Uno, nessuno e centomila. Nella polifonia di personaggi interpretati da Fausto Russo Alesi niente si somiglia e tutto cambia. A dimostrarlo i suoi ultimi due lavori, La stranezza di Roberto Andò ed Esterno Notte, la serie televisiva di Marco Bellocchio in cui Alesi veste i panni di Francesco Cossiga.
Esterno Notte va in onda su RAI 1 nelle giornate di 14, 15, 17 novembre alle ore 21,25.
Fausto Russo Alesi prima di Esterno Notte
Sei andato a studiare alla scuola d’arte drammatica Paolo Grassi, trasferendoti da Palermo a Milano. Penso che per te sia stata una scelta rivoluzionaria, indice di una propensione al cambiamento che ancora oggi caratterizza il tuo lavoro d’attore.
Sicuramente credo che siamo e dobbiamo essere sempre in movimento. Se abbiamo curiosità, se abbiamo voglia di conoscere e di incontrare il nuovo siamo, per forza di cose, in movimento e almeno per me è così che deve essere. La scelta di muovere dalla Sicilia verso Milano non è stata automatica, ma per la mia storia si è rivelata assolutamente essenziale. Così doveva essere e sono felice di averlo fatto. Credo fosse ciò che mi servisse. Rispetto al mio lavoro essere in movimento e alla ricerca di un altrove mi appartiene nel profondo. Fa parte del mio modo di procedere.
A proposito di mobilità interiore, ogni film ci propone un immagine diversa di te. È come se ogni volta mettessi in moto una vera e propria rivoluzione che ti porta a essere una persona/personaggio che non avevamo ancora conosciuto.
Ti ringrazio. Io amo entrare con tutto me stesso dentro le cose che faccio, a trecentosessanta gradi. È nella mia natura e voglio che sia così. Non posso pensare a me stesso in una maniera che non contempli coinvolgimento e implicazione.
Non solo Esterno Notte per Fausto Russo Alesi
Esterno Notte di Marco Bellocchio, La stranezza di Roberto Andò e, più in generale, la tua filmografia è ricca di personaggi attraversati da una tensione interna capace di catalizzare quella che per Luigi Pirandello è la cosiddetta “drammaturgia” dello spettatore. Ne sei consapevole?
Quando lavoro provo innanzitutto ad aderire al progetto, alla sceneggiatura, alla visione del regista, quindi cerco di essere un veicolo per le tematiche di cui si parla. In questo senso, penso che non ci si possa esimere dal mettere dentro alle cose che fai anche quello che sei, il tuo punto di vista. Dal mio canto provo sempre ad agganciarmi nel profondo alle storie a cui vengo chiamato a partecipare.
Durante la festa di Roma ho avuto l’opportunità di scrivere del documentario di Jacopo Quadri, 75 Biennale Ronconi Venezia. Di quella temperie culturale tu sei un po’ figlio, essendo stato Luca Ronconi uno dei tuoi primi maestri. Prendere parte a La Stranezza, in cui si racconta la genesi dei sei personaggi in cerca d’autore, per te è come ritornare a casa, nel senso che nel film di Andò c’è lo stesso spirito di rottura, la stessa voglia di aprirsi al nuovo che sono state caratteristiche del tuo approccio teatrale.
Certamente l’idea di portare il teatro al cinema è qualche cosa che mi entusiasma. Per quanto mi riguarda quando lavoro per il cinema non riesco a lasciare il teatro a casa e lo stesso vale anche al contrario. È un aspetto che fa parte del mio percorso ed è giusto che le due arti si possano contaminare. La Stranezza è il racconto pirandelliano della genesi di un testo meraviglioso: avere la possibilità di mettere in immagini parole che hanno fatto la storia del teatro, rivoluzionando il modo di farlo, per me è una grande gioia. Il fatto che il pubblico si sia così appassionato al film è bellissimo. Ho amato moltissimo il film di Roberto Andò e rapportarmi al tormento artistico del commovente Pirandello di Toni Servillo.
La stranezza
Ne La stranezza sei parte in causa del processo creativo che portò alla scrittura di Sei personaggi in cerca d’autore e alla sua successiva rappresentazione. La disintegrazione dello spazio teatrale, la decostruzione delle strutture del teatro, la rottura della quarta parete, la frammentazione della linea narrativa presenti nel testo pirandelliano sono modalità con cui ti sei formato lavorando con Ronconi, Peter Stein e altri grandi. La stranezza è un film che ti appartiene perché, come gli altri da te interpretati, è attraversato da una voglia di sperimentare che non viene meno alla voglia di comunicare con il pubblico. Esterno Notte ne è la conferma.
Assolutamente! Io poi credo che il nostro mestiere ci dia la possibilità di arrivare al cuore e alla testa dello spettatore. Quando succede, per me, è proprio una grande gioia perché mi riconcilia con la funzione dell’arte.
Ne La stranezza l’ambientazione notturna e la presenza della nebbia sono segni della natura fantasmatica del tuo personaggio. Questo mi ricorda come tu sia stato spesso chiamato a riportare in vita persone realmente esistite. Penso a Guido Giannettini di Romanzo di una strage, a Giovanni Falcone de Il traditore come pure al Cossiga di Esterno Notte. Lo stesso ti era successo in Vincere, ancora una volta sotto la direzione da Marco Bellocchio.
Sì, anche questo è il potere meraviglioso dell’arte. In tal senso credo che farsi veicolo con tutte le energie per far vivere un’opera sia il mio modo di approcciarmi al lavoro d’attore. Che poi significa dare spazio allo spettatore e alla sua immaginazione, sapendo di come quest’ultimo sia comunque parte in causa. Oltre a fruirla, è lui a completarla mettendone insieme i vari pezzi attraverso un lavoro di cucitura personale. Ed è giusto perché solo così l’opera diventa qualcosa che appartiene anche allo spettatore, colui che contribuisce a farla vivere.
Esterno notte e La stranezza riscuotono un grande successo di pubblico riconciliando il cinema d’autore con una popolarità che non rinuncia alla profondità del discorso. Essendone stato uno dei protagonisti volevo domandarti se questa svolta dipenda da un incontro, quello tra artisti e spettatori, in cui sia l’uno che l’altro sono disposti a venirsi incontro senza arroccarsi sulle proprie posizioni.
Credo che l’arte, con dirompenza, semplicità e coinvolgimento, arriva al cuore della gente unendo le persone. In questo senso penso che il pubblico si appassiona, come dicevamo prima, laddove si sente considerato all’interno dell’opera. I grandi autori hanno il pensiero che quello che stanno facendo abbia il suo riscontro nel presente. Esterno notte, per esempio, è una serie in cui Marco Bellocchio riprende l’argomento già trattato in un film per il bisogno di approfondire ulteriori aspetti e personaggi di una vicenda che è una ferita ancora aperta per il nostro paese. L’omicidio di Aldo Moro è un dramma collettivo ed Esterno Notte è capace di interpellare lo spettatore facendolo sentire parte della storia e di un intenso e appassionato processo creativo. E poi tutto il cast è davvero potentissimo.
La capacità di nascondersi di Fausto Russo Alesi oltre Esterno Notte
Hai esordito nel cinema con Silvio Soldini che ti ha diretto in Pane e Tulipani. Nel film sei il ragazzo che dà il passaggio per Venezia a Licia Miglietta. Nella scena in questione hai capelli ossigenati e occhiali scuri e il più delle volte sei inquadrato di profilo. In quella performance ti nascondi dietro il personaggio in una maniera poi diventata una costante delle tue interpretazioni.
Sì, mi piace far emergere il personaggio scomparendo al suo interno. Questo non vuol dire rinunciare a ciò che sono. Il mio bagaglio, quello in cui credo e che mi può piacere o farmi arrabbiare, spero trasudi ogni volta dalle maglie dei miei alter ego. Pane e Tulipani era il mio primo film e lo ricordo con affetto: mi ero appena diplomato alla Paolo Grassi quando Soldini mi chiese di lavorare con lui.
Tornando alla tua domanda dico che sì, il modo di pormi probabilmente è stato quello di cui parlavi. Poi è vero che mi confronto con le personalità che ho davanti lasciandomi anche contaminare e guidare dalle grandi visioni che ho il privilegio di incontrare.
Mi sembra che, nella costruzione del personaggio, una costante sia questa immobilità della faccia a cui fa da contraltare il movimento del corpo e degli occhi. Questa fissità dello sguardo secondo me contribuisce a far dimenticare la tua persona lasciando la scena al personaggio.
Questo probabilmente è il risultato, ma io, come dicevi tu prima, ho come obiettivo quello di stare veramente dentro al personaggio, dentro al progetto. Vorrei sempre che ognuno di essi, piccoli o grandi che siano, avessero una ragione profonda di esserci. Credo che quando un personaggio entra in scena ha una ragione, un obiettivo, una sua traiettoria da compiere. Se così non fosse si potrebbe fare a meno di metterlo. Quindi cerco sempre di capire perché un personaggio c’è, a cosa serve, perché deve esserci, cosa può dire e raccontare. Questo per restituirlo al meglio all’interno di un progetto.
Sparire dentro al personaggio
Da un’interpretazione all’altra a muoversi è il corpo, con i capelli che crescono o si diradano a seconda dei casi. Così accade per la corporatura, prima robusta o tonica e poi magari in sovrappeso, a seconda che si tratti di impersonare Falcone, Cossiga o Starace. Il tuo corpo racconta molto dei tuoi caratteri.
Assolutamente, hai detto una cosa che mi caratterizza moltissimo. Credo che la mia chiave d’accesso istintiva sia il corpo: è il suo intuito a guidarmi dentro le cose. È lo strumento d’accesso, poi ovviamente il bagaglio deve essere arricchito dallo studio, dal sapere, deve essere riempito dagli ingredienti giusti, compresi però anche quelli spiazzanti. I momenti imprevedibili dipendono molto dall’incontro con registi e attori. Con Bellocchio, per esempio, c’è una comunicazione sotterranea capace di far emergere ciò che lavora sotto quando meno te lo aspetti. Si tratta di momenti impagabili, dietro i quali c’è il lavoro di costruzione necessario a non ripercorrere sempre la stessa strada. All’interno di questo processo rimango in attesa di quei momenti imprevedibili, del mistero che si rivela. Probabilmente tale costruzione serve anche ad arrivare al momento in cui puoi abitate il vuoto senza nessuna rete di salvataggio. È uno stato che ricerco sempre. Non mi accontento fino a quando non l’ho trovato.
Il fatto di sparire dentro i personaggi è un tratto essenziale del tuo processo creativo. Tanto più quando si tratta di incarnare personalità realmente esistite. Come spettatore la sensazione è quella di risentire lo spirito che aveva caratterizzato le loro vite.
Quando parliamo di personaggi pubblici il rischio è di fermarsi al ruolo sociale, alla carica istituzionale. Dietro di quella però c’è sempre un essere umano con le sue debolezze, le sue inettitudini, i suoi lati comici e tragici. Le sue ombre, i suoi talenti. È lì che mi piace stare, provando a riconoscere cosa c’è in me dentro di loro. Se non li giudichiamo a priori questi personaggi possono farci da specchio.
Lo sguardo
Un altro aspetto delle tue recitazione è la capacità di comunicare attraverso lo sguardo. I primi piani su di te sono sempre rivelatori di un occhio indagatore che mette lo spettatore nella condizione di non poter mentire rispetto al suo rapporto con la storia che si racconta. Dallo schermo è come se tu scrutassi all’interno delle nostre anime dandoci modo di entrare nella tua. Ne In memoria di me il protagonista ti conosce senza aver bisogno di rivolgerti la parola perché a parlare del suo disagio sono proprio gli occhi del personaggio. In questo senso potesti essere un attore da cinema muto.
Credo che negli occhi ci sia molto di quello che viaggia nella mente per cui credo che, attraverso questi, debba passare il più possibile della nostra umanità: soprattutto nel cinema.
Penso che il lavoro interiore sia fondamentale. Arrivando dal teatro non ne posso fare a meno: penso sia essenziale. Sul palco lo devi restituire in altro modo mentre il cinema ti dà la possibilità di entrare nell’intimo scandagliandolo in maniera minuziosa.
Fausto Russo Alesi in Esterno Notte
Esterno notte si apre con questa scena surreale in cui ritroviamo Aldo Moro appena liberato dalla prigionia riverso su un letto d’ospedale, con attorno amici e colleghi di partito. Bellocchio dà l’imprinting a tutto ciò che viene dopo perché se penso alle vostre silhouette ridotte a puro segno all’interno di un corridoio che sembra quasi una camera mortuaria, non posso non pensare all’inizio di una lunga seduta spiritica.
Sì, drammaturgicamente la sceneggiatura di Esterno Notte è veramente incredibile. C’è un disegno straordinario e questo è un qualcosa su cui un attore si può e si deve appoggiare, sostenuto com’è da fondamenta così solide. Quell’inizio ti concede l’enorme libertà di potere uscire anche dal reale per abitare l’immaginario.
Esterno notte è una ricostruzione della Storia fatta dall’interno.
È una ricostruzione dall’esterno per quanto riguarda i punti di vista sulla vicenda di Aldo Moro. È una ricostruzione dall’interno per quanto riguarda la resa dei personaggi. Di Cossiga, per esempio, abbiamo la possibilità di vedere soprattutto il privato: i suoi sono momenti assolutamente interiori e intimi. Entriamo nella sua psiche attraverso un viaggio denso di sollecitazioni e in cui ho provato anche a cercare le zone d’ombra, qualcosa che prende vita al di là della storia e delle testimonianze. È una reazione umana vissuta in quel preciso momento, dentro le maglie della tragedia. Quei cinquantacinque giorni credo siano stati giorni terribili.
Dall’esterno all’interno
In questo caso si procede dall’esterno, dai dati noti, per poi immergersi nel buio dell’anima. È come percorrere una strada dove non c’è niente di certo.
Sì, intanto partiamo dal presupposto che, come diceva Sciascia, ne L’affaire Moro, siamo di fronte a un mare sconfinato, a una mappa difficile da decifrare. Muoversi e orientarsi dentro questa notte è molto difficile per tutti. Senz’altro quello che dicevi tu lo penso anch’io, ovvero del navigare nell’incertezza assoluta. Questo fa Cossiga, lui vive in pieno quei cinquantacinque giorni, con una crisi di coscienza profondissima: diviso tra la ragione umana, in quanto amico e allievo di Moro, e la ragione di Stato, essendo lui ministro degli interni, chiamato a dare una risposta agli altri, alla società, al partito, a se stesso. Cossiga deve dibattersi in questi vari mondi, con la concretezza della soluzione che si oppone al non sapere, al non potere, al non avere la capacità di farlo. Sicuramente questa politica della fermezza è un dolore che lui vive e si porterà dietro. Quello di cui si occupa la sceneggiatura è proprio quei cinquantacinque giorni nei quali possiamo immaginare un Cossiga del prima e un Cossiga del dopo. È come se dentro quelle giornate ci fossero tutte le possibilità dell’essere umano, tra cui quella di cambiare il destino già scritto.
Capita spesso nelle tue interpretazioni, capita anche in Esterno notte, che la crisi e il dramma del personaggio rasenti la follia. Un tema molto bellocchiano qui riassunto dalle immagini in cui vediamo Cossiga quasi sempre da solo, rinchiuso in stanze claustrofobiche, oppure immerso nell’ascolto delle registrazioni, con apparecchi e strumentazioni a sovrastarne la figura. In quelle immagini il suo senso di colpa raggiunge vette surreali.
È esattamente come dici tu, sono momenti che Bellocchio racconta con incredibile potenza. Attimi in cui il reale irrompe dentro il non reale. La follia che ne deriva è un tema bellocchiano che viaggia lungo l’intera vicenda. Io la ritrovo in molti luoghi e in molti personaggi della serie. Certamente ci sono in Cossiga le caratteristiche biografiche, ma poi c’è il racconto drammaturgico del personaggio che attraversa come un funambolo il filo che separa reale e immaginato. Un aspetto tipico dell’arte che si mantiene in bilico tra verità e finzione, garantendo uno spazio di libertà necessaria.
La storia reale
In una delle prime scene Aldo Moro all’università vuole parlare di un fatto privato, ma i brigatisti presenti nell’aula glielo impediscono. Mi sembra che nel racconto di Esterno notte i personaggi, e quindi anche il tuo, si confrontino con la disumanità di quei giorni. Volevo chiederti se nella costruzione del personaggio hai esplorato questa dimensione della storia.
Senz’altro, credo sia un elemento centrale dell’intera vicenda. Questa disumanità è un pericolo in cui incorre l’essere umano. In questo senso, penso sia indispensabile ricordare il passato e tenerlo ben presente perché a disumanizzarsi basta un attimo.
Fausto Russo Alesi e Marco Bellocchio
Sei uno degli attori prediletti da Marco Bellocchio, uno di quelli con cui il maestro ha più lavorato. Rispetto al teatro, nel cinema la performance degli interpreti è mediata dall’intervento di più linguaggi messi insieme. Questo vale ancora di più in un film di Bellocchio che delle immagini è uno degli inventori più visionari. Com’è lavorare con lui?
Straordinario. È un momento meraviglioso perché, oltre a essere seguito da mani forti, c’è un ascolto, un amore verso gli attori, una fiducia che ti mette nelle condizioni di scoprire dall’interno il personaggio e le sue relazioni. Parliamo di un atto estremamente creativo in cui si ha la sensazione che dietro le cose ci sia sempre qualcos’altro, che dietro un’immagine ci sia veramente tanto altro. A me questo piace moltissimo. Costruire un personaggio significa anche far trasudare il nascosto: a volte ci si riesce, a volte meno, però questo è l’intento. Io mi sento veramente fortunato ad avere la possibilità di essere nei suoi film e di incontrare ogni volta da vicino la sua immensa maestria d’artista.
Prima mi dicevi dell’importanza della sceneggiatura, mentre ora abbiamo detto del potere di trasfigurazione offerto dalle immagini di Bellocchio. Volevo chiederti come si incontrano questi due elementi e quanto pesa la sceneggiatura nel rapporto con le immagini dei suoi film?
Per me tantissimo, un po’ perché arrivo dal teatro e dalla prosa, un po’ per via della mia formazione e dunque dall’abitudine di lavorare sul testo. Marco Bellocchio è senz’altro un regista che nelle sceneggiature dà molto spazio alla parola, che per me è un grande veicolo di comunicazione anche al cinema, sebbene quest’ultimo privilegi le immagini. Mi piace pensarle entrambe essenziali nel fornire un supporto fondamentale. Apprezzo molto quando ho la possibilità, attraverso un film, di ascoltare delle parole che posso portarmi a casa. Penso a quelle di Moro quando dice: “che cosa c’è di folle nel non voler morire”. Sono qualcosa che non dimenticherò mai più, parole che si sono impresse con forza dentro di me. Grazie anche allo strepitoso Fabrizio Gifuni.
Parlando con Leonardo Di Costanzo a proposito della recitazione di Toni Servillo in Ariaferma mi diceva di averlo scelto anche perché aveva bisogno di una recitazione che si facesse sentire per rendere la dimensione antinaturalistica della narrazione. Penso sia lo stessa motivo per cui Bellocchio predilige attori di formazione teatrale.
Bellocchio è un regista che frequenta i teatri, va a vedere gli spettacoli – ai miei non è mai mancato -, riconoscendo il valore di un bagaglio che arriva anche dal teatro. Se hai attraversato i diversi linguaggi dei grandi autori, se hai abitato Shakespeare per esempio, non può non essere un valore aggiunto alla tua interpretazione.
Fausto Russo Alesi oltre Esterno Notte
Ne Il cattivo poeta di Gianluca Jodice in cui sei il gerarca fascista Achille Storace dai vita a una delle tue interpretazioni più belle, sicuramente una delle più significative dell’ultimo cinema italiano. Con poche battute e soprattutto attraverso uno sguardo che esprime al meglio quel misto tra esaltazione e decadenza che precede il trapasso del regime.
Sicuramente il film racconta questo e quindi bisognava cercare di restituirlo. In maniera molto concreta, ti posso raccontare la sequenza finale girata al Vittoriale e che fu realizzata nel corso di una giornata freddissima e come spesso accade tra le prime. Siamo rimasti fermi lì per molto, moltissimo tempo, irrigiditi da quel freddo, ed è stato lì che ho pensato che quel freddo fisiologico avrei potuto raccontarlo come un freddo dell’anima. È su questo che ho cercato di lavorare per rendere il più possibile il clima feroce che richiedeva quella scena.
Il cinema o gli attori che ispirano le tue interpretazioni.
Tanti nomi da fare… italiani e stranieri, del passato e contemporanei… ma non li dirò…mi piace custodirli, tenerli per me. Storie che mi sorprendono, immagini che si scolpiscono nella memoria, attori e attrici che mi emozionano, che mi turbano, che mi commuovono e che mi fanno ridere regalandomi una parte profonda di loro e facendomi fare un viaggio molto lungo che passa dalle stelle e che finisce sul mio cuscino prima di addormentarmi. Quindi lasciatemi dare almeno la buonanotte a Peter Sellers che così dormo sereno.