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Approfondimenti

Carmelo Bene: l’eccesso è adesso

L'avventura cinematografica di Carmelo Bene fu unica, estrema. Un corpo a corpo estenuante con il dispositivo tecnico, un tentativo titanico di far sprofondare il visibile nell'invisibile, sfidando l'invalicabile materialità della pellicola

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«L’idea di cinema contiene senza dubbio un cinema di idee, mentre non è vero il contrario». Questa dichiarazione di Carmelo Bene, risalente al 1968, anno d’uscita del suo primo film, Nostra Signora Dei Turchi, permette di installarsi, al di là di tutte le considerazioni successive, all’interno di quella straordinaria avventura, purtroppo per noi prematuramente interrottasi, che fu l’irruzione dell’enfant terrible nella settima arte. Il funambolo del ‘dis-dire’, l’acrobata della ‘differenza tra atto e azione’, infischiandosene dell’imperante militanza politica dell’epoca, volle cimentarsi in un corpo a corpo (è proprio il caso di dire) con il dispositivo cinematografico, contestandolo senza sosta: è questa peculiarità che ha reso l’opera di Carmelo bene unica, collocandola al di fuori di qualsivoglia orizzonte avanguardistico, giacché  animata non dalla volontà di riformare, trasformandolo, il linguaggio cinematografico, bensì dall’esigenza di trasfigurarlo, rovesciandolo. E in questa operazione a farla da padrone è il corpo: un corpo liturgico che si dissolve in un’irriverente cerimonia di decostruzione dell’Io; un soggetto che, cogliendosi nell’atto di agire (guardandosi allo specchio), dà automaticamente vita a un doppio parodico, la cui principale funzione è quella di ridicolizzare incessantemente il concetto d’identità. «Non si tratta più di inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia [….], di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso o glorioso, per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile»: così Gilles Deleuze ne L’immagine tempo (1985) introduce il cinema di Bene, definendo poco dopo ‘l’autore’ salentino «uno dei massimi costruttori d’immagini-cristallo».

Dalla sfilata barocca dei corpi, dei doppi e dalla sovrapposizione delle voci che bisbigliano, urlano, stridono, emerge il silenzio di “un terzo” (il corpo-oggetto invisibile), “il protagonista”, o “il maestro di cerimonia”. Si raggiunge – seguendo ancora l’analisi di Deleuze – un punto di non-volere che definisce “il patetico”, e il risultato è la sparizione del corpo visibile, provocata dall’afasia e aprassia di un orante svuotato della propria soggettività. «Non sono più i personaggi ad avere una voce, sono le voci e i modi vocali del protagonista a diventare i soli veri personaggi della cerimonia» (Deleuze, op. cit.). È come se Bene, trasgredendo la legge kantiana della conoscenza, volesse “mettere le mani sul noumeno” (la cosa in sé), rischiando, come il filosofo afferma nella Critica della ragion pura, di divenire un pupazzo inanimato. La tanto osannata iconoclastia beniana dà forma a un surplus d’immagine che, rovesciandosi, si riduce fino a lasciare intravedere l’invisibile. Ma è l’immagine di un altro mondo, e non ‘altro dall’immagine’. Sebbene C. B. abbia in seguito continuamente vilipeso il cinema, definendolo “la pattumiera di tutte le arti”, si può pensare, invece, che la sua non sia stata una disfatta, una resa incondizionata all’irrimediabile visibilità dei fotogrammi o all’invalicabilità dei limiti del mezzo tecnico, ma una prodigiosa prova in cui, miracolosamente, il proliferare dell’immagine costituisce la procedura attraverso cui lasciare aperto un varco per la manifestazione dell’essere, per tutto ciò che, normalmente, non può essere contenuto all’interno della restrizione della forma. ‘L’abbandono’, tanto spesso predicato dal maestro, è una pratica che non autorizza a relegare il suo cinema in una posizione “mistica”, in cui il linguaggio proclamerebbe il proprio scacco rispetto a ciò che lo eccede, ma costituisce una procedura di verità che, come direbbe il filosofo e drammaturgo Alan Badiou (allievo di Deleuze, ma anche infaticabile critico del suo vitalismo ontologico), permette di collocarsi in una zona d’indiscernibilità, dove non è più possibile distinguere l’essere dal suo apparire.

Carmelo Bene s’intrattiene tenacemente presso le falde dell’ordine simbolico, lasciando pulsare l’invisibile, o ciò che si situa al di là del visibile. Il fatto è che C. B., completamento avulso dal quotidiano, dal mondano, dal sociale e dalla politica, ha sempre negato che la verità così tenacemente perseguita potesse, un giorno, assumere una forma: «“La verita è una puttana” diceva Nietzsche, io non sono una puttana e la verità non so dirla; so dire soltanto idiozie, io sono [la] traviata». Quest’affermazione, estratta da uno dei tanti cortocircuiti televisivi innescati dal suo contro-linguaggio, dal suo spirito anti-civile, rivela come, quantunque fosse schierato contro il potere e il suo esercizio, Bene non abbia mai preso in considerazione l’ipotesi di dare adito a un movimento che non fosse solo di sottrazione rispetto al comando. Insomma, per quanto di fatto l’abbia frequentato, non ha mai creduto potesse esistere un luogo dove fedeltà e conoscenza s’incontrano, una zona (forse quella di Stalker, 1979) in cui, seppur informe in quanto infinita, la verità possa trovare alloggio, per poi incarnarsi, grazie all’impegno di coloro che l’hanno perseguita, in un futuro anteriore che consenta di affermare, già da subito, che “sarà stata”. Rimettendosi all’ineffabilità “dell’esser detto”, e innescando, attraverso la parodia del doppio e il cerimoniale del corpo grottesco, “la sospensione del tragico”, Bene ci ha reso sicuramente un gran servigio, dimostrando come tutta l’arte (ad eccezione di rari casi) sia borghese, rappresentazione di stato, decorativa e consolatoria, ma, contemporaneamente, si è arroccato su una posizione difensiva, non concedendo alcunché alla possibilità di un’altra arte. Un’arte che non riproduca i rapporti di produzione esistenti, che non sia lo spettacolo del potere, come denuncia tutta l’opera di Guy Debord (Hurlements en faveur de Sade, 1952, Sur le passage de quelques personnes à travers une assez courte unité de temps, 1959, Critique de la séparation, 1961, e La Société du spectacle, 1973), ma si ricalibri su nuovi parametri, intraprendendo itinerari inediti.

carmelo bene

Nostra Signora Dei Turchi (1968)

«Basta col produrre capolavori, bisogna essere capolavori»: questo motto beniano non può che apparire condivisibile, purché slegato dalla logica individuale (borghese) del genio, e connesso con la molteplicità di una “moltitudine” che, attraverso l’eccedenza della propria operosità, si sottrae all’eccezione del comando capitalistico, facendo proprio ciò che precedentemente era riservato ai pochi. Parafrasando Bene, potremmo affermare:«O siamo tutti capolavori, o non lo è nessuno», ammesso che il termine “capolavoro” abbia ancora significato. Piuttosto sembrerebbe più appropriato immaginare una fase “altermoderna”, contrapposta alla iattura del postmoderno, in cui, spacciata una volta per tutte la funesta litania dell’artista, del genio e quant’altro, ciascuno, a diversi livelli, contribuisca alla realizzazione dell’opera “comune”, o alla comune realizzazione della moltitudine in quanto opera. Se il potere nella prassi democratica si costituisce sulla pratica della delega, si tratta di rimpossessarsi di ciò che ci spetta, grazie a una vera emancipazione che responsabilizzi gli individui, coscienti, oramai, dell’insufficienza e dell’inutilità dei parlamenti borghesi.

Questa apparente parentesi è in realtà necessaria per contestualizzare l’opera di C. B. in una fase storica, l’attuale, in cui lo sviluppo vertiginoso dei mezzi di comunicazione, e quindi di espressione, impone un drastico ripensamento di quella soggettività contro cui la “macchina attoriale” si è furiosamente scagliata. Antonio Negri e Michael Hardt (Impero, Moltitudine, Comune), rielaborano il concetto di soggetto – collegandolo saldamente a quello di “moltitudine”, contenitore aperto, e quindi non a rischio di derive totalitarie – liberandolo finalmente dall’eterno conflitto con il potere.

carmelo bene

Don Giovanni (1970)

Ma, tornando allo specifico cinematografico, non possiamo non celebrare la straordinarietà dell’opus beniano, a partire, come sopra si era accennato, dall’immagine-cristallo. Il concetto di “cristallo”, coniato da Deleuze, partendo dalla dimensione temporale elaborata da Henry Bergson, «consiste nell’unità indivisibile tra un’immagine attuale e la sua immagine virtuale: c’è un presente attuale che cangia e trascorre divenendo passato, quando, non più presente, è sostituito da un nuovo presente; il presente è l’immagine attuale, e il proprio passato contemporaneo è l’immagine virtuale, l’immagine allo specchio. Non è un’immagine organica, e il tempo consiste in questa scissione, è esso stesso che si vede nel cristallo. Nel cristallo si assiste all’eterna fondazione del tempo, alla sua scissione originaria in tempo cronologico e non» (C. B.).

Gli specchi, disseminati in tutto il cinema di Bene, restituiscono sempre un raddoppiamento d’immagine che, oltre ad allestire il gioco del doppio parodico, rimandano, principalmente, alla dimensione cristallizzata del tempo; il corpo ‘depensato’, situato al di qua e al di là della macchina da presa, giacché l’ha trapiantata su di sé (come il Buster Keaton di The cameraman, 1928), è costretto in una gabbia di vetro, torturato e vilipeso, squartato da un’ironia impietosa. Eppure tra gli interstizi del montaggio “relativo” (giustapposizione di fotogrammi che rimanda al semplice fuori campo dell’inquadratura) affiora l’immagine di un altro mondo, una prospettiva rovesciata, un grado “quasi zero” di percezione, per cui assistiamo al ‘volo di un angelo senza ali’, come se dalla crisalide di un cadavere animato o rianimato si liberasse una farfalla che vaga tra le fioche luci disseminate sul tappeto nero della notte del mondo. Ma bisogna essere cretini per volare, perché «chi vola non si sa» (C. B.); l’Angelus Novus di Paul Klee, l’angelo della Storia benjaminiano, è irresistibilmente risucchiato dalla tempesta del progresso che spira dal paradiso, gli s’impiglia nelle ali e lo spinge inesorabilmente verso il futuro, nonostante mantenga lo sguardo rivolto al passato, giacché vorrebbe «trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto». L’unica maniera per sottrarsi a questo vortice è liberarsi da ciò che intralcia: ecco, Bene è un angelo senza le ali, che ha dovuto tagliarsi le caviglie, imbrigliate alle catene, pur di spiccare il volo.

La sfida estetica, filosofica e politica che questa critica vuole lanciare è che si possa volare senza le ali, e non per questo ricadere a terra. Evitare la drammatica oscillazione tra entusiasmo e depressione: volare, magari a un palmo da terra, ma volare. E, soprattutto, che ognuno di noi possa e debba farlo. Ora, in virtù di tali considerazioni, si tratta di approcciare il fenomeno Bene provando a smarcare la vulgata dell’iconoclastia, concentrandosi sulla specificità dell’aspetto cinematografico, ed evitando, quindi, la tipica interpretazione pluridisciplinare che rischia di sedimentarsi in un gergo funambolico e sterile.

Questo compito, quanto mai ambizioso, impone di tralasciare l’elemento critico dell’opera beniana, cioè di non prendere rigidamente alla lettera quanto C. B. ha detto di sé e del proprio lavoro. Guardando Nostra Signora Dei Turchi, oltre a subire la dolce ipnosi veicolata dal flusso orale della voce fuori campo di Bene, ci si imbatte in immagini folgoranti, come quando vediamo il protagonista inoltrarsi in una grotta dove s’intrattiene con l’altare della Vergine, in una sequenza ammantata di un silenzio che, a scapito di quanto potrebbe di primo acchito sembrare, non è interno alla ‘logica’ del sogno, ma costituisce ‘l’avvento’ di un altro mondo. È come se Bene convocasse il vuoto circolante all’interno della situazione, desaturando gli spazi prima abusivamente occupati dalla rappresentazione, fornendo, in tal modo, alloggio a ciò che eccede l’immagine; ma, ed è decisivo sottolinearlo, questo eccesso può essere accolto solo nella misura in cui è già da subito ritradotto in immagini; altrimenti si rischia quel che C.B. denuncia diffusamente, cioè di cedere «davanti al flusso di cose che non hanno corpo, o del corpo l’eccedenza […]». Accantonato il residuo di trascendentalismo, e passando per il piano d’immanenza deleuziano, si approda, infine, alla “rottura immanente” proposta da Badiou, che, giustamente, denuncia la funzionalità del segno (il rimandare a qualcos’altro) ancora operativa all’interno del vitalismo ontologico del suo maestro. Ma il passaggio conclusivo, che taglia definitivamente i legami dialettici, destituendoli nell’immanenza tout court, è quello proposto da Negri con la topologia del nastro di Moebius, per cui si supera la logica elitaria della ‘rarità’ del soggetto badouiano.  In quest’ottica, l’immagine di un altro mondo non è altro dall’immagine, ma costituisce ‘il rovescio’ estetico di quella di ‘questo mondo’, e risulta quindi fruibile da chiunque sia disposto a ‘resistere’ alla costrizione del visibile «sub specie spectaculi» (C. B.).

Un Amleto di meno (1973)

Nel cinema di Bene quest’immagine guadagnata con tanto sforzo si attualizza nel «corpo della donna, come meccanica superiore, sia che danzi tra i suoi vecchi (Capricci, 1969), sia che passi attraverso atteggiamenti stilizzati di un segreto volere, sia che si irrigidisca in postura d’estasi (Nostra Signora Dei Turchi)» (Deleuze, op. cit.). Il femminile nella cinematografia beniana (ma non solo) assume un ruolo determinante, colto però nella sua dimensione di grazia, non ancora “adulterato”. Siamo spettatori di una sfilata di sante e madonne (Nostra Signora Dei Turchi), oppure, come nel caso del Don Giovanni (1971), tratto da Il più bell’amore di Don Giovanni (novella di Le diaboliche di Jules-Amédée Barbery d’Aurevilly), del miracolo della donna ‘mancante’, la bambina, “provvidenza incosciente dell’onnipotenza”, opera d’arte reale e viva. «Bambina è l’età degli angeli che giocano tra loro» (C.B.): questa mancanza, rievocata sotto le sembianze di ciò che non è ancora, costituisce il massimo di pienezza. L’angelo è evidentemente un tratto saliente dell’estetica cinematografica beniana, è la dimensione androgina dell’artista che, scampato l’equivoco dell’eros, accede a una zona situata al di là del desiderio: un universo kafkiano dove l’incoscienza – l’incapacità di osservare o trasgredire la legge (Il processo) – è proprio ciò che configura lo stato di idiozia del santo, come Giuseppe Desa da Copertino, che «se avesse ricevuto in dono una mela, per metà avvelenata e per metà no, l’avrebbe lasciata scivolare tra le mani di burro». Ma non è il canto che l’angelo intona per lodare Dio a incarnare l’opera, piuttosto è l’angelo medesimo («Che se ne fa delle armonie degli angeli, quando ha trovato gli angeli in persona?» [Il mondo come volontà e rappresentazione di Arthur Schopenhauer]). Come per il Pasolini di Teorema (1968) e il Tarkovskij di Solaris (1974), per non parlare di una cospicua fetta dell’opera di Wenders, anche nel cinema di Bene ‘l’angelo senza le ali’ costituisce un elemento iconografico decisivo, e alcune immagini possiedono un grado di autonomia tale da far pensare di non esser state prodotte da mani umane, come se provenissero da un altro mondo.


Carmelo Bene con crudeltà infinita ‘incidenta’ il corpo, attraverso il guasto della parola e la sincope del gesto, guadagnando il fuori scena, «l’o-sceno», ma provocando, sul versante della fruizione, un effetto comico, come in Nostra Signora dei Turchi, dove le continue cadute dalla finestra di uno dei tanti doppi rivelano un accanimento estenuante contro il soggetto, inducendo il riso per l’inesorabile implacabilità; o come nell’ultima sequenza di Salomè (1972), dove, dopo essersi prodotta nella “danza dei sette veli”, la figlia di Erodiade si scaglia contro il patrigno, Erode Antipa, spellandolo vivo, strappandogli di dosso il viso, mentre il Cristo, tentando l’auto-crocefissione, e constatandone l’impossibilità, giunge a prendersi a martellate sulla testa, pur di “farsi fuori”: nella prima situazione il tragico è sospeso con la serietà del terrore, dell’auto-spavento, mentre nella seconda la crudeltà ostinata che il Cristo s’impone provoca un effetto comico. È in questo doppio fronte, quello dell’opera e della sua fruizione che si nasconde la chiave di volta per comprendere l’epifania dell’immagine “estetica”, una volta neutralizzata quella “artistica”. La nuova immagine si sovrappone alla precedente, destituendola, ma non è un’altra immagine, è la stessa che, in virtù della sparizione dell’autore e di un processo etico avvenuto sul versante della fruizione, acquisisce un’altra significanza e muta, pur mantenendo le stesse fattezze. Si guadagna una dimensione estetica dell’immagine, per cui ciò che prima era l’inevitabile prodotto di una rappresentazione, attraverso il ‘trattamento’ beniano, cambia statuto e diviene autonomo, nella misura in cui annuncia  un mondo extra umano. L’angelo della storia, prima succubo del vento del progresso, una volta recise le ali, può finalmente volare, sottraendosi al vortice.

Carmelo Bene diviene, potremmo dire, macchina attoriale-spettatoriale, congedandosi dall’umanità, svanendo nel farsi macchina, e rimettendo all’etica dello spettatore la possibilità di assistere a un miracolo. La questione decisiva, infatti, come già accennato, concerne l’atteggiamento del fruitore che, per evitare la degradazione dell’immagine così faticosamente ottenuta, dovrà assumere un contegno, un pudore, installandosi in un silenzio (senza alcuna valenza religiosa o mistica) che gli consenta di partecipare all’evento miracoloso (ciò che eccede l’ordinario), senza per altro poterne successivamente riferire. Il miracolo o si dà una volta per tutte, o ogni volta – attraverso il singolo giudizio riflettente (universalizzante) di ciascun individuo della comunità – purché non si prostituisca, divenendo l’ennesimo intrattenimento ordito a uso e consumo dello spettacolo delle ‘masse di perdizione’. È chiaro che ciò verso cui mira questa critica consiste nel tentativo di tracciare un futuro anteriore in cui tutti possano, a differenti altezze, volare, in cui il miracolo accada ogni volta; Bene, svanendo, abdicando al ruolo d’autore-attore, s’incorpora alla moltitudine degli spettatori: il triangolo autore-opera-fruitore è definitivamente spezzato nell’indiscernibilità di un insieme aperto in cui i tre elementi si mescolano, e ciò che precedentemente era congelato nei rigidi ruoli assegnati dall’eccezione del comando capitalistico si ritrova, liberato, in una gioiosa indistinzione, per cui la “città terrena” già sarà stata “il paradiso in terra”. Si scampa la definitiva  secolarizzazione della comunità intesa come realizzazione di un totalitarismo tecnologico, in quanto l’eccesso pulsa all’interno dell’ordine simbolico; al massimo grado di secolarizzazione corrisponde, in maniera direttamente proporzionale, la definitiva liberazione della grazia che, finalmente, diviene accessibile a tutti, purché si ‘resista’ al “fascino discreto” dell’immagine spettacolare. E non si precipita in una posizione mistica, «che tende ad abbandonare la rappresentazione per diventare vita comunitaria e ascetica» (Deleuze, da Un manifesto di menoBene – DeleuzeSovrapposizioni, 1979), in quanto l’immediata traduzione dell’eccesso nell’immanenza configura un’ontologia liberata definitivamente dal ‘segno’. Diviene possibile, quindi, prodursi in interpretazioni, senza scivolare in prospettive psicanalitiche, marxiste, o brechtiane.

 

Ma torniamo al cinema (che non abbiamo mai perso di vista): un altro carattere saliente è sicuramente riscontrabile nel montaggio che, implacabile, frammenta forsennatamente gran parte dell’opera di Bene. In Salomè e in Don Giovanni le oltre quattromila inquadrature lavorano contro la dimensione cronologica del tempo, oltre a predisporre la sincope del gesto che, continuamente interrotto, si rivela essere costantemente a vuoto. «Una serie infinita di fotogrammi, alla pari del “fermo” fotogramma singolo, mi coinvolge nella ripetizione-differenza senza concetto (non è lo stesso a ritornare, è il divenire che è uguale allo stesso che ritorna)»: così C. B. riferisce il proprio atteggiamento rispetto al dispositivo cinematografico, delucidando la funzione che il montaggio assume nei suoi film. Lo spezzettamento feroce dell’azione innesca il falso movimento della ripetizione-differenza senza concetto, perché ciò verso cui tende l’operazione cinematografica beniana consiste nell’immortalare l’atto che, sottratto alla logica della dimensione edipica del tempo, invece di costituire il risultato della volontà, ne è la premessa. Probabilmente per interpretare correttamente questo passaggio, apparentemente funambolico, bisogna comprendere l’indiscernibilità tra atto e azione: Bene è costretto a metter fuori scena, riducendoli, l’azione, il corpo, il soggetto e quant’altro, ma il suo non è un gesto meramente negativo, piuttosto è la procedura necessaria a diminuire l’eccesiva visibilità dell’immagine “artistica”, quella della rappresentazione, per svelarne il rovescio, l’immagine “estetica”. L’ingenuità da evitare consiste nel credere che la riuscita di questa operazione, promossa dall’autore, coincida con il suo compimento, mentre, in realtà, “l’altra immagine” convive, come virtualità-attualizzata (come rovescio), con quella contestata, ma, ed è questo l’essenziale, spetta al fruitore il compito di vederla, grazie a un’ironia “impietosa”, cioè assumendo un atteggiamento di assoluta rigorosità in fase di visione. L’interazione sul versante della fruizione si rivela decisiva per portare a termine la gestazione dell’imago nova. È come se Bene ci ammonisse furiosamente a distogliere lo sguardo dall’immagine artistica (come in Salomè: «Non bisogna guardarla, tu la guardi troppo») e ci invitasse, al tempo stesso,  a osservarci allo specchio, che riflette la maschera, ma anche “l’ombelico” del doppio, e dunque il rovescio. “Il terzo” di cui parla Deleuze è un alludere ad ‘altro’ che rivela ancora un residuo dialettico e di segno, mentre Bene in scena è solo, seppur ‘in compagnia’ del doppio virtuale attualizzato. Anche dal punto di visto tecnico C. B. tenta in tutti i modi, attraverso il montaggio, di “far fuori l’azione”, come in Nostra Signora dei Turchi, in cui le defenestrazioni del protagonista vengono riprese solo all’inizio e alla fine della caduta, eliminando la traiettoria, e quindi la durata.

Tornando a quanto si è detto all’inizio, è interessante notare come Bene abbia individuato in Pierrot le Fou (Il bandito delle undici, 1965) di Jean-Luc Godard un espressione del concetto di “idea di cinema”, per poi, di contro, relegare il regista francese nel “cinema di idee”, dopo la realizzazione di Week-end (1967). In Nostra Signora Dei Turchi non mancano riferimenti a À bout de soufflé (1960): in una delle scene iniziali, Bene fa il verso a Jean-Paul Belmondo, interpretando un gangster a caccia del proprio doppio, il quale, dopo esser stato accoppato, si agita in terra, replicando, in forma di parodia, la sequenza finale del celebre film. In Capricci, invece, mutua, con una buona dose di impertinenza, l’iconografia di Week-end: ci troviamo in un ‘cimitero di automobili”, dove il nostro, in compagnia di Anne Wiazemsky (ex-moglie di Godard), simula, divertito, molteplici incidenti, per poi cercare, una volta catapultato in terra, la postura impossibile per morire.

L’avventura cinematografia di Carmelo Bene si conclude con Un Amleto di meno (1973), dove «il corpo è svanito del tutto» (C. B. ), e i riferimenti letterari sono, oltre a Shakespeare, Amleto, o le conseguenze della pietà filiale, racconto estratto da Moralità leggendarie di Jules LaforgueIl lamento dello sposo del medesimo autore e, infine, La signorina Felicita ovvero la Felicità di Guido Gozzano. Assai divertente risulta la distorsione del personaggio di Polonio che riferisce, sussurrando, L’interpretazione dei sogni di Freud, nella parte che attiene alle relazioni tra l’Amleto e l’Edipo re di Sofocle. Amleto artista, destinato all’inazione, si diletta col teatro e, invece di vendicare l’assassinio del padre, si trastulla con Kate e uccide Polonio, oltre a causare la morte di Ofelia. La sublimazione che Amleto mette in atto comporta uno spostamento del desiderio, e re Claudio, assassino e fratello del padre, unitosi in matrimonio con la madre del rampollo, ricompensa la mancata vendetta, rimpinguando le finanze del giovane teatrante. Probabilmente, il cinema di Bene era già finito con Salomètant’è che l’Amleto televisivo supera esteticamente il film, e dal 1974 in poi C. B. riprende una massiccia attività teatrale, oltre a produrre un’enorme quantità di opere video e radiofoniche.

Per concludere questa disanima sul cinema di Carmelo Bene, in cui si è tentato di elaborare un’interpretazione che rovesciasse quanto, normalmente, è stato su di esso affermato o scritto, illuminante davvero appare questa dichiarazione del maestro:«Di fronte a un volto paesaggio (o paesaggio d’un volto) filmato, a me spettatore non è concesso nessun potere d’intervento (a meno che, in un secondo tempo, nella mia cameretta, non mi disponga a stilare una esegesi mnemonica, contraffacendo in tal caso la contraffazione di che prima sono stato spettatore)» (da Vita di Carmelo BeneCarmelo Bene-Giancarlo Dotto, 1998). Ciò che il più delle volte è stato trascurato negli approcci critici che si sono succeduti è il “versante della fruizione”: Bene afferma di disprezzare l’immagine artistica in generale, cioè quell’immagine che difetta dell’atto, dell’immediato, che è riproduzione incessante dell’azione e, ancor di più, l’immagine in movimento, in cui la rappresentazione – a suo dire – è “elevata al quadrato”, giacché la mobilità interdice allo spettatore una fruizione che si dilati in-definitivamente nel tempo. Se ammette rare eccezioni (Bacon, Joyce, Bernini, Velasquez) nelle altri arti, sembra precludere invece al cinema qualsivoglia possibilità di immortalare l’atto, cioè di produrre un’immagine “estetica”, come rovesciamento e superamento di quella “artistica”.

Ebbene, ciò che qui si è più volte affermato è che si possa dare anche nell’immagine in movimento, e soprattutto nel cinema di Bene, quel superamento tanto anelato. In alcune sequenze di Nostra Signora Dei Turchi e di Salomè (“il monologo dei cretini”, “la danza dei sette veli”, “la spellatura del volto di Erode Antipa”, e in tante altre in cui il brontolio dell’immagine-voce prepara, attraverso l’intervento dello spettatore, l’epifania) assistiamo al miracolo. Ma, per l’appunto, si tratta di assistere. L’interazione del fruitore diviene decisiva nel “perfezionare”, attraverso un giudizio riflettente (universalizzante), la “nuova immagine” che, per completare il movimento di rovesciamento, necessita di un certo atteggiamento: si tratta di smarcare l’effetto comico provocato dalla crudeltà esercitata dall’autore-attore, adottando un’ironia impietosa che, a scapito di quanto possa sembrare, corrisponde al massimo grado di eticità perseguibile. È nel rigore del silenzio che la comunità, nella persona di ciascun individuo che la compone, esercita un ruolo risolutivo non nella valutazione, ma nella determinazione (produzione) del valore dell’opera, in questo caso cinematografica.

E, per avvalorare, estendendola a tutta la settima arte, la teoria fin qui abbozzata, risulta assai prezioso l’esempio fornito dal prodigioso film di Krzysztof KieślowskiTrois Couleurs: Rouge (1994), in cui, nelle sequenze finali, viene inequivocabilmente mostrata la neutralizzazione dell’immagine “spettacolare-artistica” (il cartellone pubblicitario che ritrae il volto della protagonista viene smantellato) e l’epifania di quella “etica-estetica” (la mdp riprende l’immagine della protagonista trasmessa alla televisione, dopo lo scampato naufragio): l’immagine guadagnata, attraverso una trasfigurazione, non è diversa dalla precedente (il profilo della protagonista è lo stesso, così come il rosso che fa da sfondo), ma la nuova contestualizzazione etica, ottenuta grazie alla serietà (e non santità), al giudizio, e all’adesione (fedeltà) dello spettatore ai valori-manifesto della celebre trilogia (libertà, uguaglianza, fraternità), ne muta il valore e la provenienza: è un’immagine fatta “non da mani d’uomo”, ma da tutta la comunità che, fruendone, ha compartecipato in maniera decisiva alla sua gestazione. Per suggellare quanto, seppur sinteticamente e approssimativamente, si è cercato fin qui di affermare, di grande soccorso risultano le parole di Enrico Ghezzicome Rosellini, Carmelo Bene accetta di fingere che il cinema finisca e si interrompa [….]», ma «Come il mondo è tondo e come un bambino sul pallone troppo grande e unto bisunto consunto scivola cade e grida, il cinema ruota, gira, cade, non è riflesso di nulla (si può se mai sospettare il contrario), merita di essere chiamato nel modo slittato in cui lo nominano alcuni bambini: cì-mena» (da la Fortuna Critica, in Opere di Carmelo Bene, 1995).

L’autore ringrazia vivamente Michele Bianchi per i decisivi suggerimenti forniti durante la stesura di questo breve saggio.
Luca Biscontini

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