Buio, intervista alla regista del film Emanuela Rossi
Buio non fa nulla per nascondere la sua affiliazione ad alcuni dei capolavori di genere, quali The Others e The Village ma, al tempo stesso, non rinuncia a scriverne un nuovo capitolo all'insegna di un cinema personale e d'autore. Presentato in anteprima ad Alice nella Città, dell'originalità del film abbiamo parlato con la sua regista, Emanuela Rossi
La prima parte del film è caratterizzata da tempi lunghi, piani fissi e carrellate laterali in cui come nel Necronomicon prendi in esame una dopo l’altra le facce esangui e prive di vita delle giovani protagoniste e del loro padre. Da una parte sembra avere a che fare con un manipolo di sopravvissuti, dall’altra lo schiacciamento dell’immagine e le espressioni dei visi rimandano a una dimensione mortifera della vita.
Nel lavoro precedente che ho fatto, coregista alla serie tv Non uccidere di Rai 3, ho girato spesso, anche per una settimana di seguito, nell’obitorio di Torino e un’esperienza del genere non può non restarti attaccata. Ma anche nel mio primo cortometraggio (vincitore di Arcipelago e in cinquina ai Nastri d’Argento e ai David di Donatello) non è che non ci fossero questo tipo di visioni. Diciamo che sono un’appassionata di arte contemporanea, di quel tipo d’immagine iperrealista che viene dall’Espressionismo tedesco e poi ripresa da grandi come Lucien Freud e Francis Bacon, in cui si guarda all’essere umano in modo analitico, lo si scruta, cercando di vedere non solo l’aspetto esteriore, ma anche l’anima. Poi, certo, sono anche una cineasta e mi piace il bello. Non proporrei mai un’immagine di una persona davvero brutta, specie se è una donna. Ti faccio un esempio. C’era la Mamma della storia distesa a terra (è un thriller, non posso svelare troppo) ed era bruttissima perché era troppo bianca, la truccatrice giustamente le aveva messo del trucco mortifero. Non ero soddisfatta. Era tardi, faceva freddo ma ho pensato che Hitchcock non l’avrebbe mai accettato e l’ho fatta ritruccare, le ho fatto mettere del rossetto rosso. Insomma, ho seguito la strada del cinema americano classico, che imponeva alle dive un trucco perfetto in qualsiasi situazione, anche la più terribile.
Nel tuo film ci sono parecchi riferimenti al cinema classico americano, per poi andare avanti fino a The Village.
Beh, una cosa che mi ha molto colpito, iniziando a scrivere questa sceneggiatura, è che pensando necessariamente alla mia infanzia – la storia parla di tre bambine piccole, tre sorelle, quindi era inevitabile – invece di venirmi in mente ricordi personali pensavo ai film che vedevo allora in tv, l’Hitckcok di Rebecca la prima moglie o Vertigo,appunto, ma anche altri, tipo Jacques Tourner de Il bacio della Pantera o il Wolf Rilla de Il villaggio dei dannati. Come se alla fin fine la visione di quei film sia stata più importante per me, più incisiva delle mie vere vicende personali, o si fosse mescolata ad esse fino a che non distinguessi più l’una dalle altre. Beh, senza andare nel paradosso posso dire che il cinema mi ha salvato parecchio da bambina, mi ha dato una ragione di vita e quindi ora restituisco quello che mi ha dato. Quanto a The Village, io non l’ho visto. Ma di sicuro ci saranno delle connessioni, perché peschiamo tutti in un immaginario comune, che è quello della sensazione della minaccia globale che vive l’uomo moderno.
La madre è idealizzata perché fa da spartiacque nell’ambiguo rapporto tra padre e figlie. In questo caso, il rosso della labbra rimanda al fatto di sangue che precede l’inizio della storia e che in qualche modo determina lo stato delle cose.
Beh, sì, nel film la bellezza delle donne è una specie di fatal flow, dipeccato originale. La prima scena è un omaggio un po’ biblico alla bellezza di Stella (Denise Tantucci). Una bellezza che viene però insidiata, repressa dall’uomo, che ne è stregato ma la teme e la distrugge. Il Padre tiene chiuse le figlie e per questo le costringe a sognare, a idealizzare la bellezza. Le immagini della Mamma al lago. Le immagini della Mamma, bella anche se morta. Loro vivono per queste immagini. La Mamma per loro è un raggio di sole.
Infatti, riprendi la Madre spesso attraverso una luce contrasta con quella del sole che si riflette all’interno della obiettivo.
Continuavo a ripetere a Marco Graziaplena (il direttore della fotografia, ndr) e all’operatore: ragazzi, il fleur sulla mamma! Lei (Elettra Mallaby), come hai visto, indossa un costume da bagno giallo e una camicia gialla (lo stesso costume che poi si rimette Stella), perché la Madre è gialla, è la luce. Su questo sono stata inflessibile, l’ho voluta bionda anche se le bambine sono more. Si vede che hanno ripreso dal padre.
Quindi nel film i colori hanno quasi un potere salvifico.
Lo diceva Goethe, mica io. Ho pensato che delle bambine che soffrivano così tanto non meritassero le classiche atmosfere desaturate del cinema d’autore. A loro non sarebbero certo piaciute, loro vivono per quei colori. Infatti, quando c’è il Padre si vestono da educande. Ma poi quando sono da sole anche nei costumi i colori esplodono.
Anche la scenografia della casa è molto curata.
Con lo scenografo Massimo Santomarco ho cercato di creare quasi in ogni stanza una specie di fondale in cui i protagonisti si muovono, con dietro i mobili antichi della casa originali, che sono stati accatastati. Volevo dare il senso della precarietà, loro vivono in una specie di magazzino post-apocalittico con oggetti presi da varie epoche, ma dietro incombe il passato cui il Padre è morbosamente legato.
E poi fai delle immagini piatte ed altre in cui esasperi la profondità. In entrambi i casi esse rimandano all’anomalia vissuta dai personaggi.
Be questo sai è istintivo, non è che si può decidere tutto. Di certo, io volevo creare il fondale. Forse perché loro vivono sempre in una proiezione del fuori, quasi un teatro delle ombre, su cui proiettano i loro ricordi.
Tra l’altro, ho visto che quando riprendi il paesaggio naturale dalla casa, quest’ultimo lo ritrai con l’artificialità che deriva dal fatto di inserirlo successivamente alle riprese. Come se ciò che c’è dentro la casa e, dunque, le sue bugie finissero per influenzare anche l’esterno.
Di certo io non volevo fare un film realistico. Soprattutto nella prima parte, molto è una proiezione della mente dei personaggi. Anche se mi hanno detto che il film funziona perché anche in una situazione così folle si sente la verità della loro vita quotidiana. Insomma, ci credi che vivono lì, in quel modo.
Parlavamo di cinema di genere che ha sempre dei riferimenti e che racconta un certo tipo di storie. Se pensiamo ad alcuni di questi, come per esempio a The Nest e al già citato The Village, si può dire che tu ne segui le tracce salvo poi “tradirne” gli sviluppi. Di fatto, quello che negli altri rimane fuori campo e si svela nell’ultima scena in Buio diventa a un certo punto il centro della storia. Finisci per spiazzare lo spettatore in senso positivo.
Mentre scrivevo la sceneggiatura, dopo la prima stesura, ho avuto dei dubbi, mi sembrava, in effetti, di aver preso una direzione un po’ troppo inconsueta. L’ho fatta leggere ma le reazioni sono state così positive che non ho potuto che continuare. In realtà, ad essere sincera, l’idea di Buio mi è venuta dalla visione di un film per nulla di genere, ma il più autoriale che c’è, Kinodontasdi Yorgos Lanthimos e in parte anche Miss Violencedi Avranas. Poi l’ho mescolato con un po’ di Hitchcock e con tutto quello che io penso su queste questioni padri/figli/donne/uomini. Comunque, analizzando bene Lanthimos mi sono resa conto che pure un super autore intellettuale come lui pesca parecchio dal cinema di genere, diciamo che fa un calderone bollente di tante cose ed estrae in superficie la spuma fredda. Certo però che a Lanthimos, e in generale tutti i registi maschi che fanno queste storie di sottomissione, interessa molto il Padre, la figura maschile. Ne fanno un protagonista assoluto. A me invece interessavano di più le figlie.
In questo senso, lo spostamento narrativo rompe quella sottomissione che è sia della storia che anche dell’immaginario maschile.
Da quando ho visto Kynodonthase Miss Violence (che mi ha un po’ indignata per il suo sadismo, ndr) ho pensato di spostare il punto di vista. Ho sentito il dovere di puntare la macchina da presa, invece che sul Padre, finalmente su Stella, Luce ed Aria! Questo ha portato per forza ad uscire dalla casa, perché Stella doveva fare un percorso suo che invece non esiste nei film appena citati.
Questo spostamento equivale a lasciare la dialettica campo/mondo interno-contro campo/mondo esterno a favore di quella articolata sulla presenza e assenza del padre. Dunque è una rivoluzione a 360 gradi. Da quel momento Buio diventa un film più personale e quasi classico nella scelta di seguire un personaggio attraverso una serie coerente di azioni/reazioni.
Certo, è proprio così, e non a caso abbiamo cambiato la tecnica di ripresa. Prima siamo stati statici e poi dalla prima uscita in giardino iniziamo a muovere la macchina da presa. Lo avevamo deciso con Graziaplena dall’inizio e trovo che questo scarto di riprese abbia funzionato.
Uno scarto di riprese giustificato dal cambiamento di consapevolezze all’interno della casa e, in particolare, dei rapporti tra padre e figlie.
Sì, è tutto legato. Tutto è determinato da cosa vive il personaggio in quel momento. Infatti, mi ha stupito che alcuni abbiano scritto che ho realizzato un film di genere.
Secondo me tu racconti una storia estremamente personale, che però ha conseguenze e in qualche modo dialoga con il resto dell’ecumene. Questo conferisce al film due livelli di narrazione, uno intimo e privato, che riguarda i personaggi, e l’altro, relativo ai rapporti di questi con il mondo esterno. Il film, dunque, procede con un doppio binario.
Questa parte del film mi piace molto perché i due livelli sono costretti a convivere, come debbono convivere in Stella. Fuori lei scopre la musica rap e dentro casa con le sorelle continua a vivere in una dimensione ottocentesca. Finché, ovviamente, la contraddizione diventa troppo forte e lei deve affrontare il suo senso di colpa per trovare una soluzione. Comunque, in generale, io sento molto dentro di me la convivenza di due anime: sono antica ma adoro il pop e la moda. La Stella che guarda i ragazzini rapper sono io, affascinata dai cantanti di strada in via del Corso a Roma.
In effetti, utilizzi elementi accessori come, per esempio, la musica per parlare dei personaggi e della loro realtà. La conservazione e la sottomissione presenti all’interno della casa sono date dalla musica classica e dalla musica di quando era ragazzo il padre, Il tempo delle mele. Invece, la musica elettronica, quella che accompagna le uscite di Stella fuori dalla casa, ne sottolinea il desiderio di ribellione e della libertà.
Io credo che oggi i ragazzi, anche i ragazzini come Greta Thumberg, vogliono dire la loro, ed è giusto che sentano questa musica magari non bella in senso classico, che però dimostra che stanno andando avanti con il loro linguaggio. E infatti quello che voglio per Stella è che trovi il suo angolo di mondo, come lo vuole lei. Fosse anche solo andare al Mc Donald’s, se lei lo vuole.
Una volta uscita, la prima cosa che fa Stella è quella di andare al supermercato. In questo senso, forzando un po’ le cose, tale avvenimento sembra dare ragione alla visione del padre che parla di un mondo malato, magari riferendosi anche alle sue derive consumistiche. Stella non sente il bisogno di parlare con i propri simili ma di accumulare cose.
Beh, come tutti i matti, il Padre un po’ di ragione ce l’ha. Ma non dobbiamo dimenticare che il Padre l’aveva parecchio affamata.
Visto che non esiste quello sconvolgimento climatico di cui il padre racconta alle figlie, forse esiste quello della corruzione capitalistica.
Beh, che non esista lo sconvolgimento climatico è tutto da dimostrare, mi pare. Mi ha colpito il presidente della Film Commission Piemonte Paolo Manera che, dopo aver visto il film, mi ha detto che va bene, l’Apocalisse forse non arriverà come dice il Padre, ma in fondo è già arrivata perché Stella uscendo non trova chissà che, ma solo un supermercato squallido, dove ci stanno dei vecchi e dei ragazzini soli. Un mondo fortemente apocalittico, mi pare. E poi non è che, alla fine, l’evento climatico forte non ci sia. Ma questo non significa che il film abbia una visione solo negativa. Anzi, è tutto concentrato sul percorso di guarigione di Stella. Che, secondo me, fin dall’inizio conosce la verità, ma non la può rivelare.
Questo è evidente nella prima parte, dove vediamo la sottomissione assoluta di Stella al Padre.
Stella all’inizio è un po’ una vestale della casa, una kapò complice del Padre. Però piano piano si ribella e finalmente quando ha compiuto questo percorso di guarigione arriva a dire alle sorelle che il sole è guarito: qualcosa che riguarda lei e non l’ambiente esterno. Un percorso che leggiamo sulle trasformazione della sua faccia e anche di quella delle sorelle, Luce ed Aria.
Infatti. alle giovani attrici va il merito di aver reso verosimile la vicenda attraverso le espressioni dei loro volti. Si arriva a queste rivelazioni graduali anche con queste scansioni, che se le attrici non fossero così presenti arriverebbero in maniera meccanica.
Certo, sennò sembrerebbe tutto assurdo. Questo che mi dici mi fa enormemente piacere perché ho lavorato tanto con le giovani attrici. A volte si prendono ragazze di trent’anni per fare delle adolescenti. Io, invece, ho voluto adolescenti vere e per questo prima delle riprese ci siamo viste per cinque mesi, due tre volte al mese, per farle entrare in una situazione così complessa e dolorosa. Soprattutto con improvvisazioni. È stato anche un modo per proteggerle. Senza prove le avrei dovute sbattere con violenza in una situazione più grande di loro e sarei stata costretta al sadismo per tirar fuori quel dolore. Invece, così, l’abbiamo creato, cercato insieme.
La faccia di Denise, per esempio, cambia con il passare dei minuti, volto emaciato, occhiaie e magrezza ne fanno protagonista di una grande interpretazione.
Lei ha iniziato prima delle riprese una dieta dura, che le ha fatto perdere otto chili. Una cosa così provoca una reazione. Anche psichica. Ad un certo punto le ho detto basta, stava davvero crollando.
Il corpo diventa lo specchio di questo senso di colpa.
Lei ha capito che era essenziale per interpretare il personaggio e, dunque, ha fatto un vero lavoro d’attrice.
Tra l’altro il suo personaggio parla senza parole, quindi si tratta davvero di una grande interpretazione da attrice matura.
Beh, in questi cinque mesi di lavoro ci sono stati tanti passaggi. Denise veniva da fiction come Braccialetti rossi o Il medico in famiglia, le ho fatto vedere film come Kynodontaso Stoker di Park Chan-wook, abbiamo parlato tanto, ha pure incontrato ragazze abusate. Lei non solo è stata da subito molto rigorosa, ma rispetto alle interpretazioni precedenti ha cambiato la sua immagine di 360 gradi. Ha capito che non bastava essere se stessa, come avviene nelle fiction, ma doveva diventare altro da sé. Ho scoperto una ragazza con una determinazione di ferro che sta quasi per laurearsi in fisica e, quindi, ha un mondo interiore complesso e particolare. Non a caso poi l’ha presa Moretti per il nuovo film. Anche Gaia Bocci, Luce, si è impegnata molto, ma lei, studiando da ballerina, in qualche modo era già più dentro, conosceva il sadismo, che è tipico del mondo della danza. Denise se vuole ha quella bellezza e quell’attitudine delle dark lady anni ’40, tipo Veronica Lake. Ma nello stesso tempo è pure una ragazzina come tante. Bella!
E Valerio Binasco, da tempo lontano dagli schermi, e qui invece tornato in piena forma. Valerio è anche un grande regista e attore di teatro per cui penso abbiate fatto un diverso tipo di lavoro.
Io l’ho visto a Torino in una conferenza su Don Giovannie ho detto: è lui! Ovvio che con un uomo così impegnato non si possono fare tante prove, ma non abbiamo dovuto parlare molto, era lui semmai che essendo più intellettuale di me mi spiegava delle cose della sceneggiatura che avevo scritto io. Diciamo che io gli ho chiesto soprattutto di essere più Valerio possibile, di lasciar perdere un po’ l’attore teatrale. Lui ne è stato colpito, mi ha detto che non glielo chiedono mai. Mi chiedo sinceramente il perché.
L’ultima domanda sulla parte produttiva.Buio rappresenta anche un vero atto di coraggio produttivamente: un film del tutto indipendente che osa avventurarsi nella distopia e in temi così duri. Si va dritti alla catastrofe.
Beh sì, il produttore Claudio Corbucci ha dimostrato di avere molto fegato. Ma il problema non è tanto fare un film così oggi, quanto trovare un distributore. Davvero lo spazio per i film indipendenti coraggiosi si è ristretto in un modo spaventoso e spero davvero che Buioriesca ad uscire. Eppure è un film che credo pur nella sua durezza possa avere un appeal sul pubblico, non dico anche quello generalista ma quasi. Ne sono sicura.
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