosa straordinaria è che questo accada in un film in cui l’importanza della forma cinematografica è preponderante. Laddove cinema e letteratura sono quasi sempre in antitesi in Sulla terra leggeri diventano una cosa sola grazie alla costruzione di un dispositivo capace di armonizzare le rispettive peculiarità.

È veramente bello sentire questa cosa perché questo film appunto nasce nel momento in cui stavo facendo il cortometraggio di cui parlavi, ispirato a Gli anni di Annie Ernaux. Venendo da quell’esperienza ho iniziato a lavorare sulla voce off, – elemento filmico che mi piace molto – suddividendo la scrittura del testo in tre parti, – lui, lei e loro -, frutto di un lavoro di collage tra testi scritti da me o tratti da libri importanti che ho letto nel corso di tutta la mia vita. Nel momento in cui io e Sabrina Cusano, coautrice del soggetto e della sceneggiatura, abbiamo iniziato a metterli insieme sembravano magicamente un’unica voce, quindi diciamo che per noi la scelta del diario è stata anche estetica, trattandosi di evocare il passato non attraverso dialoghi, ma mediante la forma letteraria che preferivamo.

Anche la scrittura della sceneggiatura, di solito molto tecnica, è stata resa avvincente a livello di qualità letteraria con un grande sforzo di scrittura per restituire un’atmosfera, per dare al progetto una valenza poetica già sulla carta. Peraltro hai colto in pieno quello che è stato il nostro lavoro sulla storia dei due protagonisti: è grazie alle parole del diario che lui riesce a immaginare e lo fa con le immagini degli archivi, la cui caratteristica è quella di essere impersonali e quindi universali.

Di solito nei film il protagonista apre un diario e magicamente compaiono immagini del passato. Al contrario nel film questa apertura si compie senza che il protagonista e lo spettatore riescano inizialmente a vedere colei di cui stiamo parlando, è come un flashback impossibile. È stato molto affascinante, a livello di messa in scena, lavorare con Alberto Fasulo (direttore della fotografia) su questa difficoltà.

Finzione e materiale d’archivio nel film di Sara Fgaier

Nel rapporto tra i filmati di finzione e i materiali d’archivio c’è prima di tutto una corrispondenza narrativa, riflettendo questi ultimi fatti e pensieri messi in scena dai personaggi. A questa si aggiunge la valenza simbolica, nel senso che i materiali d’archivio trasfigurano su un piano universale il particolare legato alle vicende dei personaggi.   

Ci sono momenti del film in cui le immagini d’archivio hanno un ruolo narrativo preciso, ad esempio quando accompagnano brani del diario di gioventù: il protagonista è un uomo senza passato e quello diventa il modo di immaginarne uno. Le immagini di archivio, in effetti, sono proprio questo, immagini di persone che prima di Gian hanno riso, pianto, corso, abbracciato, baciato, ballato.

Il filo che struttura il film non è la storia di Gian e neanche l’archivio, ma è qualcosa che si crea tra l’uno e l’altro, nell’equilibrio e nella relazione tra le due. Il modo per stare più vicino a Gian e alla sua condizione mi sembrava quello di raccontarlo attraverso questo limbo che mescola le sue immagini con l’archivio, dal momento che quest’ultimo rappresenta le sue immagini mentali e il suo inconscio. Gian ne è attraversato, loro irrompono, non volevo separarle ma tesserle all’interno, integrarle dentro le sue immagini.

L’assenza di memoria genera in Gian una fantasmagoria di immagini e allucinazioni ad occhi aperti. Il ricordo causa un cambiamento, un’apparizione, un’epifania. La parola chiave che mi ha guidato è: frammentazione. L’irruzione di immagini e flash frammentari che riescano a raccontare la sua confusione. Riuscire a rendere lo spettatore testimone di questo processo di deterioramento.

Credo che le immagini d’archivio possano generare un mondo nuovo e in questo caso mi hanno dato la possibilità di creare uno spazio che non fosse né il passato né il presente che è la condizione in cui vive Gian.

L’archivio inoltre mi ha permesso di esplorare il fantasma di Leila, come pure un luogo e un tempo, perché nel momento in cui una persona se ne va, non muore solo quella persona, muore un mondo con lei, un modo d’amare e con essa un’intera epoca. E l’archivio è l’epoca.

Per questo era così importante legare il racconto con la consistenza dell’archivio.

Quello del film corrisponde al tempo interiore del protagonista.

Uno degli aspetti che mi ha affascinato di più è stato il rapporto tra Gian e Leila in epoche diverse, l’idea della simultaneità delle epoche che il cinema meglio di altre arti è in grado di realizzare. A questo proposito mi aveva molto colpito l’introduzione a l’Anno del pensiero magico di Joan Didion, scritto dopo aver perso il suo compagno di vita, in cui dice che lei era diventata il suo modo di scrivere. Ma in quel momento afferma che al posto delle parole avrebbe avuto bisogno di una sala di montaggio in modo che, semplicemente schiacciando un tasto, sarebbe riuscita a mostrarci simultaneamente tutte le inquadrature della memoria, in tempi lontani, per poi scegliere le espressioni leggermente diverse e le varie letture delle stesse battute. Mi aveva molto colpito ed è qualcosa che ho cercato di ricreare nella costruzione del film.

Fusione di immagini di finzione e d’archivio

Un’altra cosa che mi ha colpito è che a un certo punto, verso la metà del film, le immagini di finzione si fondono con quelle d’archivio, nel senso che l’estetica delle prime riproduce alcune caratteristiche tipiche delle seconde e per esempio sgranature e alterazioni della luce che di solito sono conseguenza dell’usura della pellicola. In questo senso è come se ci dicessi che le immagini del presente nel momento in cui sono realizzate diventano automaticamente materiale d’archivio. È così?

Guarda, sono felicissima di quello che mi stai dicendo perché ricordo che un giorno ho visto il film muto e mi è venuta voglia di fare esattamente ciò che hai detto, ovvero di trattare tutte le immagini che avevo girato come se fossero un archivio. Da qui la scelta di ridurre la finzione per amalgamarla di più alle parti simboliche. Per altre parti, come l’inizio del loro primo incontro, le nostre immagini dovevano avere lo stesso statuto.

La sfida più grande è stata lavorare sulle transizioni e sui passaggi per renderli fluidi, senza che si avesse la percezione di transito tra un’epoca e l’altra, nel tentativo di creare un unico flusso. Progressivamente i ricordi di Gian iniziano ad affiorare e si sostituiscono alle immagini d’archivio. Ho cercato quindi, come dicevi, di avvicinarli anche esteticamente.

Il film è pieno di segni che ci riportano alla frase iniziale e quindi all’alternarsi di peso e leggerezza, di elevazioni e di cadute. Di fatto Sulla terra leggeri è una storia d’aria e di terra in cui cielo e mare sono spazi che rimandano alla vertigine amorosa. Da qui la presenza di mongolfiere, aerei e navi che si alternano nel corso della visione. Esemplare a questo proposito è l’immagine degli amanti seduti sopra la pensilina del letto in una posizione di sospensione che sembra rimandare all’estasi amorosa appena consumata. 

Sono metafore del libro di Barnes su cui ho lavorato molto in termini visivi, perché esprimono il senso di ogni amore, di ogni vicenda della vita, a livello individuale e collettivo. Ordine e caos, come nei rituali antichi, dove l’ebbrezza alcolica o la trance fanno esplodere l’irrazionale e poi lo assorbono in un nuovo ordine.

Il percorso di Gian è un susseguirsi di sali e scendi: da un lato ci solleva facendoci venire le vertigini, dall’altro ci chiede di seguirlo nelle sue rovinose cadute, quando, dopo la morte della moglie precipita in un abisso: dalle sue profondità intraprende un viaggio durante il quale riesce a liberarsi del fantasma che lo ha spinto a “scegliere” di perdere la memoria.

Lo stesso succede a Leila che si alza letteralmente in volo per poi essere risucchiata in una grotta sott’acqua.

Quando ci si innamora e quando si soffre, come nella farsa comunitaria suggellata dall’alcool o nella trance, i confini dell’ego si perdono, si esce dal Tempo ordinario e si fa esperienza di una dimensione più ampia. Accade anche nei sogni, dove si può essere contemporaneamente in luoghi diversi appartenenti ad epoche diverse, e si può essere bini o trini come Gian nel film.

Il paesaggio nel film di Sara Fgaier

Anche il paesaggio marino caratterizzato da burroni e strapiombi a picco sul mare sono un richiamo alla vertigine di cui parlavamo.

La falesia per me era il paesaggio ideale per ambientare questa storia, perché si lega al senso di vertigine di cui parli, presente in tutto il film (è così ripido che per poterti avvicinare al bordo puoi solo strisciare) e perché è un paesaggio romantico.

Citando Barnes è sempre una questione di prospettiva e in questo caso di guardare le cose da un altro punto di vista che fa cambiare quello che conosciamo. In fondo è quello che succede a Gian con l’amnesia che si trasforma per lui in uno strumento potente per vedere dove non ha mai avuto il coraggio di guardare scoprendo desideri e emozioni che si è sempre nascosto.

All’inizio ero indecisa se utilizzare una citazione diversa per l’inizio del film, diceva pressappoco così: se ci osserviamo dall’alto è terribile constatare quanto poco sappiamo di noi e della nostra ragione d’essere. L’altitudine riduce tutte le cose alle loro reali proporzioni restituendole alla verità.

Ho scritto da qualche parte che la bellezza di Sulla Terra Leggeri aumenta con il moltiplicarsi delle visioni. Una delle ragioni risiede nella qualità della scrittura che nella sua prosa poetica contribuisce a cogliere il mistero della beatitudine di cui parla Gian ricordando gli attimi trascorsi accanto a Leila. Questo anche per dire che la bellezza del film non è solo visiva, ma anche uditiva.

Non ti nascondo che mi piacerebbe molto riuscire a pubblicare la sceneggiatura proprio per la sua qualità letteraria e perché aveva un suo perché anche solo scritta. Quello che c’è nel film è solo una minima parte di ciò che abbiamo scritto e appartiene alla voce fuori campo. Inoltre sarebbe interessante per tutto quello che non sono riuscita a salvare nel film (un filone noir quasi scomparso) e per i cambiamenti che ci sono stati rispetto alla sceneggiatura: la storia era raccontata al contrario, scoprivamo tutto alla fine e funzionava molto bene in quella forma.

Amore poetico

Sulla terra leggeri sublima l’esperienza amorosa in maniera poetica. In questo senso la scelta di rinunciare alle scene di sesso mi pare coerente alla premessa del film.

In realtà avevo scritto qualcosa che si poteva avvicinare a quello: mi riferisco al momento in cui Gian e Leila si baciano davanti alla finestra, poco prima della scena di loro due seduti sopra la pensilina del letto. Ma ho deciso di non girare la scena perché il film è il racconto di un amore che a vent’anni è completamente idealizzato, quindi assolutamente romantico. Non c’è nulla di carnale, è una congiuntura che ha più a che vedere con il sentimento del sacro. Gian di fatto è come se non riuscisse a riportarlo nella realtà, forse non ha neanche il coraggio di affrontarlo, nel senso che per non rovinarlo, per non sporcarlo, preferisce che lei rimanga un’idea, un’immagine, tanto da fare una cosa impossibile per un innamorato, quella di rinunciare a vederla per cinque mesi. In fondo Gian ha paura di entrare nella vita di lei e quindi sceglie di tenersi quel ricordo sognando che lei avrebbe mantenuto la promessa di andare all’appuntamento. Per me l’amnesia rispecchia questa forma di rimozione che Gian ha sempre avuto rispetto a questa storia d’amore. Fino a che, seguendo il richiamo di Leila, decide di smetterla di voltarsi e in qualche modo vuole possedere il ricordo dell’amata per prolungarne l’esistenza. Deve, in fin dei conti, fare un gesto altruistico. Dall’amore idealizzato e narcisistico a un amore più profondo per qualcosa che esiste al di fuori di sé, anche dopo la morte.

La poesia del film appartiene anche alle immagini. Tra le tante penso al frammento in cui vediamo la mano di Gian sporgersi dalla pensilina della nave avendo tra le dita il foglietto in cui lei ha scritto il luogo dell’appuntamento. La prossemica dell’arto è tale da esprimere come meglio non si potrebbe l’abbandono e la paura con cui lui si sta recando all’appuntamento. È un’immagine che dura pochi secondi eppure riesce a contenere un intero mondo.

Mi piace molto questa tua lettura. In origine il momento era più sviluppato: Gian cercava con foga il bigliettino che lei gli aveva lasciato in tutte le tasche, aveva paura di averlo perso. Quando lo ritrovava lo stringeva nel pugno e poi fissava l’indirizzo a caratteri arabi, come se avesse voluto imprimerlo nella memoria per sempre. Alla fine è rimasto solo il dettaglio del bigliettino sbattuto dal vento, con il mare in movimento sullo sfondo, perché quell’immagine esprime perfettamente già da sola la fragilità del sentimento che accompagna quel viaggio e il timore che lei possa non presentarsi all’appuntamento. Ma al contempo Gian è carico di speranza, d’incanto e trepidazione all’idea di ritrovarla.

Il bigliettino sarebbe dovuto tornare un’ultima volta nel film nella scena del cimitero a Tunisi quando Gian sale sul muretto, sull’orlo del precipizio: prima di sporgersi dal burrone prendeva in mano il bigliettino e lasciava che le folate di vento lo portassero via.

Il cinema oltre i limiti

L’altra di cui ti volevo chiedere è la carrellata laterale che si conclude sul muro della stanza in cui come su uno schermo iniziano a scorrere immagini d’archivio, non prima di averci mostrato una dopo l’altra altrettante versioni di Gian colto in tre diverse fasi della vita. Oltre a visualizzare il tempo come unico flusso, la scena rimanda alla capacità del cinema di andare oltre i limiti.

Penso che quello sia un momento speciale del film, reso magistralmente da Alberto Fasulo, qui in veste di direttore della fotografia. Gian inizia a leggere il diario con raccoglimento, come se guardasse in una tomba dopo averne scoperchiato la lapide. Solleva lo sguardo e davanti ai suoi occhi appaiono immagini sorprendenti: la stanza non è più quella che abbiamo lasciato, le pareti sono meno spoglie e il mobilio è più ricco. Volevo creare un effetto perturbante, attraverso la visione di mobili e oggetti che abbiamo già visto e ora appaiono in una posizione diversa insieme ad elementi nuovi, che ci fanno scoprire la stanza di quando Gian era ragazzo: al posto del divano c’è un lettino, la scrivania è la stessa ma in un’altra posizione ecc… Anche la luce cambia, durante la carrellata si trasforma, diventando molto più calda rispetto al presente. L’apparizione del giovane Gian sul letto segna una sorta di passaggio di consegne. Nel presente non ricorda e allora guarda se stesso giovane che porta avanti la storia e che poi diventerà un altro ancora. La macchina da presa, in un movimento senza fine, segue questa volta lo sguardo del giovane che si posa sulla stoffa lungo il letto e qui, con stupore, vede via via materializzarsi dei gabbiani e una nave, come se il letto poggiasse su una parete aperta sul mare. Volevo creare un effetto da lanterna magica (splendidamente realizzato dall’animazione di Federico Tocchella), come se le prime frasi del diario proiettassero Gian in un altro tempo che trasforma la stanza in quella del passato e evoca il suo viaggio epico per raggiungere Leila, generando una delle prime immagini d’archivio del film e dunque dando seguito a quello che dicevi a proposito della parola che crea le immagini.  

Il realismo magico di Sara Fgaier

Sulla terra leggeri ti pone sulla scia di registi come Pietro Marcello e Alice Rohrwacher che fanno del recupero del paesaggio italiano il mezzo per una nuova forma di realismo magico, legato alla tradizioni della penisola italica. Peraltro questo ti ha permesso di creare una dimensione fuori dal tempo favorita dall’assenza di computer e cellulari.

La realizzazione di questo film è stata un vero e proprio viaggio, ho girato in diversi paesi (Italia e Tunisia), in diverse regioni italiane (nella campagna laziale, in Sardegna, sulla costa Ligure), in una cava abbandonata, raggiungibile solo a piedi, su un’isola, in cima ad una falesia, a bordo di un biplano sorvolando il piccolo paese in cui sono nata, sott’acqua, lungo il Mediterraneo, durante un vero carnevale nell’entroterra sardo, in una villa del ‘400 trasformata in hotel ma rimasta immutata nel tempo e in un bunker napoleonico.

Ho curato personalmente la ricerca di luoghi. In Tunisia ho scelto di girare in un cimitero, a Sidi Bou Said, senza alcun elemento contemporaneo nel paesaggio, durante un rituale stambeli e su un treno che collega Tunisi alla periferia Nord, il TGM, costruito all’inizio del ‘900 e rinnovato l’ultima volta alla fine degli anni ’70. Gli esterni sono quasi tutti girati sul mare, sui lati opposti del Mediterraneo. La prospettiva dalla falesia mi ha sempre fatto pensare alla fine di un continente, da lassù sembra possibile immaginarne uno lontano, all’orizzonte.

Le pochissime immagini girate in città, a Genova, sono state poi escluse dal montaggio proprio a causa della presenza di automobili e cellulari. Risultavano oggetti estranei al resto del racconto e andavano contro l’idea di sospensione temporale di cui parli, creata lungo tutto il film, innanzitutto grazie ai costumi e alle scenografie che non dovevano rimandare a un’epoca precisa. Questo per darci la possibilità di creare uno spazio che non fosse né passato né presente, così da riuscire a entrare nello stato mentale di Gian, traducendo in immagine la sua condizione di non essere in nessun tempo.

Montare un documentario non vuol dire solo selezionare le immagini migliori, ma anche ricavarne una storia. In questo senso essere stata la montatrice dei primi film realizzati da Pietro Marcello, penso per esempio a Il passaggio della linea, La Bocca del Lupo, Bella e Perduta, ha voluto dire essere comunque in qualche modo parte in causa dei film al di là del tuo incarico specifico. Volevo chiederti se per te è stato veramente così?

Credo sia bellissimo poter condividere, spartire con un’altra persona un desiderio che è il desiderio di un film, di un oggetto ancora immaginario. Ci si può credere totalmente e spendersi come se fosse il proprio. Non succede sempre, solo nelle collaborazioni più felici e con Pietro è stato così. Il montaggio credo sia una relazione d’accompagnamento e di appropriazione. Il montatore si appropria del desiderio dell’altro fino a farlo diventare il proprio stesso desiderio. Nel mio caso non mi sono mai dovuta preoccupare di tracciare dei confini o limitarmi a un ruolo specifico per l’affinità elettiva che avevamo trovato e ho sempre seguito i film dall’inizio alla fine. La bocca del lupo è quello che sento più mio, l’abbiamo fatto principalmente in due, con qualche amico che ogni tanto ci veniva ad aiutare. La difficoltà può sorgere alla fine del percorso, quando si arriva al film finito perché corrisponde anche a un lutto, a volte difficile da portare. Dopo Il passaggio della linea ho seguito il protagonista nel suo ultimo mese di viaggio sui treni e ne è nato un ritratto (Arturo in coregia con Pietro). Dopo La bocca del lupo ho fatto un corto per conto mio (L’approdo) sull’emigrazione tra Genova e l’Argentina. Forse erano anche dei tentativi di non far finire i film o di approfondire dei percorsi che non erano potuti entrare nel montaggio finale.

È stato naturale iniziare a occuparmi di miei progetti quando ho interrotto la collaborazione con lui perché nei dieci anni di lavoro insieme ho sempre seguito i film dalla fase di ricerca iniziale al mix: ho sempre partecipato alle riprese prima in veste di aiuto regista poi in quella di produttrice e mi sono sempre occupata del montaggio e di tutto ciò che riguardava l’archivio. Sono film a cui sono tanto legata, delle esperienze indimenticabili, molto stimolanti dal punto di vista del montaggio perché sono stati scritti in quella fase, abbiamo sempre girato, montato per poi tornare a girare e ancora montare. Mi sarebbe piaciuto applicare questa idea di cinema anche in questo film, ma non era possibile trattandosi di un progetto molto più complesso. Ma hanno in comune il fatto di essere film di montaggio.

È anche grazie a Pietro se sono riuscita a fare questo film, mi ha sostenuto molto produttivamente con Avventurosa, la società che abbiamo creato insieme tanti anni fa.

La realizzazione del film

In definitiva quanto tempo hai impiegato per  realizzarlo?

Difficile dirlo perché il progetto è cambiato molto nel tempo. Ho iniziato a girare in Sardegna durante il carnevale nel 2018 mentre stavo ancora facendo Gli anni. La mia intenzione iniziale era infatti quella di fare un documentario sul carnevale. Ci sono tornata anche l’anno successivo, quando sono iniziate le ricerche sui sogni, i rituali e il lutto e la scrittura della voce fuori campo. Progressivamente mi sono resa conto che il film stava diventando qualcosa di molto diverso e di molto più grande di quello che avevo immaginato in origine. Mi è esploso tra le mani risucchiandomi nella sua storia, ne sono stata quasi travolta. A rassicurami c’è stato il fatto che tutto sia uscito fuori in maniera molto spontanea, cosa che ha stupito innanzitutto me prima ancora che gli altri.

Io e Sabrina Cusano abbiamo iniziato a scrivere la sceneggiatura nel 2020, circa un anno dopo ci ha raggiunte anche Maurizio Buquicchio. Nel 2022 ho fatto il TFL e ho iniziato il casting e la preparazione, le prime riprese sono iniziate alla fine di quell’anno e sono terminate a luglio 2023. Ho montato per tanti mesi, da ottobre a maggio e avrei voluto durasse ancora un po’. Le ultime settimane di montaggio sono state tra le più belle mai vissute in quella fase grazie ad Aline Hervé.

Le ricerche d’archivio sono durate per circa tre anni, in parallelo alla scrittura e alla preparazione. È stato il lavoro di ricerca più vasto che ho fatto in vita mia, alla fine ho scelto di utilizzare immagini provenienti da 16 archivi di diversi paesi tra Europa e America e di diversa natura (istituzionali, di film di famiglia, fondazioni, collezioni private, archivi militari).

So che hai avuto il privilegio di studiare con Walter Murch, uno dei più grandi montatori della storia del cinema. Tra i suoi lavori, solo per citarne alcuni, ci sono La conversazione e Apocalypse Now. Mi puoi dire qualcosa di questa esperienza?

Walter è entrato nella mia vita dodici anni fa, avevo già fatto tre film, senza però aver mai avuto un maestro e non avendo mai fatto una scuola di montaggio. Sono felice che non sia arrivato prima perché credo che uno degli aspetti più stimolanti di questo lavoro sia proprio quello di scoprire il proprio stile. Quando mi hanno comunicato che ero una dei 24 candidati per diventare allieva di Walter credevo fosse uno scherzo. Quella con lui è stata un’esperienza straordinaria, a volte esagerava dicendo che non era mai successo nella storia del cinema! È vero che è stato un privilegio immenso poter vedere qualcuno che fa il tuo lavoro mentre lo fa. Penso che sia stato quel periodo a darmi il coraggio di portare avanti i miei progetti così come a spingermi all’insegnamento che nei dieci anni successivi ho portato avanti insieme al cinema per restituire parte di ciò che avevo ricevuto. Da allora non ci siamo mai lasciati, recentemente è stato mio consulente artistico per Sulla terra leggeri.

Il cinema di Sara Fgaier

Per finire volevo chiederti che cinema ti piace e quale ha ispirato i tuoi lavori?

Ho sempre desiderato fare film sui fantasmi, uno dei miei generi preferiti credo sia proprio quello delle storie d’amore tra fantasmi. Primo fra tutti, sempre, Vertigo, poi Il ritratto di Jennie, Il fantasma della Signora Muir e tanti altri. In fase di scrittura ho rivisto diversi melodrammi degli anni ’50, molti noir e i film di Powell e Pressburger. Ho visto tanti film sul tema della memoria e sull’uso del fuoricampo. Tra questi ho riguardato le opere di Chris Marker che è maestro nel tessere insieme immagini e parole. Durante la fase  di scrittura ho letto tantissimo, non saprei neanche dirti quanto. Anche per questo quel periodo è stato uno dei più belli della mia vita.

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Sulla Terra Leggeri di Sara Fgaier

  • Anno: 2024
  • Durata: 94'
  • Distribuzione: Luce Cinecittà
  • Genere: drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Sara Fgaier
  • Data di uscita: 28-November-2024