Tratto dall’omonimo romanzo di Rosella Postorino, arriva in sala dal 27 marzo il nuovo film di Silvio Soldini Le assaggiatrici con Vision Distribution.
De Le assaggiatrici abbiamo conversato con il regista Silvio Soldini.

Le assaggiatrici di Silvio Soldini
La sequenza che apre il film racconta una fuga dalla guerra senza però dare informazioni sulla ragazza bionda che ne è protagonista. L’omissione riguarda non tanto il principio di realtà che di lì a poco verrà spiegato quanto piuttosto la posizione morale della donna che in qualche modo è allo stesso tempo vittima e, per interposta persona, carnefice.
Del libro di Rosella Postorino da cui è stato tratto il film mi era piaciuta molto la complessità, ma dire che Rosa è una carnefice mi pare a dir poco esagerato. Con i miei sceneggiatori abbiamo scelto di iniziare e finire la storia in maniera differente dal romanzo con, però, l’interno di mantenere inalterata l’anima di ciò che viene raccontato. Il romanzo è narrato in prima persona da Rosa, che racconta la sua fuga da Berlino e il suo arrivo in questo paesino di campagna lontano da Berlino dove non conosce nessuno. Rimasta senza genitori e con il marito in guerra la ragazza che pensa di rifugiarsi dai suoceri finisce invece, per ironia della sorte, in una situazione assurda, in cui è obbligata ad assaggiare i pasti di Hitler. A complicare la situazione si innamora di un ufficiale delle SS, a testimonianza di un quadro a dir poco articolato perché se da una parte la coercizione a cui è sottoposta Rosa fa di lei una vittima, dall’altra il fatto di concorrere a mantenere Hitler in salute, evitandogli il rischio di avvelenamento, la rende in qualche modo colpevole. Per uno come me, affascinato dai personaggi femminili, questa storia era un invito a nozze.
Il tuo è anche un cinema di amicizie femminili. Da questo punto di vista l’incontro tra due solitudini, quella di Rosa ed Elfriede, mi ha ricordato quella raccontata ne Le Acrobate.
A me non tanto, ma mi fa piacere che ti ricordi quel film, che amo molto anche per come è stato costruito drammaturgicamente. Lì c’erano due donne che non si conoscono perché una vive al nord, l’altra al sud. Conosciamo prima una, poi l’altra. A metterle in contatto è una vecchia signora che muore, e c’è anche un quarto personaggio femminile: una bambina. Le assaggiatrici lo vedo più collegato a Brucio nel Vento, innanzitutto perché entrambi sono tratti da un romanzo, scritto da una donna, che mi ha affascinato molto e che mi ha costretto a girare il film in una lingua non mia. Brucio nel vento in ceco, Le Assaggiatrici in tedesco. In qualche modo si tratta di lungometraggi in costume anche se il primo era ambientato in un tempo sospeso, compreso tra gli anni settanta e ottanta, il secondo invece nel 1943 nella Germania Orientale, a due passi dalla “tana del lupo” di Hitler. È questo il motivo, per il tipo di verità che ricerco nel mio cinema in generale, che ho deciso di girare il film in tedesco. In Italia gira anche la versione doppiata, chiaramente, ma la bellezza e l’autenticità che trasmette la versione originale è fuori di dubbio.

L’inizio
Nella sequenza iniziale scegli di restringere il campo d’azione sul volto di Rosa escludendo ciò che la circonda. Secondo me non si tratta di una scelta estetica perché è come se tu attraverso quel primo piano invitassi lo spettatore a guardare in faccia la ragazza per cercare la risposta all’interrogativo iniziale, quello in cui ci si domandava da che parte sta la protagonista. La messinscena lascia allo spettatore la possibilità di farsi la propria idea senza influenzarne il punto di vista.
Quello è anche il primo piano di una giovane donna distrutta dal viaggio e dalla vita. La vediamo stanca, con il trucco oramai sbavato. Ma prima di arrivare al suo viso si vede la sua mano che apre il cancelletto di una casa di campagna e subito dopo le mani di Herta, la madre del marito, che lavorano la terra. Non è un caso perché il discorso sulle mani torna più volte nel corso del film, fino ad arrivare al finale.
L’immagine conclusiva rilancia l’interrogativo d’apertura portandoci a riflettere sulla questione di chi è vittima e di chi è carnefice? Da una parte Rosa è oppressa della guerra, dall’altra, come cittadina di una nazione che si è macchiata di un’orribile tragedia, è suo malgrado macchiata da una sorta di peccato originale.
Come hai giustamente detto l’inquadratura iniziale era importante perché volevo rendere subito chiaro che sarebbe stata Rosa ad accompagnarci nelle vicende del film. Lei è la prima persona che conosciamo, poi quando i soldati si presentano a casa dei suoceri per prelevarla e portarla in caserma la seguiamo fino ad arrivare al furgone che aspetta con a bordo le altre giovani donne. Rosella Postorino ha scritto il romanzo in prima persona nei panni di Rosa, fin dall’inizio mi sono chiesto come trasferire questa prima persona nella mia regia e nelle mie immagini.
Immagini e personaggi nascosti ne Le assaggiatrici di Silvio Soldini
La prima sequenza racconta di come la guerra stravolga la vita delle persone. Rosa infatti è costretta a camminare a piedi dalla stazione alla casa dei suoceri per mancanza di mezzi di trasporto. Ancora più paradossale è l’abbondanza di cibo di cui godono le protagoniste, destinata a diventare uno svantaggio e non una condizione privilegiata come dovrebbe essere in un periodo di provata scarsità alimentare.
L’ironia della sorte vuole che mentre il resto della popolazione muore di fame le assaggiatrici possano godere di un meraviglioso banchetto in cui però dietro ogni boccone potrebbe nascondersi la morte. Un’altra cosa particolare è quella di raccontare la guerra lasciandola fuori campo. Nel film ne mostriamo le conseguenze sulle persone più deboli, prima di tutto le donne, ma anche vecchi e bambini. Gli uomini fanno la guerra, sono al fronte, ma io non li racconto. In questo genere di storie non accade quasi mai.
Capita la stessa cosa con Hitler. Il Fuhrer è una sorta di presenza invisibile e questo funziona in maniera simbolica per sottolineare la rimozione di un popolo rispetto alle atrocità commesse dal suo leader. Un’accusa, quella di far finta di non sapere dell’olocausto in corso, che il tenente delle SS rivolge anche a Rosa in uno dei loro incontri clandestini.
Sì, esatto. Ed è un po’ quello che ci chiediamo anche noi, perché alla fine tutti facciamo finta di non vedere o non vogliamo sapere. La scena con il tenente Ziegler è molto bella perché la domanda che rivolge a Rosa la colpevolizza ma soprattutto ci colpevolizza.

La guerra attraverso il film
Nella narrazione del film che è insieme realistica e simbolica succede come ne La Zona d’interesse in cui la famiglia del protagonista fa finta che dietro il muro della villa non ci sia campo di concentramento. Le assaggiatrici in qualche modo si riallaccia a questo discorso.
La zona d’interesse è un film molto diverso dal mio. Ma capisco cosa vuoi dire, anche nel mio film si vede ben poco di quello che avviene fuori dal microcosmo del racconto. Il marito di Rosa è al fronte ma non si vede mai, anche se si sente la sua voce nella scena della lettera. Rimanere nell’intimità del racconto, facendo sentire la Storia che passa sopra, o attorno alle nostre protagoniste, è stata la scelta chiave. In questo senso è stata fondamentale la musica di Mauro Pagani. Con lui ho scelto il tema base, quello che ascoltiamo su nero prima dell’inizio delle prime immagini del film. Quel brano aveva il compito di portare un peso specifico al racconto, un peso drammaturgico, di far sentire la violenza che aleggia e che governa la storia. Ha un tono marziale, una specie di marcia che accompagna la vicenda, non è una musica che commenta le emozioni dei personaggi. Io descrivo una storia intima mentre la musica si allarga sul mondo facendoci sentire la pesantezza di quel momento storico.
Il film riproduce una postura antropologica tipica della guerra ovvero il misto di attrazione e repulsione nei confronti del potere. Da una parte c’è la percezione del Fuhrer come entità metafisica onnipotente, dall’altra la volontà di umanizzarlo rendendolo più simpatico attraverso la conoscenza delle sue abitudini più intime come possono esserlo i suoi gusti culinari di cui le assaggiatrici chiedono al suo cuoco personale.
Il cuoco è una delle figure più vicine al Fuhrer quindi viene utilizzato dalle assaggiatrici più fedeli al nazismo per avere informazioni su di lui. Bisogna anche considerare che un poco alla volta anche per loro quello strano “lavoro” diventa un’abitudine così come a noi succede di adattarci a quanto accade nel mondo o nelle nostre vite. Peraltro per il cuoco quello delle assaggiatrici diventa una sorta di pubblico di fronte al quale esibirsi: ha un piccolo potere e non manca di approfittarne.
Rosa ne Le assaggiatrici di Silvio Soldini
All’inizio Rosa è un corpo estraneo. Non per niente nella parte iniziale scegli soluzioni formali – sfocature, campi stretti – che la isolano dal resto del contesto. Quando invece l’abitudine prende il sopravvento sul disagio la mdp si apre integrando la ragazza al paesaggio circostante.
I primi passi sono pieni di sorpresa, poi subito dopo di spavento e di paura per cui la mdp osserva questa prima fase in un certo modo. Successivamente le cose cambiano perché Rosa si adatta un po’ di più alla situazione adattandosi a quella realtà. Da qui la diversità delle inquadrature rispetto alla parte iniziale.

Una delle sequenze che mi ha più colpito è quella in cui Rosa riceve notizie del marito attraverso la lettera recapitata dalla Stato Maggiore Tedesco. Il momento della consegna è ripreso dall’alto con una lunga inquadratura in cui per la prima volta mostri lo spazio intorno a Rosa come a voler sottolineare la sua solitudine.
In quella ripresa c’è di sicuro quella componente, ma credo ci sia anche altro. Va detto che nel mio cinema le decisioni che prendo rispondono molto anche all’istinto. In quel momento sentivo che era utile la ripresa dall’alto per vedere quell’attimo nella sua totalità. Poi sono d’accordo con te, è una ripresa abbastanza lunga in cui è la prima e l’unica volta che guardiamo dall’alto, in totale, lo spazio attorno a lei. Una delle ragioni per cui l’ho girata così è per vederla sul bianco della neve. Senza la neve avrei forse fatto altro. Questo per dirti di come nascono molte delle mie decisioni.
La scena si conclude in maniera poetica e insieme drammatica con il dettaglio della lettera aperta e abbandonata a terra. Mostrare la solitudine e il distacco attraverso la burocrazia di quel comunicato colpisce e fa ancora più male.
Sono d’accordo con te. Quella scena ho cercato di ridurla all’essenziale raccontandola col il minimo delle inquadrature possibili, lasciando che a parlare fossero le immagini nella loro drammatica poesia. All’inizio sentiamo Herta gridare il nome del figlio, poi il suono si allontana e subentra la musica, che copre tutto, per raccontare lo stato d’animo di Rosa.

Le riprese
Le sequenze relative ai pasti delle assaggiatrici sono il risultato del montaggio di piani fissi. Rinunciare alla continuità del movimento creato dalla mdp secondo me risponde alla necessità di togliere a quel momento qualsiasi armonia. Nonostante le apparenze quei pasti rimangono un’imposizione da te sottolineata dalla rigidità dello schema di riprese.
I primi due pasti sono come dici tu. È stato importantissimo il periodo di prove fatte con le attrici per capire nel profondo i loro personaggi, migliorare dove serviva i dialoghi, provare le scene cercando di trovare i movimenti e il ritmo giusto. Questo ha fatto sì che arrivassero sul set sapendo chi erano, chi stavano interpretando. La prima ripresa, quando loro entrano per la prima volta nella stanza con la tavola imbandita, è stata girata con due macchine dall’inizio alla fine. Poi abbiamo spostato le camere e abbiamo ripetuto le riprese mantenendo lo stesso principio. Le attrici partivano dall’entrata nella stanza e arrivavano fino a fine scena scoprendo ogni volta qualcosa in più sul loro personaggio e questa è stata una cosa molto bella della lavorazione.
Come direttore della fotografia hai avuto modo di lavorare con il grandissimo Renato Berta che ha avvolto le riprese in un contrasto di luci fredde e calde.
Con lui abbiamo consultato molte immagini dell’epoca nazista finché lui un giorno mi ha fatto vedere alcune fotografie fatte con la famosa pellicola tedesca, la Agfa, che evidenziava soprattutto i colori blu e magenta. Mi è parsa una bella idea, da quel momento abbiamo pensato di fare qualcosa che tendesse a quell’atmosfera. Renato ha lavorato su una fotografia desaturata, dal colore pastello, collaborando molto con gli altri reparti, scenografia e costumi e trucco. Diciamo che siamo riusciti a lavorare bene insieme come si dovrebbe sempre fare.

Le interpretazioni
Elisa Schlott riesce a restituire con forte verosimiglianza il misto di emozioni che attraversano l’esperienza di Rosa. Per me è stata un’autentica scoperta. Me ne puoi parlare?
Con Elisa siamo partiti dalla lettura del romanzo per individuare bene il personaggio, tenendo conto che quando si ha a disposizione un libro si parte avvantaggiati perché esistono già molte più informazioni di quelle che ci sono in sceneggiatura. Come sempre mi succede, ho spinto sia lei che le altre ad andare oltre la sceneggiatura cercando di portale a cogliere anche ciò che i personaggi non dicono, perché nella vita succede così, spesso le cose si nascondono. Elisa mi ha colpito fin dal primo provino. È un’attrice che in un attimo riesce a far vivere anche una piccola emozione attraverso occhi e volto. Sia con lei che con Alma Hasun che interpreta Elfriede ci siamo molto interrogati. Lavorare con loro e con le altre attrici è stato fantastico e soprattutto fondamentale, perché alla fine è stato sempre più chiaro che il cuore del film era nei rapporti tra queste donne.
In un film coniugato al femminile il ruolo maschile era molto delicato anche per quanto riguarda il tempo dell’attrazione-repulsione verso il potere. Nel ruolo di Ziegler Max Riemelt è stato molto bravo a incarnare questo sentimento.
Sono d’accordo. Peraltro è un personaggio maschile molto bello perché pieno di contraddizioni. Nonostante tutto, anche lui è un ingranaggio della dittatura, del potere, della violenza. È chiaro che ha fatto delle scelte e che ha delle colpe, questo anche perché violenza e guerra ti portano a diventare in questo modo, a obbedire. Bisogna sempre ricordarsi che alla fine siamo tutti esseri umani, anche i mostri lo sono.
Qui per un’altra conversazione col regista