” “Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”: questo è il caustico distico col quale Carmelo Bene siglò il prologo alla raccolta delle sue opere edita per la collana dei classici di una nota casa editrice.”
“Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento”: questo è il caustico distico col quale Carmelo Bene siglò il prologo alla raccolta delle sue opere, edita per la collana dei classici di una nota casa editrice. E come dargli torto; certo, impalmarsi da sé, piuttosto che attendere l’investitura ufficiale delle istituzioni addette alla valutazione scientifica del genio, potrebbe apparire politicamente scorretto, ma come disse Leopardi: “Chi vuole innalzarsi, quantunque per virtù vera, dia bando alla modestia”.
Così il funambolo del dis-dire, l’acrobata della “differenza” tra atto e azione, il profeta del mis-fatto, l’ostinato detrattore del “dover essere” etico e estetico, il martire della presenza-assenza, e in ultimo – per non debordare nell’assegnazione di titoli non richiesti – il feroce iconoclasta, infischiandosene del rituale della proclamazione di Stato, si consegnò autonomamente all’immortalità dei classici molto tempo prima del trapasso, vomitando il proprio disprezzo su una platea di “morti”, cui augurava di essere restituita al più presto all’inorganico.
Prima di procedere all’analisi del film in questione è necessario, per onestà filologica, ricordare che Bene nel suo personalissimo itinerario maturò una manifesta avversione alla cinematografia – più volte definita “la pattumiera di tutte le arti” – in quanto teso a evadere da una visione dell’espressione legata ancora alla rappresentazione, al simbolismo e a una certa funzionalità consolatoria e decorativa. Animato costantemente da una robusta ebbrezza dionisiaca, il maestro non cessò mai di predicare l’auto-superamento dell’arte, individuando nell’abbandono – inteso come eccesso, come l’al di là del desiderio – la disgregazione del concetto di soggetto (e sua conseguente trasfigurazione in rapporto oggetto-oggetto), oltre che l’unica possibilità di salvezza: così “i cretini che vedono la Madonna sono essi stessi la Madonna che vedono”.
Alla luce di queste premesse, è chiaro che Nostra Signora Dei Turchi s’installa in una fase preparatoria e sovversiva che gesticola furiosamente contro i codici e le convenzioni. L’esigenza di frantumare l’immagine-corpo e di sfregiare in faccia il senso, così come la Storia – per sottrarsi alla dittatura del tempo Cronos e guadagnare l’anarchia del tempo Aion (dell’immediato) – fa di questa pellicola il tentativo impossibile di incendiare l’ignifugo velo apollineo dell’immagine in movimento. La visibilità del singolo fotogramma, irrimediabilmente orfana della differenza, della presenza-assenza, non permette di perseguire il liberatorio intento di accecare l’immagine. Insomma l’immediato, giacché immediato svanire, è sistematicamente tradito dall’invadenza del visibile che, pur sciogliendosi in afasia, musica e canto, non si de-realizza a sufficienza per obliare la volgarità dell’azione-intenzione.
Chi vedesse Nostra Signora Dei Turchi per la prima volta sarebbe inevitabilmente irritato dal terroristico cortocircuitare del senso che rende il film una suite di episodi gratuita; gratuità di una demenza che santifica l’artefice prodottosi nell’opera, trasformandolo nel capolavoro stesso. E’ come se, in questa primo periodo della sua disubbidienza, Bene si fosse affannosamente adoperato a dis-dire il Detto per poi balzare di colpo – una volta scampata la trappola dell’espressione – su un Dire che, contemporaneamente dis-dire, schiva agevolmente il calco onnivoro del Detto medesimo. “Non lasciar traccia alcuna”: questo è il motto dell’Osceno Beniano che, insorgendo contro la vanità, la cialtroneria e la maschera puttanesca dell’arte, si deterritorializza in un fuori-scena irrecuperabile, nel farsi l’alone del fumo che aleggia sulla sublime evanescenza dell’enigmaticità del misfatto.
Risulta allora evidente che l’irruzione dell’enfant terrible nella settima arte non potesse conciliarsi con i limiti invalicabili del mezzo tecnico. Nostra Signora dei Turchi conduce il cinema fino alle sue estreme possibilità, producendo una contorsione acrobatica della pellicola e mancando per un soffio quella definitiva combustione che avrebbe tolto per sempre alle “masse di perdizione” l’opportunità di fruirne, evitando così che l’impurità del Logos – sempre insufficiente tra l’altro – oltraggiasse la santità di un’idiozia dis-appresa nei millenni.
Luca Biscontini
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