Maternal di Maura Delpero è davvero e senza falsi riferimenti un film originalmente pasoliniano. A differenza di altri che lo sono solo in superficie, non si limita a riprenderne la lezione nella peculiarità della fenomenologia socio ambientale, come pure nella predilezione per l’istintualità senza mediazioni del contesto umano. A surrogare il modello in questione, una convergenza tra alto e basso in cui la laicità del soggetto è resa sacra dalla vertigine dei riferimenti pittorici e dalla plasticità della figura che li compongono. Presentato al 72 Festival di Locarno, prodotto da Dispàrte e da Vivo Film e distribuito nella sale da Lucky Red, Maternal è uno degli esordi più belli e importanti dell’ultimo cinema italiano. Sulla scia di film come Il corpo della Sposa, Normal, Zen – Sul ghiaccio sottile, Miss Marx, il cinema di Maura Delpero è una lente di ingrandimento su una realtà che credevamo di conoscere e che invece ci appare come fosse la prima volta.
L’introduzione di Maternal è composta di tre sequenze montate tra loro senza soluzione di continuità. Al primo piano di Suor Paola incorniciato dal finestrino del taxi, segue il campo lungo della suora che si incammina verso la porta dell’istituto a cui è stata assegnata. Infine, l’ultimo inserto mostra in campo medio due ragazze – Lu e Fati -, sorprese nella stanza della casa famiglia. Il rapporto tra la fissità della mdp e il movimento interno prodotto dalla vertiginosa scansione dello spazio, operata attraverso il montaggio, replica il rapporto tra l’immutabile status quo vigente all’interno dell’istituto e il tumulto interiore che scuote le tre figure femminili.
Innanzitutto grazie per l’attenzione con cui guardi il film. Sì, è così; più che movimento direi, subbuglio. Mi interessava rendere autentico il contrasto molto forte tra staticità e movimento. Il convento di suore italo-argentino è un luogo di staticità assoluta, dentro il quale però c’è un subbuglio di emozioni. A un certo punto avevo pensato che la metafora corretta fosse data da quella specie di discoteche che sembrano dei cubi industriali che si vedono all’orizzonte il sabato sera. Dall’esterno vedi solo la forma geometrica iper-moderna, ma a un certo punto le luci stroboscopiche che fuoriescono dalle finestre ti fanno capire che dentro c’è una vita pronta ad esplodere.
La mia idea era riprodurre questa sensazione. All’inizio del progetto, quando mi chiedevano alcune note audiovisive, la prima decisione presa è stata quella di non far muovere la mdp neanche una volta. Tutti mi dicevano che era strano rispetto al fatto di filmare un luogo pieno di bambini e di adolescenti, mentre per me, nella mia storia, era il luogo a dettare legge. È proprio questa staticità così radicale a creare le dinamiche interne tra le persone. La cosa interessante è che ciò vale tanto per le religiose che per le bambine. Si innesta infatti una grande dualità tra la responsabilità delle suore rispetto al credo della loro fede e l’incontenibilità del desiderio di maternità, destinato a spostare i termini del discorso.
L’altra questione è relativa alla sequenza iniziale, speculare a quella finale, alla quale viene dato il compito di sancire il forte legame tra suor Paola e Lu. La cosa interessante in quel caso è che ci fosse una vera reciprocità, mentre di solito le dimensioni di potere sono sempre molto delineate. Nel caso di un istituto come quello di Maternal, si è portati a pensare che siano sempre gli educatori a influenzare la vita delle educande. In realtà in Maternal era interessante capire come invece il processo sia molto più reciproco. L’arrivo di suor Paola cambia la vita di Lu ma accade anche il contrario.
Infatti la struttura narrativa del film è archetipica, con la figura classica della straniero senza nome che arriva nel villaggio/comunità, stravolgendone gli equilibri per poi andarsene così com’ è venuto. Rispetto a questo schema in Maternal l’anomalia è rappresenta dal fatto che anche suor Paola, in qualità di straniera, è destinata a cambiare dopo essere entrata in contatto con gli altri.
Sì, guarda, per me questo è importante e anzi, addirittura ideologico, perché secondo me le dinamiche di potere possono essere più orizzontali di quanto si creda. Il cinema fin qui è stato molto patriarcale ed è per questo che ha amato poco i film corali. Nei film si cerca sempre il punto di vista dominante, aggettivo che non amo se associato a un determinato tipo di eroe. Al contrario, credo che gli esseri umani dipendano dalle relazioni. Sembra che lo spettatore possa affezionarsi solo a un personaggio e alle sue epiche vittorie. In realtà, c’e uno scambio di influenze reciproche, nascoste e subliminali. Uno pensa che una ragazzina non potrebbe mai influenzare la vita di un’adulta e invece succede. Il fatto, poi, che si tratti di uno scambio reciproco rende il cambiamento più potente.
Sempre nella sequenza iniziale, fai presagire allo spettatore il legame tra suor Paola e Lu attraverso uno stacco impercettibile, in cui le due donne, come fossero la stessa persona, si danno il cambio nell’effettuare la medesima azione, ovvero quella di entrare e prendere possesso dello spazio all’interno dell’istituto. Il fatto che sia il montaggio a costruire questa relazione e non la compresenza dei personaggi all’interno della stessa scena, sottolinea la natura del legame che nasce in maniera indiretta, quando suor Paola decide di prendersi cura della bambina di Lu, nel frattempo fuggita dall’istituto.
Sono d’accordo con te. Si tratta di quella dimensione subliminale di cui ti parlavo prima, cioè della stratificazione di senso. Ovviamente, molto dipende da come lo spettatore dialoga con il film, per cui c’è chi legge un primo livello di narrazione, mentre altri riescono a coglierne molti di più. A me piacciono molto i luoghi chiusi, non solo per la tensione che si riesce a creare, ma perché ti permettono di lavorare con gli spazi in maniera molto concentrata. Una condizione, questa, in cui anche gli oggetti e la loro collocazione possono diventare significativi.
Il rapporto tra lo spazio e le figure in Maternal esprime sempre una precisa dimensione esistenziale. Così, se nella maggior parte dei casi gli interni stretti e claustrofobici sembrano limitare il movimento dei corpi, rimandando a una regola che reprime l’esuberanza delle giovani madri, altrettanto succede con i campi lunghi, in cui l’immensità dello spazio intorno alle protagoniste diventa sinonimo della loro solitudine.
Loro vivono un’ enorme solitudine. Sì, certo, questo effetto dipende anche dal lavoro iniziale, in cui l’assoluta prevalenza di interni serviva a rimuovere la presenza del mondo esterno. Una scelta che influenza anche lo spazio e il tempo, perché è vero che non si sta mai all’esterno così come non si conosce quello che è stato prima e che sarà dopo. In Maternal esiste un’unità di tempo e di luogo molto radicale. Quando, nel corso del film, si verifica un’apertura è per corrispondere a quella -interiore – dei personaggi. In particolare, a quella di Suor Paola che si innamora di Nina, la bambina di Lu.
Infatti la scoperta di questo sentimento corrisponde a quella dello spazio interno dell’istituto. La mdp dapprima lo ignora limitandosi a filmare solo ambienti singoli, poi, con il verificarsi degli eventi di cui hai detto, anche il resto della topografia entra all’interno del quadro.
Sì, anche con delle zone ibride, per cui c’è questa sorta di ballatoio che suor Paola percorre di nascosto, tra la sua stanza e quella della bambina: è un non luogo, un passaggio tra interno ed esterno e, se vuoi, tra l’amore sacro e profano. Questo, fino a quando suor Paola rompe la regola ed esce. La rompe lei e non io come regista, perché noi continuiamo a rimanere nella sua intimità. Cioè, quando si esce all’esterno non c’è un’apertura verso il mondo, ma si rimane per lo più all’interno di lei e delle sue decisioni. Tra l’altro è uno degli unici due momenti del film in cui il suono si fa espressionista. Mentre in tutto il resto è molto documentaristico, lì c’è un momento in cui lei si siede sui gradini per aspettare l’autobus e la bambina gli fa la domanda più amara che potrebbe farle, chiedendole dov’è la sua mamma. In quella scena abbiamo lavorato su una bolla sonora: c’è infatti un momento in cui il suono si fa del tutto artificiale, quelli della città diventano bombati e lontani; per cui in qualche modo siamo dentro di lei. L’altro momento è quello in cui Lu e Fati sono sulla terrazza mentre osservano questo famoso sabato sera che non possono avere. Anche lì il suono è stato fatto in maniera che arrivasse come il rimbombo di un eco lontano. Per cui, sì, visivamente l’idea era quella di avere sempre questa dialettica tra interno/ esterno, in modo da rappresentare le emozioni delle protagoniste, i loro desideri.
Dicevamo di come più suor Paola entra in contatto con quel mondo, rompendo i limiti stabiliti dalle regole all’interno della casa, più la macchina da presa dà conto di quello che prima rimaneva escluso alla vista; e cioè lo spazio coperto dall’andirivieni della protagonista per raggiungere la stanza della bambina. Prima non riusciamo a capire l’esatta ubicazione dei locali all’interno dell’istituto, poi a mano a mano che i sentimenti della suora si definiscono, alla stessa maniera allo spettatore è dato di conoscere lo spazio fisico in cui si svolgono quegli avvenimenti. Anche in questo caso il rapporto tra luoghi e personaggi concorre a raccontare stati d’animo e non detti.
Nei film collettivi il lavoro è indagare come si sposta l’equilibrio e il peso delle azioni tra i vari personaggi. Per cui, dapprima partiamo con la storia delle ragazze, poi il testimone passa a suor Paola, sempre in questo andirivieni di influenze reciproche – perché ovviamente ci spostiamo su suor Paola a causa della fuga di Lu -. A quel punto, lo spettatore ha bisogno di stare con lei, di capire con esattezza quali sono i piccoli movimenti dell’anima, perché questi vengo scanditi da dettagli molto piccoli, che però, all’interno di una regola così rigida, diventano uno scarto enorme. Un semplice bacio spiato dalla madre superiora porta immediatamente a un trasloco di letto (quello di Nina dalla camera di suor Paola, ndr), perché tutto è controllassimo, come si fosse dentro una specie di Grande Fratello. Inoltre, da quel momento, iniziamo a conoscere come lei è considerata dalla sua istituzione. Tra l’altro, la sceneggiatura l’ha letta una suora interpellata dall’attrice; nel tempo è diventata una consulente del film e dopo aver letto il testo mi disse che avevo colto molto bene il forte controllo presente all’interno di questo tipo di istituti. Ci disse come la cosa di cui più soffriva era questa mancanza di privacy, perché non esistono chiavi: le porte non si chiudono mai ed è anche per questo che a me è piaciuto costruire dei piccoli spazi di intimità tra lei e Nina. Anche i giochi tra la suora e la bambina vengono fatti sotto le coperte, a conferma di un desiderio di intimità altrimenti impossibile in quel luogo.
Maternal è anche scandito dall’incontro tra sacro e profano, e sono ancora i corpi a farsene carico, con la carnalità profana delle ragazze contrapposta a quello sacro e virginale di suor Paola. Un rapporto evidente nell’accostamento tra l’estasi della suora di fronte alla statua di Dio e quella altrettanto appassionata di Lu rispetto allo schermo del cellulare in cui campeggia la foto del suo amante.
Sì, è proprio così, ed è interessante perché sono entrambi uomini (ride, ndr). Perché poi mi dicono sempre che nel film non c’è la controparte maschile, mentre io rispondo che le pance delle ragazze hanno tutte dei coautori (ride, ndr). Gli uomini sono un off spazio-temporale potente nel film. É ovvio che si tratta di un luogo al femminile, ma lo è proprio da un punto di vista documentario, perché in questi luoghi non ci sono uomini: però poi la loro presenza è enorme. Tornando alla domanda, secondo me era interessante lo sguardo che Lu rivolge al cellulare.
A un certo punto mi sono chiesta se era più giusto seguire Lu nel suo incontro con il ragazzo, poi mi è stato chiaro che non volevo interrompere l’unità di luogo; consapevole che quel desiderio è molto più potente, se rimaniamo con lei senza avere distrazioni. Così facendo emerge in maniera più chiara come si sviluppa il desiderio femminile all’interno di una società patriarcale, ovvero concentrandoci sui desideri di una ragazzina rispetto a un uomo che la picchia. Per quanto riguarda Suor Paola, lei guarda a questo compagno di vita in veste di sposa di Cristo: lei è in luna di miele. A Lidiya ho detto che il suo sguardo senza parole doveva essere come se entrando in una stanza d’albergo gli dicesse: “ah, guarda che bella stanza”. Lei ha lo sguardo di una che vive la vita di coppia.
Quello che hai detto mi porta ad anticipare una domanda che volevo farti. Nelle discussioni sulla riforma della Chiesa, si parla molto di sacerdozio femminile: con il tuo film in qualche modo provi a dire la tua facendo una cosa molto forte, e cioè rileggendo il Vangelo in chiave femminile. Come il Cristo, suor Paola giunge sulla terra, in questo caso rappresentata dalla comunità religiosa, si incarna, e lo vediamo quando a un certo punto si toglie le vesti e il velo esponendo nudità fin lì inedite, per poi non venire riconosciuta dai suoi simili che la condannano come era successo a Gesù di Nazareth.
É sempre bello parlare con persone come te, perché poi ti rivelano precisamente questioni su cui hai lavorato anche in maniera inconscia. Sì, sono d’accordissimo; in questo senso davvero Maternal è un film sul corpo e quello che dici tu, i suoi capelli, il suo viso, a cui non abbiamo accesso, ci vengono mostrati attraverso lo sguardo di Nina. La prima volta a spogliarla è la bambina. Spesso si è parlato del desiderio sessuale delle suore. Io credo che quando arriva al convento per lei la questione è già risolta. Suor Paola ha deciso che quella non è una priorità, mentre non si è mai interrogata prima sulla maternità: per alcune suore molto giovani il desiderio di maternità avviene più avanti. Si tratta di una questione non valutata, che invece a un certo punto si può far sentire con un desiderio quasi fisico. Per cui, quando ho iniziato a pensare al film, mi chiedevo cosa potesse succedere a queste suore prendendo in braccio i bebè: il contatto con questo corpo caldo è una roba potente. Quello che succede a suor Paola è che, essendo la maternità il suo oggetto del desiderio, quando colei che la tenta è una bambina, lei abbassa completamente le difese. Se fosse stato un uomo che arriva di notte, chiedendogli di dormire con lei, avrebbe rifiutato senza problemi. Al contrario, se una bambina ha bisogno della sua protezione, la lascia entrare. Quella tra Suor Paola e Nina rimane comunque la notte di due amanti, quelli rimangono comunque due corpi abbracciati. É una cosa che ti entra dentro, per cui questa corporalità è anche una sorta di rivendicazione della potenza del corpo.
Restando nello stesso ambito, Maternal ci ricorda come accanto al sacrificio della castità maschile ne esista uno altrettanto forte in chiave femminile, che è appunto quello della rinuncia alla maternità. Nelle discussioni quest’ultimo è stato cancellato, mentre il tuo film ha il merito di rimetterlo al centro della questione.
Questo è legato a quello che stiamo cercando di cambiare, e cioè una visione dell’erotismo e della sessualità intesa tutta al maschile, a cui le donne continuano a essere legate di riflesso, mentre in realtà sono esseri umani identici agli uomini. Semplicemente sono costruzioni culturali che ingabbiano le donne e che peraltro fanno malissimo anche agli uomini. La parità renderebbe tutti più felici. Avremmo una vita più gioiosa e serena (ride, ndr); però sì, ovviamente in questo purtroppo l’istituzione religiosa esacerba questa differenza.
Maternal è davvero e senza falsi riferimenti un film originalmente pasoliniano. A differenza di altri, che lo sono solo in superficie, il tuo non si limita a riprenderne la lezione nella peculiarità della fenomenologia socio ambientale, come pure nella predilezione per l’istintualità senza mediazioni del contesto umano. A surrogare il modello in questione ci penso una convergenza tra alto e basso in cui la laicità del soggetto è resa sacra vede dalla vertigine dei riferimenti pittorici e dalla plasticità della figura che li compongono.
Guarda, a me quello che sta a cuore è la dignità delle persone e dei personaggi. Se c’è qualcosa che mi commuove è la dignità degli uomini, degli umili, di chi si trova in una situazione complicata; per cui il mio sguardo da persona e da regista cerca questo e lo trova. A volte, invece, ci confrontiamo con sguardi più pregiudiziali, più, come dire, paternalistici, responsabili di una serie di film di porno miseria in cui troviamo il pietismo di chi guarda le persone dall’alto. Per me invece ci deve essere una vera aderenza ed è anche il motivo per cui prima di filmarli, vivo in quei luoghi e quando vi lavoro cerco le parti di me che sono lì. Preparando Maternal mi sono ricordata di essere esattamente come loro da adolescente. Al di là di essere madre, questo c’entra con l’universale ed è molto più potente e importante. Abbiamo sempre la tendenza a sottolineare le differenze invece delle comunanze, quando in realtà questo per me voleva essere un film pieno di umanità. Per tale ragione poi la gente entra in empatia con il film, perché non la porto ad avere pietà dei personaggi, ma la mia speranza è di far sentire lo spettatore partecipe della loro situazione, condividendone la lotta. Come tutte le adolescenti il personaggio di Lu è un po’ irritante: gli devi sbattere le cose in faccia per fargliele capire, Poi, però, quando sente che potrebbero sottrarle la figlia dice una frase – “Nina è tutto quello che ho” – davvero commovente. In quel momento si compie il salto, perché Lu davvero si trasforma in una leonessa. Questo non vuol dire che si redime, con il finale happy end in cui il personaggio ha capito la lezione. Lu continuerà a fare una serie di cavolate tremende, però c’è un passaggio di dignità che le fa dire: “no, la madre sono io; la faccio male, sono imperfetta ma adesso vi faccio vedere cosa so fare”.
Tra l’altro le fai cambiare espressione, perché quella di Lu alla fine del film appare diversa da come l’abbiamo conosciuta.
Il mio atteggiamento è quello di valorizzare questa dignità attraverso un rispetto dello sguardo; per cui invece di indugiare su una serie di questioni morbose di cui avrei potuto fare man bassa, avevo idea di fare sempre un passo indietro, di spiare le cose da una porta e di lasciare le protagoniste alla loro intimità: come succede, per esempio, dopo che Fati ha partorito la sua bambina. In quel momento mi sento molto suor Paola, e come fa lei, chiudo la porta alla mdp.
A proposito di dignità, il tuo modo di filmare i primi piani sembra un modo per restituirla ai personaggi. In un cinema dove i volti dei protagonisti sono quasi un riempitivo, Maternal ne fa lo strumento psicologico ed esistenziale. I primi piani di Suor Paola pulsano di energia e di autentica commozione, facendo venire a galla il fiume di sentimenti che albergano in lei.
Se vuoi, anche il primo piano ha in sé un’enorme artificio, di cui bisogna essere consapevoli, poiché stai dando allo spettatore una lente di ingrandimento talmente potente che se la usi con leggerezza rischi di ottenere l’effetto contrario. Per me era importante soprattutto nei momenti in cui abdico alla parola, alla spiegazione. All’attrice avevo detto che mi avrebbe dovuto raccontare tutto con gli occhi, portare veramente il cuore sulla pelle. Quando a suor Paola danno i voti perpetui lei è già innamorata di Nina, e il saluto della bambina amplifica le sue contraddizioni interiori. Quello che ha sempre desiderato sta per compiersi, ma lei non è più sicura di esserne felice. Lì, in quel primo piano, l’attrice è stata bravissima, perché doveva far venire fuori anche la vergogna e l’imbarazzo: è accanto alla madre superiora per cui sta veramente cercando di barcamenarsi in un mondo di cui è una figura ponte. Si trova in mezzo e non sa più in che direzione andare: se proseguire, o tornare indietro. Nel dialogo finale tra Lu e Fati c’è un momento in cui la prima si confessa dicendo di non sapere perché continua a fare sempre stupidaggini. In quel momento io per prima ho una grande empatia con lei, perché è qualcosa che non ha solo a che fare con l’enorme vulnerabilità e difficoltà della sua vita, ma riguarda aspetti più banali, tipici delle persone impulsive.
In questo senso Maternal è rigoroso nel restituire la complessità dei personaggi: come dicevi suor Paola, pur fuggendo con la bambina, non è sicura che quella sia la cosa giusta da fare. Per cui nella sequenza finale, che riprende quella introduttiva, tu inverti le posizioni delle protagoniste, perché ora è suor Paola la ribelle, mentre Lu – che ha preso il suo posto all’interno della macchina – la guarda con l’espressione di chi non sa cosa aspettarsi dal futuro. La stessa che ha suor Paola a inizio film.
Se tu pensi al primo incontro tra suor Paola e Lu, quando lei arriva nella stanza e la ragazza iper-truccata sta uscendo per andare dal fidanzato con tanto di minigonna stratosferica, sembrano davvero due pianeti diversi. Al contrario, quando suor Paola le riporta la bambina, lì c’è uno sguardo in cui la stessa Lu ha abbandonato ogni bellicosità. C’è un riconoscimento reciproco delle ferite altrui e credo che sì, come dici, in qualche modo Lu si sta prendendo le responsabilità di madre mentre l’altra ha appena fatto un gesto di grande trasgressione, come dimostra lo sguardo severo della madre superiora. Allo stesso tempo, credo che suor Paola rimanga con un grande dubbio dentro.
Era importante che i personaggi facessero un passo all’interno della propria relazione con la maternità, senza però garantirsi la certezza di una risposta, perché purtroppo la vita è molto più complessa. La stessa Fati, che ha un carattere più ermetico, in altri film, dopo la nascita dell’ultimogenito, di colpo avrebbe riabbracciato i suoi figli, mentre non è così perché una maternità frutto di violenza ha bisogno di anni per poter guarire. Per lei e per le altre si tratta di fare tanti piccoli passaggi di accettazione. Per me era già importante che ce ne fosse un primo. Già in fase di sceneggiatura, a volte l’industria ti chiede di lavorare in maniera più netta, avendo sempre molta paura dell’ambiguità, della stratificazione: io lotto con tutto le mie forze per evitarlo perché trovo siano scorciatoie che non rispettano il reale a cui invece aspiro. Come diceva Roberto Rossellini il realismo è la dimensione artistica del reale: questo per dire che non si tratta di limitarsi a registrare la realtà ma di tornarvi attraverso un lavoro più complesso.
Nell’inquadratura finale le ragazze sono una di fronte all’altra; dunque rispetto alla scena iniziale c’è un cambiamento in cui però tu scegli di farle vedere ognuna all’interno della propria scena, a significare che l’avvenuto legame non cambia il fatto che la loro vita continuerà ad avere direzioni diverse.
Sì, perché anche lì ho voluto evitare un finale consolatorio, mostrandole abbracciate. Che poi era una delle cose che mi era stato chiesto di fare. Ovvio che per me c’è una grande vicinanza tra loro due, un grande rispetto reciproco; poi però le paure più profonde se le devono risolvere da sole.
A proposito di sacro e profano e di pari dignità, ti volevo chiedere di quella bellissima sequenza in cui suor Paola e Nina stanno insieme sul letto e tu le inquadri come a voler ribadire lo stesso diritto alla vita da parte di entrambe. In questa, come in altre, sono evidenti riferimenti pittorici o almeno la collocazione delle figure rispetto allo spazio e la loro plasticità fa pensare che tu ne abbia avuti.
Sì e no, nel senso che a me piacciono molto la pittura e la fotografia fissa; quindi credo che quelle scene siano frutto del fatto che uno se ne ciba per anni e poi le ha dentro di sé. A volte, addirittura ne scopri la presenza a posteriori. Per risponderti, penso non ci siano citazioni dirette; forse però alcune di esse risentono di Piero della Francesca, della commistione tra sacro e profano tipica della sua pittura, e delle sue geometrie. Un paio di immagini erano più caravaggesche, ma poi non sono state incluse nel montaggio. Certamente c’è una piccola Pietà michelangiolesca nella cappella con Paola seduta per terra che tiene in braccio Nina. Se devo dire credo si possono riconoscere più riferimenti pittorici che non direttamente filmici.
Maternal è solo l’ultimo dei film prodotti dalla Vivo Film la cui caratteristica è quella di presentare storie in cui le autrici aiutano a guardare il mondo in maniera differente. Parliamo di un cinema al femminile che ci fa osservare la realtà a cui siamo abituati in maniera diversa, come se la vedessimo per la prima volta.
Penso che a quelli di Vivo film faranno molto piacere le tue parole. In realtà si tratta di una coproduzione tra loro e Dispàrte: quest’ultima è una produzione di ragazzi giovani che ha lavorato duramente e la Vivo Film ha portato un’esperienza lunga di anni e dunque la capacità di scegliere progetti di questo tipo. Dopodiché diventa un circolo virtuoso, nel senso che loro cercano certi tipi di film e registi con un certo sguardo cercano loro, per cui la linea editoriale diventa sempre più ricca e coerente. Quello che fanno bene Marta Donzelli e Gregorio Paonessa, a cui sono molto grata, è il rispetto per l’autore. Ci sono state tante discussioni, ma loro mi hanno lasciato libera di prendere le mie decisioni, che per me era la cosa più importante dal punto di vista autoriale. Ho fatto delle scelte di cui loro non sempre erano d’accordo ma hanno capito che c’era una voce da ascoltare. Nel senso che il mio, come tutti i film d’autore, non è stato il risultato di un’assemblea popolare in cui tutti dicono la loro(ride, ndr). La matrice autoriale passa anche dal rischio per cui un film può essere solo quello di Maura Delpero o di Michela Occhipinti, e mi riferisco a Il corpo della sposa. Alla Vivo Film va riconosciuto il fatto che i registi possono fare il proprio film, che poi è la cosa più importante. Sono anche molto contenta della distribuzione di Lucky Red, perché né io né l’attrice siamo conosciute; dunque hanno dimostrato coraggio e coerenza con la loro vocazione fondativa nel distribuire un film come il nostro. Però, per com’è andato nel resto del mondo, credo che Maternal abbia il potenziale per avere un suo pubblico.
Nei panni di suor Paola Lidiya Liberman è stata straordinaria nel dare corpo e voce al suo personaggio.
La rosa tra cui ho scelto era piccolissima, perché mi sono subito resa conto che erano pochissime le attrici che avrebbero potuto interpretare un ruolo di questo tipo. É una questione millimetrica, basta aggiungere qualcosa in più e tutto diventa inverosimile, perché la radicalità della vocazione è difficile da comprendere per noi laici. In Lidiya ho trovato una sorta di mistero per cui l’ho scelta per come portava questo enigma davanti alla mdp. Penso sia una cosa innata che mi era già capitato di apprendere nel documentario che ho fatto sulle donne dell’Est. Mi piaceva molto questa capacità di stare senza dover fare, di sostenere la telecamera con la schiera dritta e senza esposizione, e io avevo proprio bisogno di questa capacità di sottrazione. Con Lidiya abbiamo lavorato per trasformare tali caratteristiche in codice. Soprattutto nella prima parte del film è stata bravissima a rendere un percorso sottilissimo, ma molto potente, come quello di spogliarsi fisicamente e metaforicamente, riscaldarsi come può farlo una mamma restando però sempre una suora; cosa che almeno fino ad oggi è ancora una contraddizione. Lei mi faceva molte domande, sembrava una giornalista, prendeva penna e carta e trascriveva tutto. Lidiya aveva già avuto un bellissimo ruolo nel film di Marco Bellocchio (Sangue del mio sangue,ndr). Però credo che non abbia ancora avuto quello che si merita. Sono stata felice del suo lavoro e ancor più di averla scelta.
Parliamo dei tuoi modelli cinematografici. Di cosa ti piace e ti ispira.
Non ho un regista preferito; sono onnivora e allo stesso tempo molto selettiva: amo il cinema est europeo, russo e sudamericano, più che quello statunitense. Di quest’ultimo mi piacciono poche cose, perché ha un modo di narrare che non prediligo. Pensando all’Italia, effettivamente ci sono alcuni autori del neorealismo che amo e sono ovviamente dentro di noi: parlo di Vittorio De Sica a del primissimo Ermanno Olmi. Mi piace molto Ingmar Bergman e dei contemporanei Michael Haneke. Poi ci sono alcuni film di certi autori di cui magari non amo tutta la filmografia, ma un film mi tocca particolarmente: penso a Luz Silenciosa di Carlos Reygadas o ai primi film di Jane Campion. Di Lucrecia Martel mi piace molto il suo modo di stare al mondo, la sua poetica e il suo modo di difendere certi pensieri cinematografici; Pablo Larrain è un autore interessante, soprattutto nei primi lavori in cui rifletteva sulla dittatura cilena. Andrey Zvyagintsev (Leviathan, ndr) è un autore che i russi non amano molto, ma che a me è sempre piaciuto parecchio. Poi, ovviamente, se andiamo indietro, Andrej Tarkovskij. Dunque, se ti devo dire, non ho autori inamovibili, forse anche per via della mia formazione fatta di riferimenti più letterari, pittorici, fotografici. Non ho studiato cinema. la mia scuola di cinema sono stati i giorni trascorsi nelle sale della Cineteca di Bologna a vedere cose bellissime.