Se oltre al western esistesse, come genere filmico, il northern, Godlanddi Hlynur Pálmason ne sarebbe la perfetta incarnazione cinematografica. Presentato nel 2022 al Festival di Torino, dove il regista islandese già aveva vinto con A White, White Day, e prima ancora al Festival di Cannes (Un Certain Regard), il lungo è intriso degli umori nel nord. E di malumori, pure.
Tra ghiaccio e neve, ma anche in mezzo al fuoco dei vulcani, scorrono i torrenti, ma non è sempre scorrevole la comunicazione tra i protagonisti: padre Lucas (Elliott Crosset Hove), in viaggio dalla Danimarca per costruire una chiesa in un remoto villaggio islandese; Ragnar (Ingvar Eggert Sigurðsson), guida esperta ma spigolosa; Carl (Jacob Lohmann), cittadino benestante della piccola parrocchia, alquanto geloso delle figlie. Il vento che soffia è tagliente, come alcuni scambi di battute. In questa terra di Dio, dove ci si può anche indiavolare, il prete luterano fotografa persone, mentre la macchina da presa fotografa, nel formato quadrangolare 1,33:1 ad angoli arrotondati, un paesaggio bello e inesorabile.
Nel quadro storico che fa da sfondo – con l’Islanda ancora dipendente dalla monarchia danese – affiorano interrogativi su Dio, sulla morte, sulla natura, sul rapporto con gli altri. Ne abbiamo parlato col regista Hlynur Pálmason in un’intervista ricca di rivelazioni, ma anche di enigmi.
Il trailer di Godland
Il film è distribuito da Movies Inspired nelle sale italiane dal 5 gennaio 2023 col titolo Godland – Nella terra di Dio.
La Danimarca e l’Islanda ad essa sottomessa nell’Ottocento: rapporti di forza, terre ghiacciate, conflitti di comunicazione in paesaggi mozzafiato. Sembra quasi incredibile che questo contesto così affascinante, che in Godland è protagonista, non fosse stato mai davvero esplorato dal punto di vista cinematografico. Quale pensi che sia il potenziale drammatico di questa ambientazione e in che modo l’hai messo a frutto nel tuo film?
La premessa è che sono vissuto e ho studiato in Danimarca per un po’ di tempo. Lì ho incontrato mia moglie e insieme ci siamo rimasti per 10-12 anni. Quando sei lontano da casa – nel mio caso l’Islanda – sviluppi un desiderio verso di essa; pensi alle tue radici, ti chiedi da dove vieni. Da un lato, ho maturato questo desiderio di tornare a casa, anche cinematograficamente; dall’altro, ho inteso esplorare le relazioni tra i due paesi in cui ho vissuto e che penso di essere arrivato a conoscere così bene.
Ne ho considerato le vicende storiche, osservando come una parte della storia islandese sia legata a quella della Danimarca, dalla cui corona siamo stati dipendenti fino al 1914-18. Nel 1944, poi, siamo divenuti pienamente liberi. Per contrasto, ho provato a capire cosa significasse essere subordinati alla Danimarca in precedenza, ma soprattutto, che tipo di comunicazione ci fosse tra la gente. Ho voluto prendere in considerazione i problemi di comunicazione, che in parte ancora oggi esperisco quando torno in Danimarca. È quello che succede sempre quando cerchi di trovare la tua voce comunicando in un’altra lingua.
Da come racconti la genesi di Godland, si arriva a capire come il motore drammatico del film consista, se mi consenti, nella “doppia anima” del film, danese e islandese, rappresentata peraltro nei titoli in entrambe le lingue; e come, poi, questa dualità diventi quasi un gioco degli opposti.
È così. È partito tutto col mio tentativo di prendere questi due paesi e queste due culture, quasi agli antipodi, e di metterle insieme per vedere cosa succedesse. Eppure – e questo è un punto essenziale – ci tengo a sottolineare che non l’ho fatto solo dal punto di vista storico, ma anche in modo più intuitivo, accostandone le bandiere, o giustapponendo personaggi diversi: Lucas, prete “civilizzato”, e la guida Ragnar, uomo della natura. Il dramma è negli opposti, in effetti, più che nella trama.
Si può dire, allora, che Godland sia ancora un’altra dimostrazione del fatto che le trame sono sopravvalutate al cinema? In che modo hai lavorato, cambiando ritmi e forme della narrazione, tra la prima e la seconda parte del film?
Sono d’accordo. Mi stimola molto il rapporto tra narrazione e forma. Ogni film ha nel suo nucleo essenziale questo tipo di rapporto. Il modo in cui esse interagiscono deve poter creare un’esperienza. Non mi hanno mai attratto le trame, né ho mai pensato di averne bisogno. Ho bisogno di un’esperienza, e il cinema è fare un’esperienza. È come restare bloccato in un mondo altro.
Provo a pensare all’esperienza di uno spettatore che guardi Godland. Più che appigliarsi a un filo narrativo, lo spettatore avverte una specie di campo di forze: la natura, certi abissi della psiche, il tempo, il vento.
La realizzazione del film è un processo che mi tocca dal profondo. Ogni volta che giro un film, avverto come un’energia dentro, e mio compito da cineasta è anche quello di rifletterla, di convogliarla nel film stesso. Credo che anche questa sia una delle ragioni per cui cerco di fare film per lo più nel mio stesso ambiente – laddove, cioè, percepisco questa energia. Non ne vengono fuori film su larga scala. Oserei dire che il risultato è quello di film “domestici”, basati sui miei dintorni, con la mia famiglia e con gente che conosco; amici, cose che conosco bene. È questa energia che colorisce il film.
C’è almeno una coppia di personaggi che incarna il dramma degli opposti di cui parlavi: Lucas, il prete, e Ragnar, la guida. Sarebbe ovvio chiederti della relazione tra i due, ma mi interessa soprattutto chiederti del tuo rapporto con Lucas. C’è da immaginare, infatti, che anche il regista viva la propria evoluzione in parallelo al protagonista; e che questo sia tanto più vero per un film così “identitario”, per te, come Godland. Come descriveresti questa evoluzione parallela? Mentre il personaggio di Lucas si evolve, come ti sei sentito cambiato, tu stesso, come artista e come persona?
Quando scrivo qualcosa o sviluppo un progetto creativo, ho bisogno di connettermi intensamente ai personaggi. Non solo al protagonista, ma anche agli altri. In qualche modo, sento me stesso in tutti loro, in percentuali diverse. Per esempio, il 20% di Ida (nel film, la figlia di Carl; nella realtà, la figlia del regista, n.d.R.), il 30% di Ragnar, il 50% di Lucas. Anche io attraverso le loro esperienze. Ricordo distintamente l’energia che sentivo con la mia squadra mentre giravamo il film. Eravamo a nostra volta in viaggio. Usavamo i cavalli. Eravamo stanchi, esausti, sia fisicamente, sia mentalmente. Così, anche l’esperienza del protagonista diventa più viva.
Comunque, è con Lucas che sento di connettermi di più, perché è un sognatore e romantico, come me. Anche io mi lascio trasportare facilmente dall’immaginazione o da un’idea fino al punto da diventarne ossessionato. In qualche modo, come Lucas, mi rinchiudo dentro una certa idea di realtà.
Mi chiedevo se anche lo spettatore vivesse una connessione del genere con padre Lucas. Si avverte il carattere idealista del personaggio, ma a volte le sue umane imperfezioni, certi tratti spigolosi o imperscrutabili sono quasi respingenti. Un personaggio del genere può essere magnetico, ma non per forza riesce positivo.
Ho sentito dire da molti che Lucas è un antieroe e che non è esattamente una persona buona. Sono d’accordo sul fatto che sia un antieroe, ma non su quello che non sia una buona persona. Ha un lato oscuro come ognuno di noi. Tendiamo spesso a pensare a noi stessi come eroi o come buone persone, ma ignoriamo che anche buone persone fanno cose cattive.
Il protagonista del tuo lungometraggio precedente, Ingimundur di A White, White Day, diceva a un certo punto: “A volte posso diventare un mostro”. Nell’intervista che ti feci all’epoca, allorché ne parlammo, mi rispondesti dicendo che “ognuno ha il suo lato oscuro”. Quali sono i lati oscuri di Lucas e Ragnar?
Molto presto Lucas prende una decisione. Il suo proposito è quello di viaggiare attraverso l’Islanda anziché arrivarvi via mare. È un sognatore. È la missione di un folle. Ma è un romantico, che vuole viaggiare e fotografare le persone. È ignorante, nel senso che ignora, ossia non sa minimamente di cosa sta parlando: l’isola è pressoché vuota, non incontrerà la gente che s’illude di trovare. Nessuno vive in quelle terre. Anche in questo mi connetto con lui. A volte girare un film è come imbarcarsi in una folle missione. Per molti dei progetti che abbiamo curato, per esempio, abbiamo filmato a lungo molto prima di avere i soldi. Mi connetto fortemente con questo tipo di naïveté, perché queste idee romantiche mi consentono di creare una relazione con Lucas.
Godland, dettaglio di padre Lucas che predispone una foto. Il processo è quello del collodio umido
Ma anche allo spettatore è data questa possibilità, perché Lucas viene mostrato praticamente “nudo”. In altre parole, abbiamo cercato di togliergli ogni strato superficiale per mostrarlo così com’è, e penso che ci siamo riusciti. Il risultato è quello di offrire il protagonista, più che nel suo lato oscuro, nel pieno della propria vulnerabilità. Quanto a Ragnar, non saprei dirti. I miei personaggi sono spesso degli enigmi per me.
Lato oscuro dei personaggi, quindi, non è soltanto la parte buia della loro umanità, quella che li rende più meschini, bestiali, cattivi; ma è anche l’oscurità che hanno rispetto al regista, ossia il fatto che tu stesso, che ne sei il creatore, non ne conosci alcuni aspetti. Questo mi porta a chiederti in che modo tu abbia lavorato con il cast.
Esatto. Questa opacità dei personaggi nasce dal tipo di collaborazione che instauro con i miei attori: non assegno loro una backstory, né spiego il perché di certe battute della sceneggiatura. Un mio tipico modo di procedere consiste nel girare il film in ordine cronologico con gli attori e gli altri collaboratori per poi cercare di capire insieme chi siano i personaggi. Mi piace quando un personaggio cresce, o meglio, quando un attore cresce all’interno di un personaggio. È quanto abbiamo fatto con Godland. L’attore che ha interpretato Ragnar (Ingvar Eggert Sigurðsson, n.d.R.) ha cercato di capire chi fosse veramente il suo personaggio, ma io non l’ho aiutato attraverso le parole. Non sono bravo in questo. Come regista sono molto pratico; ciò che faccio, principalmente, è dire con onestà se una cosa funzioni o meno.
Anche se non sono dei mostri, può darsi che i protagonisti di Godland a volte si sentano tali. O forse dovrei dire: che si sentano peccatori. C’è una scena di confessione religiosa, contrita e ossessiva, in cui Ragnar afferma testualmente: “Sono pieno di merda” (“I am full of shit”). Lucas, dal canto suo, arriverà a sporcarsi la faccia di fango, cadendo in una pozzanghera, in una scena che hai voluto enfatizzare con una ripresa frontale, silenziosa, insistita. Ti hanno interrogato più volte sull’importanza della religione nel tuo film, ma io vorrei provocarti chiedendoti se la religione sia lo sfondo, anziché il tema portante del film. Dio, in fondo, è solo un nome che alcuni danno alla propria coscienza e alla propria moralità.
Ottima domanda e tu l’hai spiegato benissimo. Ricordo la frase di uno scrittore islandese che parlando di un suo personaggio dice: “eccoti, completamente solo e senza aiuto, abbandonato da ognuno tranne Dio… E Dio non esiste”. La questione mi interessa molto. Nella seconda metà dell’800, la Chiesa era un apparato di potere in cui circolava molto denaro. In Godland, rispetto alla prima scrittura, ho cercato di togliere molta religione dal film. Lo stesso Lucas, che è un prete, non ne parla, e predica solo alla fine del film. Perché ho fatto questo? C’è una precisa ragione drammatica. Quando si trattengono certi sentimenti o pensieri, essi finiscono per diventare più potenti.
Godland, padre Lucas inquadrato frontalmente con la faccia sporca di fango
Trattenere qualcosa per poi rilasciarlo con maggiore intensità: succede anche dal punto di vista stilistico? Faccio un esempio: a proposito di quel primo piano sconcertante di Lucas con la faccia sporca di fango, funziona di più, suppongo, se previamente non ci sia stato un “abuso” di primi piani.
Proprio così. Se stai esplorando la psiche di un personaggio e non gli fai primi piani, quando poi gliene fai uno, è chiaro che diventa molto più rivelatore. Ripeto, questo vale in generale: quanto più i miei personaggi sfuggono da qualcosa, tanto più quella cosa tende a diventare preziosa. Quando arriva un close up, è per forza di cose che appare vicino come non mai all’animo del personaggio. Così, per completare la risposta alla tua domanda, posso dire che la religione è importante nel film, ma era importante soprattutto che non ne abusassimo e che la facessimo affiorare, piuttosto, solo quando fosse davvero opportuno.
Anche la religione è tritata nel tuo gioco degli opposti? In che modo?
In Godland la religione è volutamente messa contro qualche altra cosa: la natura. Può sembrare naif, ma è così che sono io, vale a dire, mi piace giocare con le cose, sulla base di opposti elementari. Qual è il contrario di Dio, della natura, della religione? Mi piace quando un film si nutre di una specie di tensione, di una frizione perenne.
Dio e natura si fondono però nel titolo, Godland: terra di Dio. So che si tratta di una citazione di una poesia di Matthías Jochumsson, autore islandese che studiò in Danimarca per poi ritornare con la propria famiglia in Islanda.
Sì, ma qui c’è un retroscena che conferma quello che ti dicevo a proposito del gioco dei contrari. Il film s’intitola Godland, ma all’inizio erano in ballo altre due opzioni: il titolo originale doveva essere tipo Wretched Country(Paese miserabile, n.d.R.), o Deformed Country. Avevo in mente questi tre titoli diversissimi tra loro, ma ho scelto Godland proprio perché implicava questo riferimento religioso. Anche questo è tipico del mio modo di fare, nel senso che per me una cosa non è mai bianco o nero: rifletto sempre su un modo alternativo di definirla. In ogni cosa, per me, ci sono sfumature di senso.
Nell’intervista che mi rilasciasti nel 2020 dopo l’uscita di A White, White Day, mi dicesti che poco prima della lavorazione del film eri stato impegnato a una serie fotografica che si chiamava A White Day, centrata sul paesaggio, sugli animali e sugli umani colti nella tempesta. Anche in Godland il paesaggio è decisivo, e ci sono, tra l’altro, scene di “paesaggio nudo”, montate come fossero serie fotografiche. È un’idea presente sin dall’inizio, come in A White, White Day, oppure si è sviluppata durante le riprese e il montaggio?
Il paesaggio, per me, è qualcosa come l’amore: lo sai che ti manca quando non ce l’hai. Mentre vivevo in Danimarca avevo un desiderio folle dei paesaggi islandesi, ma ora che sono in Islanda ho il desiderio folle di rincontrare i miei amici in Danimarca. Le culture sono completamente diverse, così come lo sono paesaggi. Quello danese è completamente piatto, non ha la ricchezza di quello islandese. Godland racconta di questo neonato paese dove tutto scorre sotto e si muove. Non ho voluto ritrarre il paesaggio in formato cartolina. Si tratta piuttosto di un paesaggio vicino, che corrisponde a ciò che mi circonda. È dove sono stato ieri e dove posso andare domani. Non è un paesaggio privato, ma è personale. Non è straniero, è da dove vengo.
Godland è un film intriso di spiritualità e tensione, ma anche molto fisico. La natura emerge, tra l’altro, in una sorta di lato animalesco che sembri attribuire ai tuoi personaggi. Penso a una scena in cui Carl controlla i denti della figlia come farebbe un veterinario con un cavallo, e le dice: “cara bambina, sei un animale”. Oppure a un dialogo sull’orlo dello scontro fisico tra Ragnar e Lucas, in cui il primo dice: “Non diventerò violento. Non sono un animale. Tu sei un animale?”. O ancora, a quando alla fiera di paese, gli uomini lottano tra di loro, e Anna (Benedetta Degli Innocenti) commenta: “Assomigliano al nostro gallo”. Tutti questi riferimenti al mondo animale non possono essere casuali.
Giusta osservazione ancora, ma ti assicuro che non lo faccio coscientemente. La cosa divertente è che mentre sto sviluppando e scrivendo qualcosa, mi perdo nel processo. Quando mi perdo, mi sembra di rivivere in altri posti. È come se riuscissi a connettermi con una parte ancestrale del mio cervello. Per fare un esempio, è come quando c’è un incendio e una persona avverte il senso di pericolo perché evidentemente si connette a una parte del proprio cervello che conserva ricordi di antiche esperienze vissute migliaia di anni fa dagli esseri umani.
Godland, padre Lucas lotta per gioco con Carl alla fiera del paese
Vale lo stesso nella creazione artistica. Oggi c’è così tanto rumore ovunque, che è solo quando torni indietro nel tempo che puoi esplorare meglio questa parte antica del tuo cervello. E mi piace farlo. Io stesso sto cercando di capire di cosa si tratti perché i miei film mi restano in parte misteriosi. Spesso, sono pure intuizioni. Cerco di esplorare le cose che mi interessano ma non sempre ho una risposta: continuo a esplorare e farmi domande.
Allora mi interrogo in tempo reale insieme a te: il lato animalesco dei personaggi, così come questa connessione a una parte antica del loro essere, può spiegarsi anche con la presenza diffusa della morte nel ciclo naturale? Penso a una delle scene stilisticamente più ipnotiche del film, ossia la ripresa in diverse stagioni del cavallo morto in fase di decomposizione.
Dovremmo essere, si suppone, delle persone moderne e civilizzate, ma abbiamo desideri che restano animaleschi. Ho sempre sentito che questo lato dell’umano fosse altrettanto interessante, perché tutti ce l’hanno e nessuno può farne a meno. Ci sono cose da cui non possiamo scappare. Il film, d’altro canto, si svolge nel 1875 e all’epoca si era molto più vicini alla morte. Quando si andava a pescare, c’erano buone possibilità che non si tornasse. Cadere da cavallo a 10 metri dalla riva, significa rischiare seriamente di morire, perché spesso non si sapeva nuotare. Quanto al cavallo, era quello di mio padre: l’ho fotografato per due anni dopo la sua morte. È terribile a dirsi, ma tutto è lì per una ragione.
Un ultimo gioco degli opposti: le lingue, nella famiglia del linguaggio umano, dovrebbe essere frutto di una convenzione, quindi un aspetto della cosiddetta civiltà. Eppure, in Godland il linguaggio diventa fonte di contrasto. Ragnar, che parla solo islandese, dice del danese: “è una brutta lingua, la sento male nella gola”. Pensi che la lingua come elemento che separa, anziché mettere in comunicazione, sia propria della vicenda che racconti contrapponendo Danesi e Islandesi, oppure è un tratto universale?
È interessante che tu ne parli, perché mi chiedevo come reagissero gli spettatori di fronte a un film in cui si usano il danese e l’islandese e non fosse dunque immediato percepire il contrasto linguistico. Per esempio, come reagisce uno spettatore americano? In Godlandl’aspetto della lingua è importante perché implica una gerarchia: in Islanda impariamo il danese, ma in Danimarca non imparano l’islandese. La gerarchia è implicata anche dal fatto che parlare entrambe le lingue distingue le classi alte da quelle basse. Parlare danese rivelava spesso l’appartenenza alle classi alte. Sono rapporti che si manifestano più in generale tra Danesi e Islandesi. I primi hanno spesso guardato ai secondi con disprezzo, come se fossero animali: sporchi, puzzolenti, con case non pulite. È quello che si vede chiaramente leggendo i diari di quel tempo appartenuti a Danesi che viaggiavano in Islanda.