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Biennale del Cinema di Venezia

Venezia 78, ‘Vorrei sparire senza morire’ le finestre della memoria di Pupi Avati

Nel documentario di Marta Erika Antonioli e Nicola Baraglia, prodotto da IULM Movie Lab e presentato tra gli eventi speciali alle e Giornate degli Autori, Pupi Avati si confessa attraverso una ricognizione dei luoghi del cinema e dell'anima

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A band is blowing Dixie, diceva una vecchia canzone dei Dire Straits. Comincia con un’immagine del genere Vorrei sparire senza morire di Marta Erika Antonioli e Nicola Baraglia, tra gli eventi speciali delle Giornate degli Autori a Venezia 78: sulle note e sul sudore della Doctor Dixie Jazz Band. Ne fece parte già dalla fine degli anni ’50 il protagonista – meglio, l’anima narrante del film, Pupi Avati. Che da qui ha voluto cominciare, perché col gruppo aveva girato il mondo nell’altra vita, quella musicale degli esordi. Il documentario è il suo assolo della memoria. Il revival musicale dei primi minuti si fa presto estratto autobiografico, contro-revival cinematografico: musica – o azione – Maestro.

La trama di Vorrei sparire senza morire

Da un’idea di Gianni Canova, attualmente Rettore di IULM, per la produzione di IULM Movie Lab con la collaborazione di DUEA FILM. Un gruppo di giovani dell’ateneo si mette all’ascolto del maestro bolognese. Pupi Avati racconta scene di vita musicale, cinematografica, o vita e basta. Tra affetti, fantasmi, ricordi. C’è la micro-epica del passato, e qualche aspirazione, anche un po’ malinconica. Con la partecipazione di Antonio Avati, 48 minuti di autobiografia – accennata, sussurrata – e la sensazione che queste pagine di diario audio-visivo siano già parte di una storia più grande.

Il caro diario di Avati

Da Fellinopolis a The Rossellinis, solo per citare eclatanti casi recenti, la memoria auto-conservativa del cinema italiano sembra sempre più diffusamente prestarsi alla scrittura documentaria. Nel caso di Vorrei sparire senza morire, non siamo di fronte né all’indagine archivistica, né alla ricostruzione testimoniale con le chicche dell’ultima ora. Il film è una confessione abbozzata: presente, viva. Avati stesso ne spiega il titolo: vorrebbe evitare ai propri cari il dolore che lui provò quando gli morì la madre. Se l’intento è sincero, la confezione visiva, piuttosto laboratoriale, può risultare persino naïf: per montaggio, per minutaggio. Ma funziona nel settare il tono del rapporto con lo spettatore. L’autore bolognese si lascia andare al flusso dei pensieri sin dalle prime battute, eleggendo il cimitero di San Leo come punto di partenza di un mini-itinerario emotivo. Parlando dei tanti cari lì sepolti, afferma:

Sono profondamente affezionato a questa visione della vita che hanno avuto loro, che avevano un rapporto con la morte molto naturale, molto semplice, molto diretto.

Con naturalezza e trasporto, Avati racconta di folgorazioni e frustrazioni. Rientrano tra le prime: l’incontro con la futura moglie, splendida apparizione nel paesaggio bolognese; il cinema, un’intuizione tutta visiva nella scritta Cinecittà avvistata sul fondo blu di un cartello stradale.

I luoghi del ricordo

Tra gli umori frustrati, invece, lo stesso making of di Vorrei sparire senza morire. Passando dal racconto di un luogo all’altro, Avati esterna la propria insoddisfazione:

È come se io a questi luoghi non avessi dato niente, e li avessi soltanto, in qualche modo, enfatizzati, esaltati attraverso la mia immaginazione.

La casa della memoria di Avati, insomma, non sempre ha le finestre che ridono. Però ha una solida architettura. Il docu-racconto è strutturato nell’agile orientamento di una cartografia: luoghi del ricordo dove sostare, dall’album personale o professionale. Figura la chiesa del matrimonio, ma anche la casa di Bix Beiderbecke (acquistata e restaurata da Pupi e dal fratello Antonio), il jazzista a cui dedicò il film Bix – Un’ipotesi leggendaria del 1991.

Vorrei sparire senza morire

Da Vorrei sparire senza morire: la rocca dove fu girata una sequenza di Balsamus – L’uomo di Satana

Sa ancora emozionarsi, il regista, quando accompagna nel sopralluogo alla Rocca Mattei, location di Balsamus – L’uomo di Satana, il “fallimentare” esordio del 1968. E qui sì, nell’esotismo dell’architettura moresca, il sorriso di Avati, anche off screen, si distende come la valle ai piedi dell’Appenino tosco-emiliano.

Voci senza ribalta

Il luogo per eccellenza nel documentario di Marta Erika Antonioli e Nicola Baraglia resta il cinema. Non foss’altro per gli inserti dai vari film (Il testimone dello sposo, Storie di ragazzi e di ragazze, Il signor diavolo) o per la rievocazione di quella pensione materna a Roma, via del Babuino, dove transitavano Pontecorvo, Mastroianni, Zurlini, Cervi. Né manca qualche imbeccata di mestiere (i teatri di Cinecittà come luoghi ideali per catturare atmosfere raccolte) o l’effetto reportage delle riprese più recenti (sul set di Lei mi parla ancora). E quando il cinema arretra, la vita avanza come su un set mobile. Col racconto che si conclude, poi, in sordina: sparendo, senza morire, quasi nell’ammissione serena della propria incompletezza. Perché nemmeno si tratta davvero di un’intervista: a prevalere è la voce sovrimpressa di Pupi Avati, fine come un bisbiglio.

Mezzo racconto e a mezza voce, dunque, quello di Vorrei sparire senza morire. Ma il parlato di Pupi Avati è sincero; e ha ancora da dire. Musica, Maestro.

Vorrei sparire senza morire nella presentazione di Sandra Orlando

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Vorrei sparire senza morire

  • Anno: 2021
  • Durata: 48'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Marta Erika Antonioli e Nicola Baraglia