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Conversation

‘L’avamposto’ Conversazione con Edoardo Morabito

Come i film di Werner Herzog L'avamposto di Edoardo Morabito racconta l'utopia di un personaggio fuori dagli schemi. Del film ora al Cinema e di Christopher Clark abbiamo parlato con il regista

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L’avamposto  racconta l’utopia di Christopher Clark, eco guerriero scozzese famoso in tutto il mondo per il tentativo di salvare la foresta amazzonica dalla sua distruzione. Del film abbiamo parlato con il regista Edoardo Morabito.

 

L’avamposto di Edoardo Morabito è stato presentato a Venezia alle Giornate degli Autori e sarà distribuito da Luce Cinecittà. Per comprendere meglio L’avamposto abbiamo fatto alcune domande al regista Edoardo Morabito.

Edoardo Morabito e il suo L’avamposto

La storia del tuo film nasce con l’idea del protagonista di far suonare i Pink Floyd in Amazzonia. Per contesto ambientale e grandezza di intendimenti L’avamposto mi ha fatto venire in mente Fitzcarraldo. 

Sì, una specie di post anti Fitzcarraldo per il fatto di arrivare nell’epoca sbagliata. Comunque sì, hai colto perfettamente quello che è più di un riferimento, ma l’essenza di un personaggio che come Fitzcarraldo lancia il sasso oltre il muro.

Non avrà lo stesso furore dei personaggi herzoghiani, ma Christopher Clark con i personaggi dei film del regista tedesco condivide il folle romanticismo e la bigger than life.

Assolutamente, infatti il suo dramma è anche questo, e cioè lo scontrarsi con due realtà: quella in cui vive e l’altra, cinica come può esserlo l’atteggiamento del modo occidentale da cui proviene. Lui vi si ritrova in mezzo e in qualche modo ne viene schiacciato. Certo, c’è stata una prima fase in cui tutto gli riusciva, guidato com’era dalla volontà della sua fantasia. Poi, mano mano che vi si allontanava il sogno iniziava a sgretolarsi mentre lui passava a un altro progetto. Era come se questi sistemi da lui creati funzionassero fino a quando riusciva a giocarci. Poi, quando arrivava il momento di doversi scontrare con la realtà lui iniziava ad allontanarsi e quelli crollavano. Comunque sono d’accordo con te sul fatto che Clark non ha lo stesso furore di Fitzcarraldo.

Parallelismi e collegamenti

Tu lo metti in scena senza lo stesso furore, ma con una visionarietà che in qualche modo ne rasenta la follia. Rispetto a un personaggio come quello di Fitzcarraldo il tuo appare più posato.

Diciamo che nella follia c’è la fantasia di creare un sogno in cui credere che non è tanto avere i Pink Floyd quanto di salvare la foresta amazzonica dalla sua distruzione. C’è una differenza interessante però, perché Fitzcarraldo è un personaggio di finzione, quindi è più facile spingerlo agli estremi, mentre nel mio film c’è la realtà in cui il furore esiste ma non è scenico. Parlo di una dimensione resa più vera e umana per via della insicurezze che di tanto in tanto si palesano. In più c’è un gioco di specchi tra me e lui dovuto al fatto che Christopher a un certo punto riesce a credere ancora al suo sogno solo per il fatto che ci sia io a filmarlo. Mi piacerebbe che questo aspetto si riuscisse a cogliere.

Forse sarebbe più appropriato paragonare Clark ad alcuni protagonisti dei documentari del regista tedesco: penso per  esempio a Grizzly Man e ancora a Katia e Maurice Krafft, i due vulcanologi uccisi da un’eruzione di cui Herzog racconta la vicenda in Into the Inferno. In maniera meno consapevole anche Clark è pronto a sacrificare la propria vita per salvare l’Amazzonia.  

Il paragone con Grizzly Man mi piace molto perché in entrambi c’è l’adesione totale all’idea che li muove, cosa per me assolutamente poetica. Parliamo di due uomini che arrivano da un’altra epoca, nel senso che per carattere e pensiero non appartengono al mondo di oggi, appiattito all’ideale del consumismo. In realtà la vita di Clark a un certo punto è stata un po’ penalizzata a causa di questioni private, coincise con la decisione della moglie italiana di far studiare le figlie in Europa. A differenza di Grizzly Man, Christopher non aveva lo stesso livello di problematicità: per quanto esuberante e con qualche ombra lui è stato un grande imprenditore. Dapprima girò per il mondo come editore di libri per l’infanzia, poi negli anni Ottanta andò in Toscana dove si sposò con l’amore della sua vita ed ebbe due figli. Lì si occupò di ristrutturare casali per poi rivenderli a clienti inglesi. Salvo stancarsi e investire tutti i soldi guadagnati nella sua nuova ossessione, rappresentata appunto dall’Amazzonia e dal progetto legato al villaggio in cui andò ad abitare. Christopher non pensava ad altro, ma nonostante questo non raggiunse mai la criticità del personaggio immortalato da Herzog.

L’avamposto di Edoardo Morabito: il cinema

Il valore del tuo film sta anche nel fatto di aver riconosciuto le grandi qualità cinematografiche del protagonista. Dei grandi personaggi creati dalla settima arte Clark ha l’idealismo, ma anche le contraddizioni che lo rendono un uomo complesso: tanto reale quanto inafferrabile. La sua sola presenza porta con sé tutta una serie di riferimenti legati al cinema. 

Esatto, lui è potentissimo. A parte essere bello come un attore hollywoodiano, ha anche uno sguardo davvero potente.

Sempre e dovunque con la sigaretta in bocca, come Lucky Luke. 

Esatto. Anche in questo è novecentesco.

Nell’immagine d’apertura lo pedini mentre, seduto sulla barca, procede lungo il fiume all’interno di un mondo primordiale. Allo stesso tempo sentiamo un messaggio audio che sta mandando a David Gilmour. Una sovrapposizione, questa, utile ad anticipare uno dei temi del film, ovvero il tentativo di Clark di conciliare la sua utopia con la componente tecnologica. Un contrasto che funziona anche in termini di vertigine visiva. 

Mi piace la tua analisi, meglio di così è impossibile esporla.

Richiami e attualità

Se il paesaggio e Clark sono protagonisti del film, le immagini si servono di questo connubio per rilanciare altri universi cinematografici. In alcuni momenti il rapporto uomo e natura, sia in termini filosofici che visivi, sembra richiamare Mosquito Coast, mentre la panoramica sull’incendio della foresta rimanda alla sequenza del napalm di Apocalypse Now. L’immaginario de L’Avamposto ha la stessa potenza. 

Quello a cui ti riferisci non è casuale. Ancora una volta hai visto bene in quanto il riferimento da me utilizzato è stato Joseph Conrad. Il mio distaccamento è simile all’avamposto del progresso di cui parla Conrad nel racconto breve così intitolato. Nella mia storia il progresso è rappresentato dall’infermeria del villaggio costruita da Clark per far sì che con una la gente evitasse di morire per un morso di ratto. E poi dalla scuola, che però fa sì che i giovani non vadano più nella foresta perdendo così la dimestichezza con quello che era il loro ambiente naturale e in qualche modo la loro ricchezza.

L’attualità di un film come L’avamposto è quella di parlare della salvaguardia dell’ambiente. La parte più importante è però la riflessione sulle contraddizioni dell’utopia di Clark, allorché si scopre che il progresso porta con sé aspettative che finiscono per fiaccare la voglia di fare dei nativi. 

Esatto! È il dramma di quel luogo. Nel film ho dovuto sintetizzare il discorso ma Clark dice che a distanza di tre generazioni ha visto cambiare tutto. La storia è sempre la stessa, con gli indios dapprima in grado di soddisfare i propri bisogni primari, poi fiaccati dall’introduzione del modello di civiltà occidentale. Clark aveva capito che per far sopravvivere la foresta amazzonica bisognava creare un’economia che avesse a che fare con essa. Solo così per lui si poteva impedire la distruzione. All’inizio l’innovazione ha permesso agli indios di avere una vita migliore e anche una maggiore serenità poi, piano piano, hanno iniziato a sperperare i soldi in droghe e prostituite. Con l’arrivo dei turisti la popolazione ha smesso di essere dipendente dalle donazioni europee, ma il capitale è stato alla base della loro distruzione.

Adattarsi

In questo senso L’avamposto racconta una storia universale. Abbiamo parlato delle caratteristiche cinematografiche de L’avamposto, della sua capacità di evocare alcuni capolavori del cinema classico, e generi come il western, richiamato nel modo in cui l’uomo si rapporta al paesaggio. Un’altra caratteristica de L’avamposto è l’imprevedibilità propria del documentario, la capacità di calarsi nella realtà senza interferirvi, ma anzi sapendosi adattare a situazioni di disagio come quelle che hai sperimentato nel viaggio all’interno della foresta.

Sì, nel senso che il film non si fa portatore di una tesi o di un punto di vista fisso e prestabilito e non usa la realtà per raccontare qualcosa, ma racconta qualcosa attraverso la realtà. Il film è costruito così, attraverso progressivi svelamenti. Ci sono io che seguo un personaggio incredibile e poco alla volta questa cosa si smonta perché poi la realtà vista da vicino è sempre diversa da come ce l’eravamo immaginata. Meno epica di ciò che sembrava.

L’avamposto è anche una parabola sui falsi miti, intendendo con esso sottolineare la natura del rapporto tra il film e il suo personaggio. Con quest’ultimo che si serve della tua presenza per rilanciare un progetto di cui lui per primo capisce l’impossibilità di realizzazione.

È questo il bello, perché alla fine è una storia di un’amicizia. Si parla un po’ anche del senso dell’esistenza, dell’arte e delle relazioni. In questa ottica il film diventa quasi monicelliano, con io che inizio raccontando la sua avventura e con lui che pensa di vivere di riflesso nella mia, che poi è quella di riuscire a realizzare il  lungometraggio.

È il gioco di specchi di cui dicevi all’inizio.

Sì, dove è tutto un po’ comico, ma in maniera affettuosa.

La voce di Edoardo Morabito ne L’avamposto

A proposito di comicità e di romanticismo, tu scegli di usare la tua voce come io narrante, il che dà al film un tono da commedia perché il tuo è un timbro morbido, gentile e ironico, non retorico. In più così facendo è come se volessi mantenere il film con i piedi per terra.

Esatto. Si poteva commettere qualsiasi peccato tranne quello di essere retorici. Oppure ingenui, come succede quando lui mi dice che ci risponderà Bianca Jagger. Christopher è il primo a non crederci e la mia voce aiuta a svelare i suoi sentimenti. Questa serve per far  tenere i piedi per terra al film. Se lo avessi idealizzato con un certo pathos sarebbe stato un racconto pieno di retorica, fuori da ogni canone di realtà. Ho sofferto parecchio a mettere la mia voce, ma se ne avessi scelto una neutra sarei venuto meno al mio ruolo di personaggio che interagisce con il protagonista. Con un’altra voce sarebbe diventato una roba didascalica, sul tipo dei documentari National Geographic.

In realtà ho dovuto inserire la mia perché lui purtroppo è morto anzitempo. Stavo cercando di mettere su il progetto e mi son ritrovato a non sapere come usare il materiale girato. Mi sono bloccato per un paio d’anni perché per me Christopher era diventato un amico. Ciò nonostante non volevo lasciarlo andare perché mi sembrava fosse una storia che valeva la pena di raccontare. Da lì mi è venuta l’idea di metterla in scena con dentro il mio personaggio. In effetti se ci pensi è la nostra relazione a restituire la storia di Clark.

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L'Avamposto di Edoardo Morabito

  • Anno: 2023
  • Durata: 84'
  • Genere: documentario
  • Nazionalita: Italia, Brasile
  • Regia: Edoardo Morabito