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Monica Vitti: un anno senza di lei

Il 2 febbraio 2022 ci lasciava una delle interpreti più significative e importanti del cinema italiano

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Monica Vitti è scomparsa il 2 febbraio 2022, un anno fa, oggi.

Ben poco potrebbe legare e accomunare Michelangelo Antonioni e l’avanspettacolo italiano degli anni Quaranta, due modi diversi di intendere lo spettacolo apparentemente inconciliabili; ma appunto solo apparentemente.

Perché ad unirli c’è Monica Vitti, nom de plume di Maria Luisa Ceciarelli (da Vittiglia, cognome materno, e il nome di un’eroina letteraria tedesca), attrice camaleontica, capace di costruire ogni personaggio interpretato partendo dalla voce e arrivando fino ai travestimenti.

Non è peregrino definirla, a maggior ragione doverosamente a un anno dalla sua scomparsa, come un personaggio coraggioso e rivoluzionario nel cinema, negli anni 60 più di quanto potrebbe esserlo oggi qualunque protagonista del #metoo. Perché si affacciò sul grande schermo con quella presenza così strana, quella tonalità roca e lontana dalla melodia, essendo nonostante ciò quello di cui si aveva bisogno -senza che nessuna lo sapesse- in un periodo in cui si affacciava un pubblico nuovo, con nuove generazioni e nuove sensibilità.

Non fu la prima attrice comica, come detto da più parti, né tantomeno la prima caratterista: ma di certo, Monica Vitti è stata la prima donna ad avere ruoli centrali e icastici nella commedia italiana senza rifarsi alla caricatura (vedi il successo di Tina Pica ed eredi), e la prima donna a contendere la scena ai colleghi maschi non per la bellezza -lei che bella lo era, certo, ma in modo romantico e letterario e mai esplosivo o ingombrante- ma con il carisma e i ruoli da vera e propria protagonista.

Iniziò dal teatro per passare poi al doppiaggio, ruolo che ricopriva quando fu scoperta da Antonioni che la volle per prestare la sua voce a Dorian Grey nel suo Il Grido.

È in questo modo che inizia uno dei sodalizi più fecondi del cinema, con lei che diventa musa ispiratrice e baricentro emotivo e narrativo di quattro capolavori: L’Avventura (1960), La Notte (1961), L’Eclisse (1962) e Deserto Rosso (1964).

Se il primo, con quella sua inquadratura finale che riprende le geometrie di Mondrian, è il punto di svolta per Antonioni con il suo passaggio dal narrativo al meditativo, verso la ricerca di nuove forme espressive, La Notte è un crocevia essenziale nelle dinamiche della cultura italiana con una struttura che è una destrutturazione del racconto, mentre L’Eclisse è la rottura definitiva tra il cinema italiano di prima e quello che sarebbe venuto subito dopo.

Il periodo che attraversava Antonioni fu in questo modo irreversibilmente, ineluttabilmente segnato dalla storia d’amore, e quindi dall’intersezione, con questa attrice straordinaria dagli occhi immensi, l’unica capace di recitare una battuta (“mi fanno male i capelli”) mentre è al centro perfetto di un film che è un crocevia del cinema mondiale.

Giuliana -il personaggio della Vitti nel film- è il culmine di un percorso iniziato con la Claudia de L’Avventura e proseguito con la Valentina ne La Notte e la Vittoria in L’Eclisse: caratteri sorprendenti e innovativi, sorta di punto di fuga rispetto ad ogni etichetta e codificazione.

Deserto Rosso è allora una svolta drammaturgica e stilistica (è il primo film a colori del regista, doveva intitolarsi inizialmente Celeste e Verde e contiene una grande sperimentazione cromatica) ma anche, grazie a Monica Vitti, una delle prime opere che portano il concetto di character-driven story verso orizzonti nuovi: la sua Giuliana non è solo il perno intorno a cui si costruisce la storia, ma costringe lo spettatore a guardare il mondo attraverso i suoi occhi, adottando il suo sguardo.

Eppure solo un anno dopo, nel 1963, la Vitti decide di cambiare. Radicalmente.

Timorosa di pietrificarsi nel personaggio difficile e complessato che aveva impersonato fino ad allora e portato ad impensabili vertici emotivi con il regista di Ferrara, compie una svolta ad U e mostra le sue doti brillanti: ecco allora Dino Risi e Luciano Salce ma soprattutto Mario Monicelli con La Ragazza Con la Pistola (1968), manifesto protofemminista che ironizza su come l’ambiente può modificare intolleranze e pregiudizi.

Un film che sfrutta in pieno la vis comica dell’attrice, rivelazione sorprendente e vera mattatrice della scena, che porta la commedia all’italiana ad avere un fondamentale punto di vista femminile.

Una svolta ironica che non deve sorprendere, perché come diceva Gerard Genetteil comico è il tragico visto di spalle”: autoironia, grottesco, satira surreale, sono le caratteristiche della Vitti più leggera.

Ma ovviamente occorre fare attenzione a non scambiare la leggerezza per superficialità: senza scomodare Kundera, è la stessa Monica che sostiene che la comicità è la risposta di sopravvivenza a una realtà insostenibile, un principio di azione-reazione in cui l’intensità dei picchi umoristici è direttamente proporzionale a quella delle cadute tragiche.

Da La Ragazza Con La Pistola, la carriera della Vitti si biforca in due filoni: da una parte la commedia all’italiana, l’altra virata su quell’avanspettacolo di sopra.

È in questo frangente che si fronteggerà alla pari con giganti come Mastroianni, Tognazzi, Gassman, Sordi, Manfredi, in film leggendari come Dramma Della Gelosia (Tutti i Particolari in Cronaca) di Ettore Scola del 1970 o L’Anatra all’Arancia (1975, Luciano Salce).

Nel secondo filone invece trovano posto film come Ninì Tirbusciò La Donna Che Inventò La Mossa (Marcello Fondato, 1970) e La Tosca (Luigi Magni, 1973).

E a proposito di tragico e comico: grande alchimia ci fu con un altro titano del cinema e della cultura italiana, quell’Alberto Sordi che la volle accanto a lui in molti suoi film da regista, da Io So Che tu Sai Che Io So del 1982 a Polvere Di Stelle del 1973 fino ad Amore Mio Aiutami del 1968.

Film che spesso si arricchivano di una importante critica sociale, dove la satira dell’Italia post boom si concentra trasversalmente dalle classi proletarie a quelle dell’alta borghesia, sottolineando la distanza tra gli ideali degli anni passati e una realtà drammaticamente più cinica.

Con una vena malinconica che riaffiora sempre più prepotente, fino a farsi centrale nella sua ultima produzione accanto al terzo uomo della sua vita (dopo Carlo Di Palma), ovvero Roberto Russo: una vera e propria cifra stilistica che infatti la condurrà nel 1990 a girare il suo unico film da regista, Scandalo Segreto, non un’autobiografia ma un ritratto particolarmente fedele della sua interiorità.

Suo ultimo film in tutto e per tutto, prima che la sua assenza diventasse quasi presenza, e prima che una malattia vissuta sempre con riservo e dignità la allontanasse per sempre dalle scene e dalla vita pubblica.

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