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I poeti sono il modello, non i segretari di partito. I Cento Passi: conversazione con Marco Tullio Giordana

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Chiamato a inaugurare la 21/ma edizione del Sudestival  – Il Festival lungo un inverno, il ventennale de I Cento Passi è stata l’occasione per tornare a parlare di un film entrato a far parte dell’immaginario popolare; di seguito la conversazione con Marco Tullio Giordana.

Il ventennale dell’uscita de I Cento Passi evoca l’alba del nuovo millennio e con essa i venti di crisi che caratterizzarono il passaggio dal vecchio al nuovo secolo. In questo senso, mi sembra che per ciò che racconta, la tua sia un’opera emblematica dei cambiamenti in atto in quel periodo o, meglio, dell’annunciarne la venuta.

Di quello, ma anche di toccare un tema poi diventato centrale, almeno per noi, come lo è la maniera di reagire all’affermazione e al dominio della criminalità, soprattutto nel caso in cui se ne faccia parte per ragioni di famiglia. La cosa che mi aveva attratto nel fare il film era che questa rivolta non nasce fuori ma all’interno della famiglia mafiosa, della quale, per intelligenza e brillantezza già così evidenti sin da bambino, Giuseppe Impastato sarebbe potuto diventare il boss. Al contrario, Giuseppe si ribella ai genitori e alla cultura che ha intriso il contesto in cui vive, esponendosi con grande coraggio e con grande invenzione.

Dico questo perché si tratta di una storia vera, collocata nel pieno degli anni Settanta e, dunque, nel mezzo di quella fibrillazione sessantottina durante la quale la gioventù era intenzionata a cambiare le cose in un modo allegro, non triste, grigio, sovietico, ma colorato, guardando più ai figli dei fiori che alla violenza truce del terrorismo. In Peppino tutto questo si traduce nella fondazione della radio nata per ridicolizzare i mafiosi. Lui fa qualcosa che nessuno aveva mai osato fare prima, cioè metterli alla berlina. Penso che si tratti di un film molto attuale perché purtroppo la presenza della criminalità non ha smesso di infestare il nostro paese.

Per molti versi I cento passi è un’opera visionaria. Se i fatti del G8 di Genova accadevano nel 2001, un anno dopo la sua uscita, il coraggio e l’afflato morale di Impastato precorre quello di altri eroi del nostro tempo: da Falcone e Borsellino ad Antonio Livatino.

Si, l’azione di Impastato assomiglia a quella di tutte le persone spinte a combattere la degenerazione mafiosa da una fortissima motivazione ideale. La convinzione con cui lo fa il nostro è così forte da renderlo simpatico e farne un modello nel quale è possibile identificarsi. Questo forse spiega la vitalità del film e il fatto della sua riproposizione nelle scuole e in molte altre manifestazioni. Rivedendolo assieme agli studenti, mi accorgo che non ha perso smalto: alcuni lungometraggi invecchiano, mentre devo dire che avendolo rivisto ieri sera la sua longevità è come quella di Dorian Gray per cui il tempo sembrava non passare.

A proposito di popolarità, a Roma c’è una famosa trasmissione di calcio, Gol di notte, condotta dal giornalista Michele Plastino, in cui la scena dei (cento) passi percorsi dal protagonista insieme al fratello per arrivare alla casa del boss serve a introdurre una rubrica del programma il cui intento è dire cose che in altre trasmissioni non possono essere pronunciate. Non so se ne eri a conoscenza?

Non lo sapevo, però mi fa piacere, perché vuol dire che il film non parla solo ai militanti anti mafia ma rende partecipi un po’ tutti. È una cosa giusta perché si tratta di una battaglia che non può essere vinta da una minoranza. Bisogna essere tutti convinti di poterlo fare.

È la testimonianza di come il messaggio del film sia stato in grado di andare oltre il cinema per diventare patrimonio comune e, più in generale, sinonimo di un modo di essere e di pensare.

Si, è una cultura, non è solo una parola d’ordine o, ancora peggio, un semplice slogan.

Il film, e più in generale il tuo cinema, risponde all’incertezza dei tempi, proponendo un esempio di gioventù che tenta di cambiare il mondo sulla base di ideali improntati alla verità e all’azione. Pasolini – un delitto italiano, I Cento Passi e poi La meglio gioventù sono i tasselli di una trilogia segnata dalla presenza di poetiche e temi comuni, a cominciare dal testamento umano e artistico di Pier Paolo Pasolini.

La cosa curiosa è che tra Pasolini – Un delitto italiano – uscito nel 95 – e I Cento Passi ci sono cinque anni di inattività dovuti alla crisi attraversata dal cinema italiano. Il film su Giuseppe Impastato è stato fortunato da subito, fin dalla sua presentazione a Venezia, nel 2000, il che mi ha poi portato a fare molto rapidamente La meglio gioventù. Come dici giustamente tu, sono tre film che nascono da un unico ceppo. Poi, come sai, dopo molti anni ho fatto Romanzo di una strage, che appartiene allo stesso filare degli altri. Sono tutti alberi di uno stesso campo.

La gioventù, intesa come età delle grandi utopie, la messa in discussione dello status quo, attraverso la militanza ma anche l’incapacità delle ideologie politiche di corrispondere ai bisogni reali delle persone e, non ultima, la proposta di una bellezza capace di migliorare la comunità: I cento passi contiene molti dei temi con cui da sempre ti confronti.

Si, a mio avviso, la questione della bellezza è la parte più visionaria del film, quella in cui Impastato va molto più in là della semplice analisi militante e del discorso della lotta di classe. La riflessione sul perché bisogna essere rivoluzionari va di pari passo con la consapevolezza che la bellezza sia qualcosa di cui tutti possono godere e che la politica sia lo strumento per poterci arrivare. In questo senso, anche i personaggi de La meglio gioventù sono simili a lui, rivoltosi e individuali, insofferenti alle organizzazioni e alle semplificazioni. Spesso anche in rivolta con le idee da loro stessi professate; inquieti, non pacificati e però allegri.

Nella scena più iconica del film parli di come l’assuefazione al male ci faccia dimenticare la necessità della bellezza. Da questo punto di vista, spieghi anche quale sia la strada per potersene riappropriare. Uno dei modi è quello di fare come dice il “compagno” Majakovski, pronto a incitare gli uomini di partito e prima di tutto se stesso a tornare sulla strada e a stare in mezzo alle persone, evitando di approfittare dei privilegi della propria condizione.

Certo, esattamente, il modello sono i poeti e non sono i segretari di partito. Ma se vuoi questo è l’insegnamento che parte anche da Pasolini. Ai funerali di quest’ultimo Moravia disse che il poeta dovrebbe essere sacro e in effetti lo è, perché ci mette in contatto con l’assoluto più di qualsiasi altro.

Marco Tullio Giordana

Nella prima scena, ambientata nel bel mezzo di una festa di famiglia, ci presenti Impastato ancora bambino: dalla sequenza, culminante nella sua declamazione della poesia di Leopardi, si evince come fin da piccolo il protagonista sia già una voce fuori dal coro. L’infinito leopardiano scelto da Peppino si oppone alla finitezza degli argomenti oggetto di discussione del sodalizio mafioso, al quale per ragioni di nascita appartiene anche il protagonista.

È vero, e allo stesso tempo la passione delle parole pronunciate da quel bambino fa si che tutti gli appartenenti alla consorteria mafiosa ne siano sono toccati.

Non li lascia indifferenti.

Nessuno di loro è in grado si seguire quelle parole. D’altro canto l’evento li mette di fronte a qualcosa che non possono ignorare, e cioè come dietro a quella recita ci sia un’idea e una persona diverse da loro. È un momento del film che mi piace molto.

Tu hai sempre fatto un cinema d’autore capace di sposarsi con quella matrice popolare a cui oggi guardano anche registi di grande livello, a cominciare dal Marco Bellocchio de Il Traditore. Le tue sono grandi narrazione in cui l’approfondimento dell’analisi non abbassa il livello di empatia nei confronti del pubblico. I cento passi mi pare sia una sintesi di ciò di cui si sta parlando?

So che sembrerà strano, ma il mio modello è stato sempre Hitchcock, che al massimo della raffinatezza accosta il massimo della popolarità. Per me il termine popolare è un complimento e insieme una ricerca. Il poeta non parla ai propri simili o al vuoto di una stanza, ma guida gli eserciti e le persone, quindi ho sempre pensato di fare film per gli spettatori; non li ho mai esclusi dal mio orizzonte cinematografico. D’altronde, il cinema è un’impresa troppo complicata per farla per sé. Per sé non c’è bisogno di fare niente.

Il film inizia con un fastoso pranzo di famiglia, che è un luogo tipico dei mob movie. Così capita ne Il Padrino di Coppola, così si apre Il traditore di Marco Bellocchio.

Una festa, eccome no, è già un grande momento sociale in cui c’è l’affermazione collettiva dei vari caratteri. Pensa a Il traditore e a quella foto in cui si vede Toto Riina nascondersi la faccia con una mano. Si tratta di una presentazione molto forte proprio perché deve rivelare da subito i connotati di quel contesto, basato su legami famigliari e non societari. Nelle immagini si dice che la contiguità del sangue è garanzia di lealtà e che la povertà da cui tutto ha avuto origine è oramai dimenticata. È come se in esse i protagonisti rivendicassero una sorta di pseudo giustizia ancestrale e il loro bisogno di affermazione. Il pranzo rappresenta tutto questo, al contrario della voce del bambino, pronta a riferire qualcosa che lo ha colpito a scuola: probabilmente la maestra gli ha fatto leggere Leopardi e lui lo ha fatto suo in men che non si dica.

Marco Tullio Giordana

Nel film ci sono almeno tre scene destinate a rimanere nel cuore dello spettatore, anche a distanza di vent’anni. A parte quella del conteggio dei passi che separano la casa del protagonista da quella del boss, c’è l’incontro tra Peppino e la madre, la cui intesa viene sancita dalla poesia di Pasolini, letta dalla donna, e, non ultimo, il colloquio tra il ragazzo  e Tano Badalamenti. Sono tre scene bellissime sotto tutti i punti di vista.

Si, hai ragione. Non dovrei essere io a dirlo, però avendolo rivisto ieri sera ho avuto la riprova di come i film con il passare del tempo non ti appartengono più: così oggi è come se I cento passi lo avesse fatto un’altra persona, perché purtroppo o per fortuna si cambia, si cresce, ci si evolve anche se meno rispetto a quando si è ragazzi. Questo ha creato in me quel distacco necessario a guardare al mio lavoro con obiettività e, quindi, a considerarlo senza essere di parte. Delle scene da te menzionate mi ha colpito l’enorme forza espressiva degli interpreti.

L’incontro di Impastato con Tano Badalamenti ha una forza drammaturgica dovuta in parte alla costruzione della sequenza. In particolare, scegli di ambientarla di notte e all’insegna di un realismo poi destabilizzato da un espediente di montaggio volto ad alimentare il sospetto che non si tratti di un evento realmente accaduto ma di un sogno del protagonista. Mi piacerebbe sapere qualcosa di più in merito a questo.

Quella scena è una specie di doppio incubo e anche un grande artificio del mio montatore, Roberto Missiroli, perché è come se la dimensione di realismo in cui si svolge il discorso del boss venga rotta dal cortocircuito visivo in cui dapprima Peppino immagina il primo piano di sé morto e successivamente, al termine del colloquio, scopre che la visione precedente si riferiva al momento prima del suo brusco risveglio. Da quel punto in avanti non possiamo più dire con sicurezza se ciò che abbiamo visto sia davvero accaduto oppure sia il frutto di un incubo. Peppino potrebbe averlo sognato, ma allo stesso tempo potrebbe trattarsi di una scena esistita ma riportata sullo schermo con il senso di angoscia sperimentato dal personaggio. È una specie di costruzione di un abisso che, come hai detto, è giusto definire destabilizzante.

La scena del titolo, di certo la più iconica, è la sintesi di ciò che volevi dire attraverso il film e di quello per cui Peppino è pronto a lottare. Qual è la sua origine? 

Quella era stata scritta così da Monica Zappelli e Claudio Fava e io l’ho ripetuta senza alcuna modifica. Era stata creata in maniera perfetta: si rifaceva al titolo del film e aveva il dono di far capire benissimo la convivenza e la coesistenza con la mafia; addirittura la misurava, inventandosi un modo per materializzare questa adiacenza.

L’astrazione con cui di solito si parla di queste cose ha il potere di allontanare la responsabilità che abbiamo nei confronti di esse. La concretezza di quell’adiacenza rimette le cose nel giusto posto, ricordandoci che anche noi, in un modo o nell’altro, ne siamo parte in causa.

Si, certo, sono d’accordo con te.

A un certo punto, ti riferisci in maniera esplicita a Mani sulla città di Francesco Rosi. In particolare, ti soffermi su un frammento in cui leggiamo che fatti e personaggi del film sono immaginari, mentre autentica è la realtà sociale e ambientale. Tu spesso amalgami il documentario alla finzione; altre volte invece le due forme narrative intervengono in maniera distinta.

Questo utilizzo plurilinguistico succede anche qui con le sequenze dedicate ai fatti di via Fani e, in generale, con i tributi esterni al film. In altri frangenti tale metodo è stato più centrale, e mi riferisco a Pasolini – Un delitto italiano e a Romanzo di una strage. Addirittura qualche volta ho falsificato il repertorio, cioè l’ho girato io e l’ho stampato in bianco e nero. In un passaggio I cento Passi diventa in bianco e nero perché cessa di essere finzione per diventare materiale di repertorio. Mi piace la possibilità di dare allo spettatore sensazioni diverse operando sul colore e sull’esposizione. È come se a un certo punto il film iniziasse a parlare in corsivo.

In questo senso, hai messo tanto cinema nel raccontare la storia di Peppino Impastato e, ancora, parlando degli attori fai esordire Luigi Lo Cascio, il quale, con l’aiuto di colleghi del calibro di Maria Luigi Burruano e Tony Sperando, si rende artefice di una performance destinata a rimanere nella memoria.

La sceneggiatura era molto precisa; non essendo siciliano, quando ho fatto il film mi sono molto affidato a quella, così come ai collaboratori e ai tecnici che avevano conoscenza diretta con i fatti raccontati. Non mi sono preso delle libertà, nel senso di inventare e di “danzare” intorno a questa storia. Ho pensato che dove potevo fare qualcosa di nuovo era nella scelta del cast: poiché in Italia Peppino Impastato prima dell’uscita del film era pressoché sconosciuto, ho pensato di creare sorpresa evitando di farlo interpretare a un beniamino del pubblico che avrebbe portato nella storia la sua identità. Avevo intenzione di trovare un giovane talento e ho avuto la fortuna di incontrare Luigi Lo Cascio.

Appena l’ho visto ho capito subito che sarebbe stato lui a interpretare il protagonista, non tanto per una somiglianza fisica, quanto perché vedevo e sentivo negli occhi e nella persona di Lo Cascio l’effetto delle letture fatte a suo tempo da Peppino. Citando dei libri nei tanti provini fatti, vedevo che gli attori mi guardavano sorridendo, ma senza evocare lo sguardo che per Lo Cascio era frutto di una passione letteraria sviluppata dalla tenera età e molto simile a quella del suo alter ego cinematografico. Per questo la sua non sembra la prestazione di un debuttante ma l’interpretazione di un attore ormai consumato. È come se lui sapesse già  i trucchi del mestiere e, come succede ai grandi, riesce a essere anziché recitare. Questo è più o meno quello che hanno fatto tutti gli altri, perché anche il resto degli interpreti si è mantenuto su questa chiave.

Sperandeo e Burruano mettono in scena due grande figure tragiche.

Sono entrambi attori eccelsi. Ho pianto molto alla morte di Maria Luigi che è uno dei più grandi con cui ho lavorato. Sono due figure tragiche e, in un certo senso, verdiane, perché Verdi i suoi personaggi negativi li comprende sempre. Ecco, questo è un altro dei modelli del film. Non tanto il melodramma ma Verdi, la cui capacità è di stare dentro ciascuno dei personaggi che mette in scena.

L’ultima domanda mi dà modo di menzionare l’importanza del montaggio, determinante nella sequenza in cui il bambino lascia spazio all’uomo. La sovrapposizione delle bandiere comuniste sulle faccia del Peppino adulto è come se ne sancisse una nuova coscienza, opposta alla cultura mafiosa e improntata alla militanza politica e sociale sottolineata dall’espediente dei vessilli comunisti.

Lì, secondo me, capita una cosa molto forte di cui ogni volta mi commuovo. Succede quando sento dire a quel bambino: “Ma chi era il compagno Majakovskij?” e ancora, rispondendo “Raccontala” all’interlocutore che gli aveva detto: “È una storia lunga”. Il mentore evidentemente gliela racconta e lo fa diventare quell’altro. Dopo quella domanda lui cresce di circa quindici anni, diventando adulto. Perdiamo quel bambino meraviglioso ma guadagniamo Lo Cascio.

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  • Anno: 2000
  • Durata: 114'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Marco Tullio Giordana