M Il Figlio del Secolo, il bel libro di Antonio Scurati, si appresta a diventare una serie tv: Benito Mussolini é una figura talmente forte nell’immaginario da essere però stato protagonista di doversi film su grande schermo.
Di tutta l’erba…
Da un lato, è del 2022 il primo appuntamento di riprese per Robbing Mussolini, titolo del nuovo film di Renato De Maria prodotto da Bibi Film srl e i cui diritti sono stati acquistati da Netflix: l’opera racconterà una parte di vita dell’ex politico italiano.
Dall’altro, Sky ha iniziato la produzione di una serie tv sul capolavoro letterario di Antonio Scurati M Il Figlio Del Secolo, già portato a teatro da Tommaso Ragno.
La serie TV presto su Sky
M Il Figlio Del Secolo nasce come romanzo a firma di Antonio Scurati. Vincitore del Premio Strega, il libro rievoca la conquista del potere del fascismo tra il 1919 e il 1925, con un’inedita ricchezza di particolari riguardanti la figura di Benito Mussolini e i suoi collaboratori e avversari.
L’opera é straordinaria dal punto di vista letterario e bibliografico: per l’incredibile fluidità della prosa di Scurati, che unisce l’accuratezza documentaristica ai dettagli emotivi che mettono in mostra le zone d’ombra e quelle inondate dalla luce che restituisce la pluralità di prospettive. Ma Scurati ha dalla sua anche il saper evitare con coraggio ogni pesantezza accademica con una struttura originale.
La serie TV di Sky esplorerà le varie relazioni personali del futuro Duce, mettendolo a confronto con le figure iconiche dell’epoca che hanno giocato un ruolo fondamentale nella vita del personaggio. Il serial avrà otto episodi, é prodotto da Lorenzo Mieli con The Apartment Pictures, società del gruppo Freemantle, in collaborazione con Pathé; la scrittura é affidata a Stefano Bises affiancato alla sceneggiatura da Davide Serino.
La composizione drammaturgica del libro si offre fon da subito, poi, ad un adattamento seriale, essendo solo il primo di una annunciata trilogia (é già uscito, sempre con Bompiani, il secondo volume, M L’Uomo Della Provvidenza, nel 2020).
Proprio 100 anni prima rispetto a Robbing Mussolini, nel 1922, Benito Mussolini prende il potere in Italia e afferma pubblicamente di ritenere che il cinema è “l’arma più forte dello Stato”: il sonoro era ancora di là da venire, la produzione italiana era scarsa e di basso livello; eppure, la ben nota lungimiranza fascista aveva già capito l’importanza dell’immagine per far presa sul popolo.
La storia in LUCE
È del 1923 la nascita de L’Unione Cinematografica Educativa (LUCE, per i tele e i cinegiornali.
Ma un tema particolarmente importante riguarda l’immagine del Duce: lui, artefice di ogni successo, incarnazione di tutti i valori di Stato, il solo responsabile del bene del Paese, deve essere mostrato sempre sicuro di sé, forte, robusto, punto di riferimento.
Con il consolidamento del suo potere, si sviluppò una sorta di iconografia popolare del personaggio che rese di pubblica notorietà aspetti singolare della vita di Mussolini, riferimenti sino ad allora inusuali per i politici come la casa natale di Predappio o un annullo filatelico: fu con lo svilupparsi, il consolidarsi e la successiva e definitiva decadenza del mito (o meglio, dei diversi tipi di miti mussoliniani) che però divenne una componente fondamentale del fascismo e sicuramente uno dei miti più popolari nell’epoca tra le due guerre mondiali.
Solo dopo il 1943 la sua immagine si appanna, anche se nel dopoguerra, il cinema italiano (sul quale ebbe una notevole influenza il giovane sottosegretario Giulio Andreotti) si pose immediatamente il problema di come raccontare il fascismo e la recente storia patria, con un Paese diviso in due e lacerato, non solo da una guerra civile, ma anche dal referendum, tra vincitori e vinti, partigiani e repubblichini.
Il Duce, Lizzani e Scola
Una figura oscura e ammantata di dolore, follia e ambiguità, al di là di ogni ovvio giudizio storico e umano: inevitabile che il cinema affrontasse la figura di Benito Mussolini declinandola dal punto di vista storico e personale, ponendo al centro la riconoscibilità iconografica dell’uomo.
Carlo Lizzani, nel 1974, firma Mussolini: Ultimo Atto: nel 1945 il Duce (interpretato da Rod Steiger) si trova a Milano deciso a non arrendersi alle forze nemiche, ed è intenzionato a raggiungere il territorio svizzero. Accompagnato da Claretta Petacci (Lisa Gastoni) tenta di eludere i controlli partigiani fino a quando non viene arrestato presso Dongo.
Lizzani ha sempre raccontato importanti pagine della storia italiana sentendola come vocazione artistica: dopo Il Processo di Verona del ’63, torna allora alla Seconda Guerra Mondiale, al crepuscolo del conflitto, per puntare lo sguardo sugli eventi che portarono alla cattura e alla fucilazione di Mussolini per mano di Walter Audisio.
Eventi raccontati secondo un’attenta analisi storica, e con un afflato drammatico che riesce a restituire vigore alle immagini.
Non c’è profondità né contraddizioni esistenziali nel tentativo di fuga e nel travaglio umano del personaggio: ma il cinema di Lizzani è capace di essere neutro raccontando solo una dittatura politica agonizzante, mentre con obiettività mostra -seppure lui, regista, dichiaratamente antifascista- chi sa sempre salire sul carro del vincitore dimenticando fede politica e fedeltà umana.
E che la Storia è stata posta a un bivio nel momento in cui Mussolini fu fucilato: se avesse avuto un processo regolare, come si sarebbero evoluti i fatti? La sua persona sarebbe stata utilizzata come figura fantoccio a scopi egemoni da qualche potenza mondiale?
Attraversando come figura sullo sfondo e fuori campo tantissimo altro cinema d’eccellenza (primo tra tutti, Una Giornata Particolare di Ettore Scola, del 1977, struggente racconto di due solitudini emarginate dal fascismo che si incontrano per un breve attimo, separate per cultura, carattere ed estrazione sociale, ma unite dal destino doloroso, durante la visita di Hitler a Roma nel 6 maggio 1938), Mussolini ritorna nel nuovo millennio in due film, nel 2009 in Vincere! di Marco Bellocchio e nel 2017 in Sono tornato di Luca Miniero.
Un cinema di fascismo, fantasmi e ritornanti
Vincere! è probabilmente uno dei vertici dell’arte di Bellocchio, un’opera così densa e intensa da riuscire a contenere tutta la poetica dell’autore, le linee che hanno attraversato i suoi film e il suo sguardo tra la Storia e l’invenzione che riflette e rielabora i fatti per farli più veri e vicini all’oggi.
Vincere! non è una storia sul fascismo, ma usa Benito Mussolini per raccontare il segreto di un amore nascosto e folle, modellando un film a tratti imponente, affiancando nelle inquadrature e nei dialoghi il suo punto di vista a quello storico.
In questo senso, Vincere! è un film di fantasmi -un po’ come lo Spencer di Larrain– costruito da un insieme di pensieri in dissolvenza incrociata: il fantasma della libertà all’interno del fantasma di un amore dentro il fantasma del potere. Bellocchio analizza il privato di una figura storica per trarne conclusioni pubbliche e universali: cerca di contestualizzare gli avvenimenti in un preciso ambiente culturale e politico (il Futurismo, Boccioni Carrà, la prima guerra mondiale, la rivoluzione russa) per rispondere, o almeno provare a farlo, a quesiti essenziali, morali e politici.
E allora illustra meticolosamente il corpo dei protagonisti per verificare la distanza tra pensiero e azione, tra ragione di stato e questione morale.
In quel preciso quadro storico, Mussolini sta già diventando l’immagine di vecchi film di repertorio (come i LUCE di sopra) che lo ritraggono nelle sue campagne populiste e demagogiche.
Con Bellocchio, il fascismo diventa melodramma politico e Ida Dalser (la compagna di Mussolini il cui matrimonio non è mai stato provato da alcun documento e da cui ha avuto un figlio) una figura d’opera con sfumature tragiche che si lascia ingannare dalle apparenze, dalla finzione attoriale di un uomo che continua con versi e pose buffonesche per accattivarsi la simpatia di un popolo stordito dalla propaganda e inebetito da suoni, scoppi, rumori e lampi (tzang tzang tumb tumb).
E il regista sceglie di chiudere la storia in maniera magistrale, ricordando allo spettatore che anche per gli uomini marionette del potere arriva l’ora di giudizio della Storia: mentre ci si allena alla libertà e alla verità, dando nuova forma e colore al fantasma della libertà, e dissolvendo lo spettro del potere sotto i fasci di luce della proiezione cinematografica.
Se poi nel 2015 Hitler si risveglia ai giorni nostri in Lui È Tornato di David Wnendt, in Italia Luca Miniero ha ben pensato due anni dopo di riportare in vita proprio il Duce nel remake Sono Tornato.
Aveva detto il regista di Benvenuti al Sud: “il fantasma di Mussolini gira molto nelle campagne per farsi pubblicità. È un personaggio che gli italiani hanno sempre giudicato con indulgenza, non come fu per Hitler. Il rischio era di fare un film italiota, una parodia: i tedeschi sono quasi schifati da Hitler, in Italia invece vogliono farsi dei selfie con Mussolini redivivo.”
Partendo da questi presupposti, Miniero costruisce un racconto dove mostrare come la gente veda Mussolini come un “cattivo minore”, a volte persino giustificato per i suoi “errori”, ponendo sottotraccia una domanda inquietante, se il Duce se ne sia mai veramente andato dal nostro paese. In Sono Tornato il protagonista però non un giovane Benito, non un duce in nuce: e se il film di Wnendt si concentra sul razzismo, questo invece è ben più audace nella sua esegesi di una società malata, prendendo di petto e con coraggio una commedia che ha al centro l’incubo della memoria storica e della coscienza (in)civile di questo Paese.
Perché, per dirla con Gaber, “io non temo il Duce in sé, temo il Duce in me”: Miniero dimostra ancora una volta la sua intelligenza nell’affrontare il rifacimento, coglie l’essenza dell’originale e la porta nel suo recinto, affrontando senza paura bivi complessi, disegnando un Mussolini che entra in empatia con gli istinti più bassi del suo popolo, perché fu così, ed è purtroppo ancora così.
Perché è sempre il momento di guardare il Duce che è in noi, qui e ora.