Tra i diversi cortometraggi che il 20 marzo inaugureranno la serata d’apertura della quattordicesima edizione del Ca’ Foscari Short Film Festival, ci sarà anche The borders never die del regista iraniano Hamidreza Arjomandi. Un’opera struggente che, sebbene racconti con cruda delicatezza e inusuale maturità la mostruosità della guerra, rifiuta il più tragico pessimismo.
The borders never die si erge perciò a testimonianza di un Festival capace di intercettare, non soltanto le paure più recondite, ma anche le più vivide speranze delle nuove generazioni. Cogliere il bene anche lì dove sembra esistere solo il male è un proposito decisamente irrinunciabile e il corto in questione sembra farsene, a suo modo, sentito sostenitore.
The borders never die: trama
In un contesto bellico, una coppia curda tenta la fuga, mirando a un imprecisato confine, nella speranza di oltrepassarlo e dare inizio a una nuova vita. Con il trascorrere dei giorni incombe un senso di incertezza e di impotenza di fronte alla complessità di un cammino che sembra interminabile. Da un lato l’inospitalità dell’ambiente mina i bisogni essenziali, dall’altro le sfide che il viaggio riserva si fanno sempre più ardue. Ciononostante, i due coraggiosi protagonisti non intendono demordere, trainati dal costante richiamo di una possibile salvezza.
Un conflitto che non si vede, ma si percepisce
Hamidreza Arjomandi, come tutti i concorrenti del Ca’ Foscari Short Film Festival, è un regista giovane. Eppure, terminata la visione di The borders never die, si ha l’impressione che il film non sia fatto da un esordiente. Forse per la maturità con cui il medium cinematografico viene effettivamente sfruttato da Arjomandi, o forse per la facilità con cui la struttura narrativa riesce a calare chi osserva nei panni di chi la guerra la vive ogni giorno.
Quel che è certo è che The borders never die arriva allo stomaco come un pugno silenzioso, la cui forza non si basa sul bisogno di mostrare l’effettivo conflitto, ma piuttosto sulla necessità di palesarne i tragici effetti. L’assioma è molto semplice e altrettanto potente: la guerra, anche se non vista, può essere percepita. Così, durante tutto il cortometraggio, non si assiste a nessun combattimento, a nessuna sparatoria, scene a cui il cinema forse ci ha abituato fin troppo. M si è spettatori dei drammi più innaturali ed esistenziali che spesso si nascondono dietro il velo più cruento della battaglia: una madre e un padre che seppelliscono il figlio maggiore, un giovane armato di fucile che ruba la moto per fuggire più velocemente da dove è cresciuto, una bambina rimasta orfana, un aborto spontaneo causato dalla malnutrizione e dallo stress disumano.
La speranza è l’ultima a morire

The borders never die non è sicuramente un cortometraggio che va preso con leggerezza, anzi.
Tuttavia, la serietà non si riferisce per forza esclusivamente alla tragicità del dramma, ma anche a all’intento e al messaggio finale, positivi. Oltre a voler condannare la brutalità della guerra, Hamidreza Arjomandi non intende privare del tutto il film della più sincera speranza.
Il suo grido di fiducia si concretizza in particolare nella figura della bambina orfana, che i due protagonisti incontrano nella loro strada. Vestita di rosso, il colore del sangue, ma anche dell’amore, la fanciulla fa da contraltare alla durezza e all’inospitalità di un ambiente reso tale dal conflitto. Il viaggio, catturato attraverso una serie di inquadrature statiche che costringono lo spettatore a osservare, non è quindi solo privazione, ma anche rinascita. In qualche modo urge proprio leggere questa verità dietro le opere di chi, come Hamidreza Arjomandi, forgerà il pensiero del domani.
Qui potete trovare il programma completo delle proiezioni della quattordicesima edizione del Ca’ Foscari Short Film Festival.