C’è un cinema che parla sempre sottovoce, eppure la sua eco si allarga ovunque. Si tratta del cinema iraniano. Un cinema fatto di silenzi che urlano, di sguardi trattenuti che implodono, di corpi fermi che resistono. In un Paese dove tutto ciò che si mostra può diventare reato, ogni inquadratura è una sfida, ogni storia è un atto politico. Parlare oggi del cinema iraniano significa parlare di assenze: registi che non possono più girare, set improvvisati in salotti, copioni falsi. Censura, dolore, repressione. Ma significa anche parlare di un’ostinazione irriducibile. Quella di chi continua a raccontare, anche senza permesso.
Primo fra tutti: Asghar Farhadi, raffinato regista due volte premio Oscar (Una separazione, Il cliente). Proprio lui, che è stato a lungo considerato il volto “accettabile” del cinema iraniano all’estero, ha oggi tracciato un confine netto:
“Vorrei girare nel mio paese, per le strade, ma riprendendo le donne libere, senza velo; ritornerò a lavorare là solo quando la situazione sarà cambiata”
È una dichiarazione forte, non ideologica, ma etica.
Farhadi non è un regista militante. I suoi film non urlano, scavano. Raccontano piccole vicende domestiche – divorzi, segreti, incomprensioni – in cui si riflettono intere strutture sociali. Le case diventano prigioni, i tribunali labirinti morali. E il velo, che per anni era stato accettato come compromesso visivo, diventa ora il simbolo dell’impossibilità di continuare a fingere.
La sua decisione arriva in un momento delicatissimo per l’Iran. Dopo la morte di Mahsa Amini, arrestata perché “indossava male” il velo, si è aperta una nuova stagione di repressioni. Farhadi, senza gridare, prende posizione. E lo fa nel suo stile: sobrio, ma inequivocabile.
Non un caso isolato
Ma il suo non è un caso isolato. Anzi.
Il cinema iraniano è da sempre un terreno minato, in cui ogni scelta estetica è anche una scelta politica. Basti pensare a Mohammad Rasoulof, Leone d’Oro con Il male non esiste. Da lungo tempo in balia della giustizia iraniana a causa delle sue opere, ha recentemente diretto The Seed of the Sacred Fig girandolo… via FaceTime. Letteralmente. Un film clandestino, girato in remoto e quasi tutto in interni, per eludere la pressante sorveglianza del governo. Un’opera che parla di famiglia, autorità e sospetto, ambientata tra le tensioni delle proteste del 2022. La storia di un padre che inizia dubitare delle sue stesse figlie, mentre fuori dalle mura domestiche la paranoia diviene sistema.

Rasoulof non nasconde più nulla. Affronta di petto l’ossessione del regime per il controllo. E paga il prezzo: condanne, censura, arresti. Proprio per poter presentare a Cannes 2024 The Seed of the Sacred Fig, è costretto a fuggire dall’Iran. Oggi, vive in Germania, ma non ha nessuna intenzione di mollare, e programma quanto prima di riuscire a tornare in Iran. Non si sa come, o quando. Ma Rasoulof sa che tornerà. 
Panah Panahi
Accanto a lui, un altro nome potente: Panah Panahi, figlio del grande Jafar Panahi (più volte arrestato e interdetto dalla professione, ma comunque autore di film seminali come Taxi Teheran e Il cerchio).
In Hit the Road, Panahi mette in scena il viaggio di una famiglia attraverso paesaggi remoti e silenziosi, verso un confine mai nominato ma sempre presente. È un film dolceamaro, intriso di tenerezza, ironia e struggimento. I motivi della fuga non vengono mai dichiarati apertamente, ma affiorano nei silenzi, negli sguardi, nelle pause. Sono lì, come una presenza invisibile che accompagna ogni svolta, ogni chilometro. È un film che parla di fuga senza mai nominarla: costruisce attorno all’assenza, lasciando che lo spettatore legga tra le righe.
È proprio in quel silenzio imposto che si annida la più lucida forma di ribellione: il racconto. Nel cinema iraniano, ogni inquadratura è una sfida, ogni parola concessa è una concessione strappata con i denti. Perché la censura, in Iran, non ha volto. Non si presenta con divieti urlati, ma con pratiche infinite, con autorizzazioni che non arrivano mai, con sceneggiature rimandate dieci volte finché non ne resta che un guscio.
Gli autori devono giurare obbedienza, firmare moduli di sottomissione, riscrivere fino a perdere il senso. Oppure sparire. Molti scelgono di girare in segreto. Altri filmano fingendo di non farlo. Perché in un Paese dove dire è già resistenza, il cinema diventa un atto pericoloso. E necessario.
Le donne
C’è poi un altro fronte. Quello che fa ancora più paura: le registe.
In un Paese in cui il solo fatto di essere donna è già una colpa, raccontare da uno sguardo femminile è un atto politico. Esistono registe in Iran, e non solo esistono: resistono.
Pensiamo a Rakhshān Banietemad, prima donna a imporsi nel panorama post-rivoluzionario. I suoi film non gridano, ma scavano. Parlano di madri sole, di operaie, di vite ai margini. Storie che non fanno rumore, ma che non si dimenticano. Ogni sua inquadratura è un atto di ascolto. Ogni volto che mostra è un volto che il regime preferirebbe invisibile. Under the Skin of the City è sicuramente la sua pellicola più emblematica: una madre operaia cerca di proteggere a tutti i costi la propria famiglia in una Teheran disillusa e opprimente. Una storia semplice, ma che gronda verità.

Frame tratto da Under the Skin of the City
Anche Tahmineh Milani non si limita ad alludere, ma ad attaccare. In The Hidden Half, una donna ripercorre la propria vita e, nel farlo, mette in crisi tutto l’ordine morale che la circonda. Risultato? Arresto immediato per “Propaganda contro lo Stato”. Eppure Milani non si è fermata. Smettere di girare sarebbe come morire. E con questa consapevolezza ha continuato, sapendo bene che ogni ciak avrebbe potuto essere l’ultimo.
Sfida al sistema
In Iran, ogni film è una sfida al sistema. Ogni soggetto è un rischio. Ogni metafora è una mossa d’ingegno. Il cinema iraniano si è evoluto sotto censura. Ha dovuto imparare a sopravvivere senza dire tutto. Così è nato un linguaggio obliquo, fatto di silenzi, sguardi, pause. Un’estetica dell’allusione.
Le parole proibite non si pronunciano: si insinuano. I concetti vietati non si dichiarano: si sfiorano. Non è un gioco stilistico. È una necessità. È sopravvivenza in forma di racconto.
Eppure, anche così, il cinema iraniano riesce ancora a viaggiare. Ogni anno, nei festival di tutto il mondo, arrivano film girati in segreto, firmati con il cuore, montati in clandestinità. Non hanno slogan, né bandiere. Ma parlano: vita quotidiana, piccoli amori, bambini che guardano dalla finestra.
Non cercano il consenso, né l’eroismo. Cercano solo un modo per continuare a esistere. E ci riescono. Perché il cinema iraniano si è fatto linguaggio dell’indicibile. Un linguaggio che riesce a parlare di prigione senza mostrarne le sbarre. Che racconta il desiderio senza mai consumarlo. Che evoca la libertà, senza doverla gridare.
Pensiamo a Close-Up, capolavoro assoluto di Abbas Kiarostami.
Un uomo comune si finge un celebre regista per entrare in casa di una famiglia benestante. Viene scoperto. Viene processato. Ma Kiarostami non lo umilia: lo ascolta. Lo filma. Lo rende co-autore del racconto. Gli restituisce dignità.
Close-Up non è solo una riflessione sul confine tra realtà e finzione. È un gesto politico mascherato da pietà. Parla di fame: fame di identità, fame di riscatto, fame di essere visti in un paese che ti cancella se non hai un ruolo.
È il ritratto feroce di una società in cui, per essere qualcuno, bisogna abbandonare sé stessi e fingersi qualcun altro. Con uno stile minimale e spietato, Kiarostami scava dentro la vergogna e ci trova la bellezza.
E in quell’uomo qualunque che sogna di essere un regista, vediamo riflesso un intero popolo a cui è stato tolto il diritto di raccontarsi.

Un viaggio nel cinema iraniano contemporaneo, tra censura, resistenza e poesia. Da Kiarostami a Farhadi, storie che sfidano il silenzio.
Siamo di fronte, dunque, ad un cinema che guarda in faccia la finzione. E ci trova la verità. Forse è proprio qui la vera cifra del cinema iraniano contemporaneo.
Un cinema che non chiede comprensione, ma attenzione.
Un cinema che vive in bilico: tra casa e cella, tra permesso e punizione, tra speranza e rassegnazione.
Una macchina da presa che continua a girare anche quando è vietato.
Anche quando è sola.
Perché ogni storia raccontata è un chiodo piantato nel muro della censura.
Ogni film, anche il più piccolo, anche girato in un salotto, è un atto di resistenza.
E in un mondo che ha paura delle immagini, resistere anche solo con lo sguardo è un atto di rivoluzione.