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In Sala

‘Il Gattopardo’. Torna in sala restaurato il film di Luchino Visconti

Luchino Visconti torna a occuparsi di Risorgimento con un film ambizioso tratto da un classico della letteratura del Novecento italiano

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Affresco storico, melodramma, film “decadente”. Definizioni che, prese nel loro insieme, danno l’idea di ciò che Il Gattopardo di Luchino Visconti rappresenta. Una pellicola che il regista milanese realizzò a partire dal romanzo omonimo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, pubblicato postumo da Feltrinelli poco dopo la precoce morte dello scrittore.

Il film, Palma d’Oro a Cannes,  torna ora nelle sale italiana in versione restaurata grazie ad un accordo tra Cineteca di Bologna e Circuito Cinema.

1860, la nascita di un nuovo regno

Visconti, adattando in maniera piuttosto fedele il romanzo di Tomasi di Lampedusa, pur eliminando alcuni episodi, in particolare del finale del libro, torna a confrontarsi con il Risorgimento dopo averlo già affrontato in Senso, film ambientato ai tempi della terza guerra d’indipendenza e tratto da una novella di Camillo Boito.

Nel Gattopardo, sceneggiato da Suso Cecchi D’Amico, Pasquale Festa Campanile, Enrico Medioli e Massimo Franciosa, oltre che dallo stesso regista, l’azione si svolge in quel fatidico anno 1860 che vide lo sbarco di Garibaldi in Sicilia e l’inizio della marcia che portò alla nascita dello stato italiano.

Tutta la narrazione ruota attorno alla figura di don Fabrizio Corbera, principe di Salina (Burt Lancaster), un nobile siciliano che assiste, con sguardo scettico e rassegnato, alle drammatiche vicende che portano alla fine del suo mondo. Intorno a don Fabrizio si muovono varie figure, emblemi di ben specifiche classi sociali. Da una parte i nobili come don Fabrizio arroccati nei loro palazzi ad assistere, impotenti, al cambiamento derivante dalla nascita del nuovo regno; dall’altra, una classe borghese, ignorante e arricchita, della quale don Calogero Sedara (Paolo Stoppa), nuovo sindaco di Donnafugata, luogo di villeggiatura della famiglia di don Fabrizio, ne è l’esempio perfetto.  Una classe di burocrati che sta rapidamente occupando i vari posti di potere della nascente nazione.

Don Fabrizio, che comprende che il suo mondo sta rapidamente scomparendo, dà il suo assenso al matrimonio fra il nipote Tancredi (Alain Delon), tanto nobile quanto spiantato, e la bellissima Angelica (Claudia Cardinale), figlia di don Calogero. Avalla, inoltre, con il suo pubblico voto favorevole, il plebiscito che don Calogero organizza a Donnafugata, per altro alterando i voti, per aderire al nuovo regno. Lo fa in quanto considera questo passo l’unico e urgente rimedio contro l’anarchia.

Il mondo di don Fabrizio si sta rapidamente sgretolando. A nulla vale la considerazione che “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, come afferma Tancredi nel momento in cui comunica allo zio di volersi arruolare con i garibaldini. E la consapevolezza di don Fabrizio di essere ormai superato, fuori dai giochi, viene esplicitata nel colloquio che ha con il cavalier Chevalley (Leslie French), l’emissario del governo che vuole convincerlo ad accettare un seggio nel costituente senato del regno.

Sono un esponente della vecchia classe, fatalmente compromessa con il passato regime, e a questo legato da vincoli di decenza, se non di affetto”, dice don Fabrizio a Chevalley, e continua: “La mia è un’infelice generazione, a cavallo fra due mondi e a disagio in tutti e due. E per di più io sono senza illusioni”, terminando con una affermazione che denota tutta la sua stanchezza e disillusione: “Siamo vecchi, Chevalley, molto vecchi. Sono almeno venticinque secoli che portiamo sulle spalle il peso di magnifiche civiltà, tutte venute da fuori, nessuna fatta da noi. Da 2500 anni non siamo altro che una colonia. Siamo molto stanchi, svuotati, spenti”.

Su tutto il film aleggia un pesante alone di morte

Tutto il film è pervaso dall’idea della morte. In vari passaggi assistiamo a eventi luttuosi, reali o metaforici. Sono reali il soldato trovato morto nelle terre dei Salina a inizio film o i soldati uccisi durante i combattimenti, sia da una parte che dall’altra. Veri sono i fucilati alla fine del film, disertori dell’esercito regio considerati accusati di tradimento per essersi uniti a Garibaldi in Aspromonte.

Allo stesso tempo appaiono come personaggi morenti lo stesso don Fabrizio e la propria famiglia quando, con il volto reso grigio dalla polvere del viaggio che da Palermo li ha portati a Donnafugata, assistono, come mummificati, alla messa. O, ancora, il senso della fine che don Fabrizio percepisce, quasi presagendo la propria, mentre osserva “La morte del giusto”, il dipinto di Jean-Baptiste Greuze.

Così come possiede un osceno sapore funebre tutta la lunga scena del ballo presso palazzo Ponteleone alla quale partecipa l’aristocrazia palermitana, che occupa ben un terzo della durata del film. Fra dame e cavalieri che ballano sino al mattino incuranti di ciò che sta accadendo loro intorno, don Fabrizio assiste, impotente, al tramonto del proprio mondo.

E mentre il parvenu don Calogero, invitato al ballo per accompagnare la figlia Angelica in quello che rappresenta il suo ingresso in società, dorme su un divano, don Fabrizio, in un bagno in cui si intravedono sconce file di orinali ricolmi, si lascia andare al pianto, consapevole del cambiamento ormai inarrestabile della società. Nella scena successiva il principe, tornato nel salone, appare come smarrito e solo e, mentre alcune coppie ballano alle note di un valzer lento e malinconico, si allontana uscendo di scena verso il terrazzo, quasi stesse dirigendosi, mesto, verso il proprio destino. Di sicuro prendendo le distanze sia da quello che sino ad allora è stato il suo mondo, sia da quel mondo nuovo, composto da una nuova classe dirigente che di lì a pochi decenni sarebbe stata la sostenitrice dell’avvento del fascismo.

È una sequenza che rappresenta solo il preludio a quella finale, nella quale lo stesso principe di Salina, allontanatosi finalmente da palazzo Ponteleone, se ne va, solo e mesto, verso il proprio destino, attraversando i vicoli di una Palermo popolare e inginocchiandosi al passaggio di un prete che si reca presso un morente per impartire l’estrema unzione.

A fargli da contraltare è don Calogero, ormai appartenente a tutti gli effetti alla nuova classe dominante che, mentre riecheggia l’eco degli spari dell’esecuzione dei soldati, rassicura Tancredi e Angelica circa il ripristino dell’ordine e, con fare arrogante, sentenzia “è proprio quello che ci voleva, per la Sicilia”.

Il Risorgimento. Una rivoluzione mancata

La lunga e maestosa scena del ballo presso palazzo Ponteleone assume un ruolo centrale nel Gattopardo di Visconti. È qui che il regista si discosta dal romanzo, eliminandone tutta la parte finale che descrive gli ultimi anni di vita di don Fabrizio. Non è una cosa da poco perché, così facendo, Visconti utilizza il grande appuntamento mondano per far terminare le idee di grandezza di un ceto sino ad allora egemonico.

Come afferma lo stesso don Fabrizio, si tratta dell’ultima danza prima della morte degli antichi dei; la conseguenza di ciò è la scomparsa di tutto un mondo, la sostituzione di una casta dominante con un’altra classe dirigente, prendendo, di fatto, le distanze sia da quello che sino ad allora è stato il suo mondo, sia da quella nuova classe di potere.

Tutto ciò, per Visconti, è la prova inconfutabile del fallimento del Risorgimento, una rivoluzione che ha avuto, come unico risultato, la sostituzione nei posti chiave della nobiltà con una classe borghese di burocrati e arricchiti.

Il popolo, passando semplicemente da una dominazione, i Borboni, a un’altra, i Savoia, non muta di una virgola la propria condizione sociale. I poveri restano tali e il Mezzogiorno rimane nella medesima condizione di arretratezza.

Le musiche

Il Gattopardo è un film in cui la musica ricopre un ruolo estremamente importante. Molte scene sono accompagnate dalla colonna sonora realizzata da Nino Rota che già aveva collaborato con Luchino Visconti per Rocco e i suoi fratelli.

Non si tratta di musiche create appositamente per il film, bensì della “Sinfonia sopra una canzone d’amore” che il compositore milanese aveva composto qualche anno prima e che, in parte, era già stata utilizzata per La montagna di cristallo, film del 1949 di Henry Cass.

Anche i brani che accompagnano le lunghe scene del ballo appartengono a una produzione precedente di Rota, a eccezione della musica centrale del ballo, costituita dalla partitura inedita di un “Valzer brillante” di Giuseppe Verdi.

L’uso che Visconti fa della colonna sonora è ineccepibile, conferendo al film toni drammatici e, allo stesso tempo, di melodramma. C’è un momento in cui la musica gioca un ruolo particolarmente significativo nel film: quando sul motivo gioioso della suite tutti i ballerini si uniscono prendendosi per mano, a formare un lungo serpentone danzante fra i tavoli. Su queste note e sulle immagini dei ballerini, la musica si interrompe e la macchina da presa stacca sul volto di don Fabrizio che, nella toilette, guardandosi allo specchio, lascia sgorgare dagli occhi alcune lacrime che rivelano la presa di coscienza della propria sconfitta.

Poi, lentamente, la musica riprende e le note più intime del “Valzer del commiato” accompagnano il principe che, rientrato nel salone, si avvia lentamente verso la terrazza, uscendo così di scena. Una sorta di commiato da un ambiente che, sino a quel momento, aveva sentito come suo e che, ora, non gli apparteneva più.

Il cast

Oltre alla splendida fotografia di Giuseppe Rotunno, un cast d’eccezione contribuisce alla riuscita del film, su tutti Burt Lancaster. Come ha scritto Alberto Moravia “[Visconti] ha trovato in Burt Lancaster un impareggiabile interprete. Quest’attore non è mai stato così grande, con un’interpretazione fatta di misura, di finezza, di eleganza, d’impassibilità e d’autorità, che da sola costituisce la parte principale dello spettacolo” (L’Espresso, 7 aprile 1963).

Parole condivisibili, che non devono, tuttavia, mettere in secondo piano gli altri interpreti che, oltre ai già citati Alain Delon, Claudia Cardinale, Paolo Stoppa e Leslie French, annoverano, fra gli altri, Romolo Valli nella parte di don Pirrone, il prete gesuita di famiglia, Serge Reggiani, in quella di don Ciccio Tumeo, colui che vota contro l’annessione al regno d’Italia ma che vede il suo voto occultato da don Calogero, Rina Morelli che interpreta la moglie timorata di Dio di don Fabrizio e, in parti minori, Ivo Garrani e i giovani Giuliano Gemma, Ottavia Piccolo, Lucilla Morlacchi, Mario Girotti (non ancora Terence Hill), Maurizio Merli.

Tutti contribuiscono a fare del Gattopardo una sinfonia perfetta, uno dei capolavori del cinema italiano di tutti i tempi.

Gli articoli di Marcello Perucca

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Il Gattopardo

  • Anno: 1963
  • Durata: 205'
  • Distribuzione: Titanus
  • Genere: Drammatico, Storico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Luchino Visconti