C’è una città dimenticata nel cuore dell’Ohio. Si chiama Xenia. Da quando un terribile uragano l’ha devastata, non ci passa più nessuno. Desolazione, caos e vuoto sono le uniche cose rimaste.
Eppure a Xenia ci vive ancora qualcuno, oltre ai gatti randagi. Pochi abitanti, abbandonati a sé stessi, che si limitano ad esistere. Qui la vita sembra aver perso ogni senso, e ciò che conta è dimenticare, ad ogni costo, la propria condizione disperata.
Gummo racconta senza mezzi termini che cosa vuol dire vivere in luogo che era, ma che purtroppo non è più. L’opera prima di Harmony Korine, uscita nelle sale statunitensi nel 1997, è un ritratto vivido e sporco di un’ America talmente disperata che ha dimenticato il significato della parola speranza. Davanti agli occhi, solo un’immensa marea di macerie e rifiuti.
Gummo. Xenìa, Ohio
In greco antico, la parola xenìa ha un significato profondo: non indica solo l’ospitalità, ma racchiude un insieme di valori e rituali sacri legati all’accoglienza dello straniero. Nella Grecia antica, infatti, l’ospite era considerato inviolabile e andava trattato con il massimo rispetto, pena l’ira degli dèi.
Xenia, Ohio non ha nulla di ospitale: le strade sono invase dai detriti, le case colme di sporcizia e disordine, gli abitanti chiusi, scontrosi, ostili.

L’uragano, oltre ad aver mietuto innumerevoli vittime, sembra aver spazzato via l’umanità dei sopravvissuti. Bunny Boy, Solomon, Tummler, Dot, Helen, Jarrod, e tutti i loro tristi compagni portano sul volto giovane il marchio pesante dell’abbandono: a Xenia non esistono adulti. L’uragano se li è portati via tutti, uccidendone i più, e lasciando privi di ogni buon senso i restanti.
Korine mette in scena un mondo alla deriva, totalmente scollegato da ciò a cui siamo abituati — eppure reale, concreto, pulsante. Gummo non indulge nel patetismo, non cerca compassione né pietà. Scava, raschia, stride. Non vuole piacere, e non ha alcun bisogno di farlo. L’opera di Korine è un reportage crudo e disturbante sul vuoto esistenziale che soffoca ragazzi cresciuti nel nulla. E che col nulla, ogni giorno, devono convivere.
Gummo Un reportage sul vuoto
Ma cosa racconta concretamente Gummo?
Niente. Assolutamente niente.
Non ci sono né una storia né uno sviluppo. Korine crea dei grotteschi siparietti, tra loro sconnessi, dove si limita a mostrare brevi estratti di quotidianità.

Seguiamo così il vagabondare sconclusionato di Bunny Boy, un ragazzo muto che indossa sempre un cappuccio rosa con orecchie da coniglio. Si aggira in silenzio per la città, dove viene ignorato o, a tratti, insultato.
Solomon e Tummler, migliori amici e orfani di un genitore, passano le giornate in bici a caccia di gatti randagi da uccidere, per poi rivenderli al macellaio in cambio di pochi spiccioli.
Dot ed Helen sono due sorelle adolescenti il cui unico obiettivo sembra essere quello di risultare desiderabili agli occhi dei ragazzi. Tra gomme da masticare, smalti colorati e stratagemmi per ingrandirsi i capezzoli, passano le loro giornate all’insegna dell’ozio.
E così anche il resto dei personaggi: adolescenti soli, abbandonati, che trascorrono il proprio tempo immersi in un mare di fetido disagio ed estenuante noia.
Gummo: il paese dei balocchi
I pochi personaggi adulti, invece, hanno la parvenza di relitti, che si trascinano a fatica nelle loro esistenze vacue. Vivono sommersi dai loro ricordi, e in essi annegano, fuggendo quanto più possibile la realtà. La mamma di Solomon e il papà di Tummler giacciono dunque in uno stato di alienazione incontrovertibile, inseguendo disperatamente un mondo che li ha svuotati e che poi se li è lasciati alle spalle.
L’uragano li ha distrutti, proprio come ha fatto con i loro cari, ma con una crudeltà ancora più feroce, ha scelto di lasciarli in vita.

Gummo, dunque, non racconta nulla. E non deve raccontare nulla. Farlo significherebbe inseguire un senso. Trovare uno scopo alle esistenze dei suoi protagonisti. Scopo che però non esiste, e che probabilmente non è mai esistito.
Con le sue inquadrature fisse e statiche, spesso frontali, Korine si limita a mostrare senza giudizio le conseguenze devastanti dell’abbandono. La fissità dell’inquadratura non è solo una scelta estetica, ma etica: è uno sguardo immobile, che si rifiuta di intervenire, di spiegare, di consolare. L’occhio del regista è fisso e inamovibile: che in scena ci siano Dot ed Helen intente a canticchiare distese sul letto, che ci sia Bunny Boy picchiato e insultato da due bambini vestiti da cowboy, o Solomon e Tummler impegnati ad avere rapporti sessuali con una prostituta affetta da sindrome di Down, Korine non cambia mai tono. Non guida l’emozione dello spettatore, non lo assolve né lo provoca: si limita a esporre, lasciando che sia la realtà, nuda e spietata, a parlare.

Gunny Boy alle prese con due pericolosi cowboys.
Un mare di disagio
Anche perché qualsiasi tipo di giudizio da parte del regista risulterebbe superfluo. Xenia si mette in scena da sé. E per per tutti i suoi novanta minuti di durata, Gummo infonde nello spettatore un costante e penetrante senso di sporcizia, di marciume, e soprattutto di degrado. L’opera di Korine è talmente potente che, anche dopo il termine, lascia sulla pelle una sensazione di disagio difficile da grattare via. Quanto appena visto è così profondamente “sbagliato”, che diventerà quasi fisiologico il bisogno di lavarsi di dosso tutto quel luridume.

Gummo, dunque, sporca perché è sporco. Ed è necessario che lo sia: è una pillola che non deve in alcun modo essere addolcita. Il caos disturbante che regna nell’opera di Korine deve fare male e deve colpire affondo per essere efficace. L’America sorridente e patinata possiamo lasciarla da parte: la conosciamo fin troppo bene. Se esiste, di certo non si trova a Xenia.
Proprio quell’America disprezza Xenia con tutte le sue forze, e si ostina a volerci convincere che non esista. Ma Gummo lo dice chiaro e tondo: Xenia, Ohio esiste.
E va guardata dritta negli occhi, per quanto ripugnante sia.
Il grido
Ma nel martoriato e dimenticato mondo di Gummo regna comunque una paradossale armonia. In mezzo all’oscena confusione, Korine riesce a far emergere le sfumature più sincere e, paradossalmente, più umane. Ogni gesto si fa manifestazione. Ogni sguardo si fa miraggio. Ogni battuta diventa un inconsapevole grido d’aiuto. Una boccata d’aria delle più disperate.

Quella di Korine è un’umanità oggettivamente ripugnante, ma che ha tutto il diritto di urlare la propria rabbia, di affondare le unghie nel muro di un mondo che fa finta di non sentirla. Gummo rappresenta l’ultimo baluardo di speranza per chi nella speranza ha smesso di crederci da troppo tempo. È l’estremo tentativo di trovare un minimo di senso dentro un vuoto che senso non ha.
Il più poetico dei caos, la più caotica delle poesie
L’opera di Korine è disturbante e necessaria, esattamente come una poesia maledetta. Fa pensare a Rimbaud, quando vomita versi sulfurei e allucinati, presi direttamente dal fango: c’è lo stesso delirio, la stessa urgenza, lo stesso gesto distruttivo che però, in fondo, resta un gesto poetico. Anche Gummo, nel suo sudiciume visivo e narrativo, non può fare a meno di essere lirico. Perché c’è più verità in quei ragazzini marci che sniffano colla e sparano ai gatti, che in mille narrazioni ben confezionate, pettinate, accomodanti.

È proprio in questo che Gummo trova la sua grandezza: nel rendere il caos qualcosa di coerente, e lo squallore qualcosa di profondamente umano. Non c’è redenzione, non c’è evoluzione, non c’è morale. Ma c’è la vita, nella sua forma più grezza, sgraziata, indigesta.
Una vita che puzza, ma pulsa.
E che va guardata.
Anche quando fa schifo
Anche quando fa male.
Come accade in una delle sue ultime, più crude scene: Bunny Boy sbuca dall’erba alta, corre verso lo spettatore, guarda dritto in camera e solleva ciò che speravamo di non vedere mai. Orrido trofeo, macabro reclamo di un’esistenza sciagurata.
Nessuna spiegazione. Nessuna mediazione. Solo l’atto puro di mostrare.
Ecco Gummo: un’immagine che nessuno vuole vedere, ma che esiste. Ed esiste proprio perché qualcuno ha avuto il coraggio di sbattercela in faccia. Korine non ci chiede di capire, né di empatizzare. Ci chiede solo una cosa: di non voltare lo sguardo. Mai.