Conversation
Fedele a me stessa. Conversazione con Valentina Lodovini
Dall'Italian Film Festival Berlin Valentina Lodovini racconta le tappe più importanti della sua carriera cinematografica
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2 anni fail
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Carlo CerofoliniDa Carlo Mazzacurati a Pier Paolo Pasolini, la conversazione con Valentina Lodovini passa in rassegna le tappe di una carriera in cui la recitazione è stato il dono capace di riempire l’intera esistenza. A patto di rimanere fedele a stessi. Dall’Italian Film Festival Berlin i pensieri e le parole dell’attrice
Valentina Lodovini: gli inizi
Nella filmografia di Carlo Mazzacurati La giusta distanza segna il ritorno ai luoghi in cui il regista aveva iniziato a raccontare le sue storie. Tra i meriti di quel film c’è anche la tua presenza che, senza nulla togliere ai tuoi lavori precedenti, si può considerare il tuo vero esordio, almeno in termini di importanza.
Per certi versi sì, anche se, e non voglio sembrare ingrata nei confronti del personaggio e di Carlo Mazzacurati, credo che il mio reale debutto sia stato ne L’amico di famiglia di Paolo Sorrentino. Da amante del cinema e da spettatrice penso che delle mie tre scene all’interno del film ce ne sia una che, secondo me, vale tantissimo perché la trovo veramente magnifica. Parlo di quella in cui a un certo punto va via la luce e io sono insieme al protagonista interpretato da Giacomo Rizzo. È una sequenza a cui sono molto legata anche per una questione di gratitudine nei confronti del mio primo film. Credo che la Mara de La giusta distanza sia una delle figure femminili più belle scritte negli ultimi anni ed è straordinario che sia stato affidato ad un’attrice sconosciuta ed emergente quale allora ero io.
Sono due ruoli segnati da una certa continuità. Nella Giusta distanza tu compari nel ruolo della protagonista o quanto meno sei il centro dei punti di vista degli altri personaggi.
Mi viene da dire delle paure degli altri nei confronti del diverso.
In una carriera ancora giovane interpretare un ruolo del genere vuol dire assumersi una responsabilità per la quale il talento da solo non è sufficiente. Per farlo occorre anche una grande personalità. Sei d’accordo?
Non lo so (ride, ndr). Da un punto di vista tecnico Mara è il motore del film, ma non so se il risultato centri con la mia personalità e con la ragazza che ero ai tempi. Indubbiamente c’era l’eccellenza di Carlo Mazzacurati e della sua troupe, e, come dico sempre, se intorno a te sono tutti da dieci e lode anche tu diventi brava. La scrittura di Mazzacurati e la sua visione contano molto, poi non so se ha a che fare anche con me.
A quel tempo (il 2007, ndr) stavi iniziando a frequentare i set. Come dicevi, venivi dal film di Paolo Sorrentino, non uno qualunque.
Sì, La Giusta Distanza era il mio terzo film. Prima c’era stato il Centro Sperimentale di Cinematografia in cui avevamo fatto delle prove in set veri e propri: uno di questi era stato Ovunque sei di Michele Placido. Da attrice professionista ho avuto l’enorme privilegio di debuttare ne L’amico di famiglia e poi di partecipare al film di Francesca Comencini (A casa nostra, ndr) e in Germania, a quello di Marc Rothemund, per poi tornare in Italia e fare La giusta distanza. Non so bene cosa dirti perché ho un po’ di difficoltà nel vedermi con distacco e questo è forse uno dei miei limiti. Non sono regista di me stessa e non ho tutta questa autostima e capacità di distacco però andando avanti nel corso della carriera, anche nel teatro, per esempio, mi sono ritrovata a fare monologhi in cui non tutti riescono a cimentarsi. Neanche attori straordinari.
La svolta
Da quel momento in poi la tua carriera si sviluppa alternando ruoli da protagonista ad altri meno centrali, ma comunque di peso.
Quando leggo le sceneggiature non mi importa molto essere o meno protagonista, non guardo il numero di battute o altro, ma mi soffermo sulla qualità del ruolo. Al privilegio di essere protagonista al mio terzo film ho avuto il piacere di far parte di progetti corali altrettanto belli e interessanti.
Voglio dire proprio questo quando parlo di carattere. Nella costruzione di una carriera certe scelte e anche rinunce comportano anche un certo carattere perché a volte verrebbe voglia di accettare proposte vantaggiose che però non ti fanno crescere come attrice.
Questo indubbiamente sì, ma io sono molto fedele a me stessa e non ho mai fatto calcoli sulla mia carriera; non ci sono mai state strategie o altro, quindi ti dico sì, probabilmente serve personalità e forse ce l’ho ma non so che dirti perché per me è tutto naturale. Non so bene la motivazione per la quale duro (ride, ndr). Ti posso dire che amo tantissimo il mio mestiere, veramente tanto, e le molle che mi ispirano sono la mia passione per le storie; recitare è uno strumento per raccontarle. Sono una persona che non ha nessun tipo di giudizio o pregiudizio. Mi butto sulle cose, rimango un’entusiasta perché il cinismo non mi ha ancora attaccato. Il cinema appartiene al sogno ed è tante cose messe insieme: è il mio rifugio, il mio insegnante di vita, il mio prima di tutto, di conseguenza le scelte hanno a che fare con questo. Magari dipendono anche dal fatto che sono una donna chiusa e solitaria, di conseguenza i miei personaggi mi permettono di farmi ascoltare e vedere. Ho una purezza a volte persino eccessiva che porto anche nel mio lavoro, con le persone che mi circondano, con i miei personaggi. Sono una persona molto attenta al pubblico perché so che un attore non esiste senza lo spettatore. Si tratta di un’attenzione ricambiata perché mi sento molto amata dalla mia platea. Funziona così anche con alcuni dei miei personaggi che ho amato e dai quali mi sento tanto amata. Non so bene come spiegarlo, ma sono cose che sento e vivo un po’ così.
Ne La giusta distanza eri al centro del punto di vista degli altri. In fondo erano questi a raccontare Mara, che poi è la stessa cosa che succede nel tuo mestiere in cui tu dipendi dallo sguardo del regista, dei tuoi colleghi, del direttore della fotografia, del pubblico.
Sì è vero, indubbiamente sì!
Dunque quello di Mara è un ruolo emblematico perché contiene in sé e, in qualche modo, mima le caratteristiche del tuo mestiere.
Non ci avevo mai pensato ma per certi versi è così.
Il ruolo dell’attrice per Valentina Lodovini
Una particolarità del film di Mazzacurati è qualcosa che si vede di rado nei film classici e cioè la morte della protagonista. Mi viene in mente Vivere e morire a LA di William Friedkin e a William Petersen che esce di scena quando meno te lo aspetti ma di esempi non ce ne sono molti. Come attrice non so quanto questo fattore incida nella preparazione del ruolo.
Lì è tutto merito di chi ha scritto la sceneggiatura, ovvero di Carlo che ha precorso i tempi nel modo di rapportarsi con la realtà, raccontando le paure nei confronti dell’universo e di ciò che è diverso da noi. L’eccellenza del Mazzacurati artista è di aver messo quelle paure al centro del racconto e di averne parlato guardando in faccia il proprio tempo.
Quel film è stato importante perché è tra quelli che hanno concorso a riscoprire il paesaggio regionale, ovvero uno spazio diverso da quello fin troppo usurato della grande metropoli. In questo senso e fin dalla prima inquadratura il tuo personaggio è come se sbarcasse in un territorio di frontiera. Prima di essa la panoramica iniziale tratteggiava uno scenario da cinema Western.
Lo so, ma è tutto merito di Mazzacurati. L’inizio del film per me è pazzesco, proprio per come è fatto, frame by frame.
In quei frame ci sei anche tu: quando scendi dall’autobus è come se quello spazio si riempisse di colpo. È una questione energetica oppure il fatto di diventare per la prima volta Mara, fatto sta che la tua apparizione è folgorante.
Devo dire che davanti alla macchina da presa e sul palco io mi sento al sicuro. Paradossalmente più lì che nella vita reale perché per esempio ci sono state certe scene in cui mi sono sentita a disagio nonostante accanto a me ci fossero persone meravigliose. Senza dubbio ho più difficoltà a stare a una cena in pizzeria che di fronte a una mdp o sul palco. È sempre stato così, dalla prima volta che mi sono messa alla prova. Non ho una spiegazione: so solo che sono nata con questo amore purissimo che non mi è stato trasmesso da nessuno e attraverso il quale ho instaurato un certo tipo di rapporto con la letteratura, con il cinema, con il teatro. È stato il mio rifugio e mi ha insegnato cose. È stato il principio di tutto, il mio primo fidanzato per il tempo trascorso insieme e per la coperta di certe emozioni. Quando ho deciso di mettermi alla prova ho scoperto di sentirmi al sicuro, come se fossi a casa mia. Tuttora è così.
Stare davanti alla macchina da presa
Ne La giusta distanza il passaggio dalla panoramica al campo ravvicinato sottolinea la dimensione esistenziale di quel luogo. Improvvisamente tutto si restringe e tu diventi il centro del mondo. A proposito di stare davanti alla mdp: tu quegli sguardi sei riuscito a sostenerli. Rivedendo il film oggi è ancora così.
Devo dire che ci sono tanti fattori: sicuramente c’è il sentirmi a mio agio di fronte alla mdp, c’è l’importanza dei costumi perché il cappotto rosso in mezzo a quei colori aiuta ad attirare lo sguardo. Ci sono tante cause perché il cinema si fa insieme e quindi ci sono io, c’è la scrittura, ci sono gli abiti, i movimenti della mdp. Da quell’insieme scaturisce un’energia diversa che può fare anche paura.
Sean Penn inizia a costruire i personaggi dal taglio dei capelli, tu parlavi dei vestiti. Sono quelli a favorire il primo contatto con il personaggio?
No, per me è il profumo. A ogni personaggio mi viene spontaneo associarne uno a cui poi segue assenza o meno di smalto. Questo è solo l’inizio, poi ci sono un sacco di altri fattori. È un lavoro che faccio in solitudine, con me stessa, per poi confrontarmi con gli altri. Ovvio che la costruzione del personaggio dipende anche da altro però il profumo è determinante. A casa ne sono piena anche di quelli che non mi piacciono perché quello che conta è la corrispondenza con il personaggio. Talvolta mi capita di risentirne uno e immediatamente mi torna in mente chi a suo tempo ne era stato caratterizzato.
La palestra de La Giusta distanza
La Giusta distanza è un film molto eterogeneo: è drammatico, ma ha anche spunti di commedia; è un film d’autore, ma anche di genere. Questo per dire che per te è stata una palestra di versatilità.
Sì, per quello ti dicevo che a mio avviso è uno dei migliori film scritti degli ultimi anni. Uno delle cose che mi piace di più del mio mestiere è l’opportunità di essere eclettici. Per me è un requisito fondamentale. Non sono una di quelle attrici determinate a imporre un’immagine di sé legata a un certo tipo di personaggio. Poi c’è il fatto che anche io sono così di natura quindi mi viene spontaneo farlo. Questo fa sì che mentre cerco il prossimo progetto è lui a venirmi incontro.
Valentina Lodovini in Benvenuti al Sud
A proposito di eclettismo, ne La giusta distanza c’era un’idea e soprattutto un’immagine della provincia italiana, nebbiosa e oscura, diversa da quella colorata e solare di Benvenuti al Sud. Nel film di Luca Miniero ti inserisci ancora una volta in una geografia decentrata, ma questa volta il clima è quello gioioso e scanzonato tipico dello strapaese italico. Invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia perché in un gruppo di commedianti di razza dimostri di essere del tutto a tuo agio.
Assolutamente sì, ma così è, il nostro paese è fatto di province che sono espressione di una diversità che ci rende ricchi. E comunque, in generale mi riconosco in quello che dici. Anche all’interno del sud ho portato ombre e luci. Pensa a Fortapasc e a Il sud è niente, film drammatici capaci di mostrare un’immagine del meridione diversa da quella a cui siamo abituati.
Di Carlo Mazzacurati sono stato un appassionato della prima ora. Non posso non chiederti di regalarci un’immagine dell’esperienza che hai vissuto lavorando con lui.
Di Carlo ricordo l’estrema intelligenza, qualità che lo ha portato a essere aperto verso di noi chiedendoci ogni volta la nostra opinione sui risultati del nostro lavoro. Dall’alto della sua fama avrebbe potuto farne a meno e nessuno avrebbe avuto da ridire, invece lui no. In questa maniera mi sono ritrovata coinvolta nella realizzazione del film sentendomi in qualche modo responsabile. Da lì capisci come mai i suoi film sono ciò che sono, perché poi il regista dipende anche dall’uomo che c’è dietro.
In questa prima fase di carriera il cinema d’autore ha guardato a te come corpo da concupire e possedere. È successo così ne L’amico di famiglia, ne La giusta distanza e anche ne Il passato è una terra straniera in cui eri la barista violentata dal personaggio di Michele Riondino.
Parliamo di uno sguardo d’autore non ipocrita, ma reale perché poi è indubbio che la natura umana è fatta anche di luoghi oscuri. Poi dipende anche dalle caratteristiche fisiche della donna, ma soprattutto da chi sei e da come ti percepisce l’altro. Magari un fisico come il mio può far pensare a quel tipo di reazioni. Per quanto mi riguarda sono sempre partita dai personaggi coinvolti nella storia. Il personaggio di Riondino era un uomo impotente che sopperiva a quella mancanza con la violenza. Io entravo a far parte della sua realtà non come essere umano ma solo per soddisfare una sua necessità.
In questo trittico di film anticipi molti dei temi che oggi sono al centro del dibattito sulla violenza contro le donne.
Sì, indubbiamente sì.
Valentina Lodovini e il corpo
Partendo da questo punto di vista autoriale e dai ruoli in cui eri oggetto del desiderio maschile ho trovato estremamente interessante la maniera in cui sei stata attenta a ridurre al minimo l’esposizione del corpo. Secondo me questo ha fatto sì che quello sguardo appassionato nei tuoi confronti sia rimasto inalterato. Non è facile riuscire a sostenere questa posizione nel corso di una carriera.
Indubbiamente è stato così e questo deriva in parte dal fatto che volevo togliergli importanza. Non volevo che la mia presenza si riducesse solo a quello, non perché mi considero chissà chi, ma perché spesso percepisco lo sguardo degli altri da cui l’intenzione di non portarmeli dietro come un tatuaggio. Preferisco usare il corpo come uno strumento e non come immagine di me.
D’altra parte nella recitazione l’attore cerca di far dimenticare che ha anche un proprio corpo e una propria faccia, diversa da quella del personaggio.
Allo stesso tempo però il corpo è il nostro strumento. È un circolo vizioso, ma va bene così. Il cinema è immagine per cui al di là del fatto che tu sia brava o meno, simpatica oppure no, è invece molto importante che tu abbia i giusti colori. Con il personaggio poi si può andare anche oltre però molto è limitato all’immagine e a mio avviso è anche giusto così. Se ciò che sono, in particolare il mio involucro è opportuno per il personaggio meglio così perché vuol dire che la mia fisicità mi permette di fare più cose.
A tuo vantaggio c’è il fatto che come personaggio pubblico non sei una presenzialista. Al contrario ti si percepisce come una persona discreta e riservata.
Non discreta e riservata, ma omertosa (ride, ndr). Quello che mi interessa è il mio lavoro. Credo che per un attore l’anonimato sia un vantaggio: meno si sa di te e più ne giova il tuo lavoro. Io ho un pubblico molto leale che ha imparato ad apprezzare questa cosa e anche se all’inizio alcuni volevano sapere un po’ di più in seguito hanno cominciato a comprendere senza conoscermi, ma seguendomi. Questo è molto bello.
Il primo film in lingua straniera
Dopo La giusta distanza hai girato il tuo primo film in lingua straniera, Pornorama di Marc Rothermund, il regista di un cult come La rosa bianca.
Ero molto emozionata quando Marc mi ha chiamata perché anch’io ho amato tantissimo La Rosa Bianca. Mi piace sempre molto confrontarmi con sensibilità diverse, e poi sono molto coraggiosa verso ciò che non conosco. La cosa interessante di quel film era il suo parlare dell’arte e dell’artista e di come andare oltre la censura. È stato bello confrontarsi con metodologie, percezioni e storie diverse, quelle di Marc e dei miei colleghi così come del cast tecnico. Questo è sempre prezioso, almeno per me.
A proposito di coraggio e voglia di sperimentare, subito dopo giri Riprendimi di Anna Negri, piccolo film arrivato fino al Sundance.
Sì, è vero. Quel film nasceva come una sorta di mockumentary, ma poi diventava anche altro.
In Generazione mille euro per la prima volta non sei una femme fatale, ma reciti la parte di una ragazza poco sicura di sé.
Sì, non ho paura a fare né le stronze né le sfigate (ride, ndr). Così sono talvolta gli esseri umani, quindi non ho problemi ad affrontare personaggi più antipatici.
Quel film era un po’ figlio di Santa Maradona. Non so se quando l’hai fatto avevi in mente il film di Marco Ponti come riferimento?
A dire il vero non ci avevo pensato. Santa Maradona per la nostra generazione è stato un film importante. Non avevo mai fatto questa associazione. Di certo c’è che Generazione mille euro è un film generazionale.
Anche il lungometraggio di Massimo Wenier è strutturato come un buddy movie con i due uomini che si confrontano con il personaggio femminile, e anche nel vostro film ci sono passaggi surreali come il tormentone del buco nel pavimento destinato ad allargarsi sempre di più.
Sì, hai ragione.
Personaggi reali
Fortapasc è l’unico film in cui interpreti un personaggio reale o mi sbaglio?
C’è anche la moglie de I Milionari.
In tutti gli altri non è così per cui ti chiedo se questo implica ancora di più la presa in considerazione della tua esperienza personale nella ricerca del personaggio.
No, parto dal personaggio senza mai pensare a cosa ho in comune o casa farei al posto suo. È chiaro che sono io a dargli vita quindi c’è un coinvolgimento che non può essere finto. Però per me il personaggio scritto sulla carta diventa subito umano. Se poi è ben sviluppato questo processo risulta ancora più facile. Poi dipende, perché non tutti i film sono uguali. Un film dipende da tanti fattori per cui la metodologia è destinata a variare a seconda del caso.
In generale le tue sono interpretazioni emotive, cariche di un’energia e di un’empatia che arriva allo spettatore senza alcun filtro. Ti ritrovi in questo?
Sì, è l’unica cosa che cerco, la realtà delle cose. Mi fa piacere che tu abbia usato il termine empatia perché è la cosa che faccio sempre. Finora non mi è stato chiesto di fare qualcosa di diverso: anche a teatro preferisco sbarazzarmi della tecnica per lasciare spazio all’empatia che magari ti fa usare espressioni un po’ più sporche ma più vere. Questo implica ogni volta un coinvolgimento totale. Io ci metto sempre il 100% di quello che ho in quel momento, poi magari non sempre si riesce a raggiungere l’obiettivo, però io parto da questo e l’unica cosa che mi interessa è la verità. Cerco di essere viva, di sentire con la sensibilità del personaggio.
I personaggi di Valentina Lodovini
Il risultato è un flusso energetico ed emotivo in cui la tecnica sparisce lasciandoci davanti la vita del tuo personaggio.
Sì, è quello che provo a fare sempre, cercare di essere viva. Il che non significa nemmeno affidarsi solo a quello perché le emozioni sono come le nuvole, diverse da un momento all’altro. È difficile da spiegare, però cerco il famoso qui e ora a cui tutti forse aspiriamo.
Hai detto di essere coraggiosa e in effetti lo sei perché con il tuo modo di recitare dai fiducia allo spettatore consegnandogli una parte di te.
Esatto, è bello quando hai uno specchio davanti, quando ci sono delle corde che ti toccano e ti fanno vibrare. Cerco di essere tutto questo per lo spettatore.
In questa maniera per lo spettatore il coinvolgimento non può che essere totale.
Infatti come ti ho detto mi sento molto amata. Non c’è cosa più bella. Le persone mi fermano per strada con amore e rispetto totale e magari mi raccontano che quel personaggio li ha aiutati a capire una cosa, che un altro ha fatto provare loro un’emozione particolare. Qualcuno mi rinfaccia di aver fatto una determinata parte: dicono: “noo! Perché hai fatto quella cosa?!” riferendosi per esempio all’episodio della serie dedicata al Commissario Montalbano.
Sei interprete di un modello femminile declinato in vari generi e caratterizzato da differenti umori. Una molteplicità di ruoli in cui non è mai venuto meno un forte tratto di dignità, presente sia nelle parti più drammatiche che in quelle più leggere.
Sì, vero. Parliamo di un fatto fondamentale che mi caratterizza come essere umano. È qualcosa che da sempre porto con me. In qualche modo funziona anche come difesa.
L’umanità dei personaggi di Valentina Lodovini
Questo ti porta a non svalutare mai l’umanità dei tuoi personaggi.
Anche se il mondo odierno mi fa traballare un po’ credo nell’evoluzione del genere umano, qualsiasi esso sia. Non ho giudizio o pregiudizio e se c’è una cosa che mi è stata detta e che mi piace tantissimo, è quella di suscitare un’immagine collegata alla libertà. Lo trovo grandioso e ogni volta che me lo dice un regista, un collega, un giornalista o il pubblico mi riempie di orgoglio perché per me è un valore. Nella libertà c’è anche la dignità, la moralità e ciò che sei. La libertà è anche indipendenza. Come donna io lo sono e la fierezza che ne deriva me la porto anche nei miei personaggi. Poi c’è che io provo una grande empatia per l’essere umano e credo che chi fa il mio mestiere sia così o almeno così dovrebbe essere altrimenti è impossibile fare l’attore. Da qui il mancato bisogno di giudicare i miei personaggi che non è solo frutto di un insegnamento teorico e accademico utile alla recitazione, ma propedeutico alla necessità di doverli capire. Forse il produttore può giudicarli ma io no, devo trovarci qualcosa che me li rende vivi e che me li fa interpretare. Questo non significa che giustifico tutto e tutti perché è chiaro che come donna ho un’etica e una morale però poi nel mio lavoro l’importante è calarvisi dentro, sentire perché si muovono in quel modo, perché piangono o ridono per qualcosa. Questo nella considerazione che ognuno è fatto a modo proprio perché se io devo interpretare la scena di un funerale non è detto che debba per forza piangere. Può capitare che rida perché un dolore puoi anche mascherarlo con un sorriso isterico. Se il personaggio ride o non ride non è quello che mi fa dire se è bravo o cattivo.
La popolarità
Il dittico composto da Benvenuti al Sud e Benvenuti al nord è quello che ti ha regalato la popolarità.
Sì, La Giusta distanza è pure un film molto amato e in questo senso un po’ sottovalutato, però credo non ci sia un italiano che non abbia visto Benvenuti al Sud. Ora esagero però si tratta di un film magico a cui io devo tanto e questo è indubbio, però dico sempre che ho un curriculum da proteggere e quindi in qualche modo non faccio distinzioni: è come se mi chiedessi vuoi più bene al babbo o alla mamma? Poi è chiaro che a livelli di numeri indubbiamente i due film di Luca Miniero non hanno eguali con gli altri. Adesso però lui è stato scalzato da Love and Gelato (ride, ndr) però questo è un altro discorso.
Questi due film ti hanno fatto diventare protagonista ideale di commedie mainstream.
E non solo, e ne sono molto orgogliosa. Secondo me avendo avuto l’opportunità di partecipare ai cosiddetti film commerciali magari sembra che abbia fatto solo quelli mentre nello stesso anno ho fatto magari un piccolo film più complesso, coraggioso e sperimentale. L’eco di un lavoro commerciale deriva dalla grandezza del suo pubblico, ma la realtà è che ho lavorato tanto anche nel cinema d’autore. Detto questo sono contenta di aver saputo dimostrare di avere ritmi comici.
Cambio tutto!
Uno di questi è certamente Cambio Tutto! Nel film diretto da Guido Chiesa sei protagonista di un vero e proprio One Woman Show.
Eh si, (ride, ndr).
Nella chiave tragicomica scelta del regista dimostri tutte le tue possibilità passando dall’essere una casalinga disperata a diventare la versione italiana di Thelma & Louise. Peraltro il film di Chiesa guarda molto ai modelli della commedia americana.
Giulia Santini, la protagonista del film, è uno dei personaggi per cui la gente mi ferma dicendomi quanto gli ha fatto bene vedere la sua trasformazione. Essendo una che ha fatto un investimento sulla sincerità assoluta so riconoscere quando l’altro mi sta mentendo, quindi ti dico che tutte le donne o uomini incontrati mi hanno detto di aver trovato il coraggio di fare questo o quell’altro grazie alla visione di quel film. Dunque è stato un ruolo importante in un momento storico particolare: Cambio Tutto! doveva uscire il cinque marzo 2020 mentre poi a causa pandemia è stato presentato su Amazon. Altri due film usciti nello stesso periodo, 10 giorni senza mamma e 10 giorni con Babbo Natale, sono riusciti a far compagnia al pubblico consentendogli di evadere almeno per un attimo da quel terribile momento. Toccare i cuori, lo stomaco e la testa delle persone è una delle motivazioni per cui fai questo mestiere. Anche se non sono capolavori assoluti il fatto di essere riusciti a fare una cosa del genere è scioccante per la sua bellezza. Talvolta ti dici che fai il mestiere più bello del mondo però poi ti chiedi cosa stai facendo per contribuire a migliorare il mondo. Quando le persone ti fermano dicendoti che con la tua interpretazione le hai fatte sentire meglio in qualche modo ritrovo il senso del mio lavoro.
L’interazione con il pubblico
La tua interpretazione dà loro la forza di vincere la timidezza e di avvicinarti.
Scrivere personaggi in cui il pubblico si può identificare è molto importante ma negli ultimi anni non capita spesso. Ci sarebbe molto da dire sullo stato del cinema. Non sempre si trovano personaggi come capitava negli anni settanta e ottanta, con cui il pubblico si poteva identificare e quando questo accade si verifica qualcosa di magico. È questo il motivo per cui porto in scena l’opera di Franca Rame, grazie alla quale sono sicura di entrare in contatto con il pubblico coinvolgendolo nella rappresentazione. Mi piace far sognare lo spettatore, farlo divertire, raccontargli i grandi fatti storici. A parte la rarità di trovare un personaggio femminile protagonista di un film Giulia Santini mi ha permesso di raccontare le cose che succedono a noi donne. Anche se molte situazioni appaiono comiche non vuol dire che non siano vere. La storia affronta un sacco di temi di cui si può discutere e aprire un dibattito. Questa per me è una grande soddisfazione.
Sempre durante il lockdown ti abbiamo visto in un ruolo completamente opposto. Nel film di Alessia Di Giovanni sei un’ex brigatista che ha un rapporto conflittuale con la sorella. Alla drammaticità del testo si aggiunge l’estetica minimale del tuo personaggio. Senza trucco né colori dai vita a una donna dura e scontrosa.
Sì, lo so, te l’ho detto, mi piace raccontare la verità anche a costo di apparire meno simpatica. Quel set mi ha dato l’occasione di incontrare il talento di Alessia arrivata al cinema attraverso il fumetto e con la voglia di raccontare temi non scontati. Per me è stato puro nutrimento.
Nella scena che ti vede protagonista ti lasci andare a un’esplosione di sentimenti. Sembra una sequenza molto dispendiosa dal punto di vista emotivo.
Eh si, lì la sensazione è stata quella dell’animale fatto uscire dalla gabbia. Mi sono sentita così, libera di far uscire ciò che avevo dentro. Spore mi ha permesso di esplorare certe corde e di ricordare gli anni andati.
Gli anni Ottanta.
Esatto!
I partner artistici di Valentina Lodovini
Nella tua carriera ci sono stati connubi lavorativi particolarmente stimolanti. Penso per esempio a quello con Vinicio Marconi con cui avete lavorato consecutivamente a Passione Sinistra e Il Sud è niente. Nelle vostre storie c’è sempre qualche impedimento che non vi permette di restare insieme.
(Ride, ndr) È lui l’impedimento.
Penso anche a quelli con Fabio de Luigi e Diego Abatantuono, due campioni della nostra commedia. Immagino che nella riuscita del tuo lavoro il rapporto con i tuoi partner conti molto.
È fondamentale. In quel caso sono così diversi uno dall’altro che per entrare in argomento ci sarebbe bisogno di aprire dei capitoli separati su ciascuno di loro perché oltre ad appartenere a generazioni diverse e ad avere formazioni differenti c’è anche la specificità dei rispettivi caratteri. A volte con loro mi sono trovata a dovermi mettere al servizio della storia: non avendo mai rifiutato la forza di uno o dell’altro il mio approccio è sempre stato molto rispettoso, ma anche alla pari, con tanta voglia di imparare dal loro mestiere. Ne sono nati bellissimi rapporti: ognuno di loro mi ha dato qualcosa, ma mi ha anche tolto. Tutto è insegnamento perché il mio lavoro rende interessante qualsiasi incontro, bello o brutto che sia.
Non si smette mai di imparare.
Ogni volta a teatro impari dal pubblico e poi apprendi da chiunque, dai tuoi colleghi, dai tecnici. Il mio approccio è di vivere la vita da studente. Sono curiosa di tutto e ho voglia di imparare.
La donna della mia vita
Per concludere questa breve carrellata sulla tua filmografia non posso non chiederti qualcosa su La donna della mia vita, commedia sofisticata di Luca Lucini. Che lui sia un regista specializzato in questo genere di film lo si vede anche dalla direzione degli attori. Siete tutti in stato di grazia, in un perfetto equilibrio tra dramma e commedia.
Ad aiutarci è stata anche la scrittura di Cristina Comencini che in un film vale tanto. Si tratta di un testo molto teatrale. Non solo perché è girato in interni, ma anche per la sua drammaturgia. È giusto che tu lo definisca sofisticato perché in realtà lo è. La meraviglia di quell’esperienza è stata quella di avere di fronte Stefania Sandrelli. Ritrovartela davanti dopo aver visto i suoi film ti fa tremare di paura. Passata quella mi sono accorta che quando la macchina da presa è su di lei è come se si accendesse una luce. Quella che probabilmente l’ha resa la Sandrelli e che ha spinto tanti autori a scrivere per lei ruoli che hanno fatto la storia del cinema. Ho assistito a questa cosa incredibile che non so definire perché è una magia. Quando la mdp si accende su su di lei tutto scompare, non so come spiegarlo bene, ma è così.
In quel film c’era la luce della Sandrelli, ma anche la bravura e la fama degli altri colleghi. Penso ad Alessandro Gassman, a Sonia Bergamasco, a Luca Argentero e a Giorgio Colangeli. La tua capacità è stata quella di saperti amalgamare con gli altri senza perdere di vista lo spettatore. In un film del genere la tua resilienza è stato un vantaggio.
Non so che dire, sul set pensavo loro sono il cinema e poi ci sono io. Sonia Bergamasco la stimo alla follia e io ero tra il David di Donatello e il Bronzo di Riace, parlo di Alessandro e Luca che non sono solo belli. In compenso mi sono sentita molto voluta da Lucini e quando un regista ti sceglie davvero o almeno ti fa sentire così succede come in amore. Non è sempre così mentre in quel caso lo sguardo di Luca è stato per me un grande supporto.
Pierpaolo Pasolini secondo Valentina Lodovini
Questa conversazione è nata sulla scia dell’Italian Film Festival Berlin a cui tu e Vinicio Marchioni avete partecipato per ricordare la figura di Pierpaolo Pasolini. Quello del poeta e regista è un corpo ancora “caldo” per come il suo pensiero riesce a essere illuminante nella discussione politico sociale. Pasolini è anche un corpo contundente perché la sua figura ci ricorda che forse osiamo troppo poco rispetto a quanto si dovrebbe fare.
Di Pierpaolo Pasolini potremmo parlare per ore e non basterebbe. Quando sono stata cercata da Vasco Brondi con cui avevo fatto una cosa su Pasolini e da Enrico Magrelli mi è stata data libertà di scegliere rispetto alla vastissima produzione dell’artista. Il tema datomi da Enrico era su Pasolini e le sue donne, ma poi anche io ho voluto portare qualcosa di mio. È stato molto bello da parte sua darmi questa possibilità perché in quella libertà ho avuto modo di farmi conoscere come persona. Non avrei mai rinunciato, per esempio, alla parte in cui nelle Lettere Luterane Pasolini ipotizza il processo al potere. A un certo punto mi sono detta come mai avevo scelto questa cosa anziché un’altra e ho capito che la vita, l’opera, e quindi il Pierpaolo uomo finiscono sempre per produrre l’effetto dell’esame di coscienza, costringendoti a confrontarti con la tua viltà, con la tua paura della vita, con l’asservimento. Credo che questo sia ciò che racchiude la sua contemporaneità. Quest’anno è stato magnifico perché il centenario della sua nascita ci ha permesso di parlarne ogni giorno; tante manifestazioni hanno riportato le sue parole, i suoi film, i suoi testi, le sue interviste.
Quando Enrico mi ha chiesto del suo rapporto con le donne ho cominciato ad approfondirlo: ho pensato a sua madre, alla Callas, alla Magnani e alla Mangano per arrivare a considerare la terra intesa come ventre materno di tutto ciò che vive, la terra madre, la terra di nessuno.
Non è un caso che i suoi personaggi si rotolino spesso nella terra, nel fango.
Parliamo di una coscienza artistica suprema di cui si fatica a trovare le parole.
Non posso fare a meno di chiedere anche a te film, registi e attori che preferisci?
È molto difficile rispondere. Ti posso dire Paisà che amo per tantissimi motivi e tra questi per come sa raccontare il nostro paese. Tra gli attori direi Al Pacino. Ho una passione particolare per Carole Lombard e naturalmente per Anna Magnani. Tra i registi ce ne sono tanti contemporanei, ma la mia vera ossessione sono Pietro Germi e Giuseppe Rotunno, persone che porto nel cuore: spesso vado sulle loro tombe a mettere una rosa rossa perché mi sento grata e devota. Non so nemmeno bene come spiegarlo perché il rapporto con loro è profondamente intimo. Difficile dargli una forma perché fa parte del mio sangue.
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