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Conversation

Da Abdellatif Kechiche a Emanuela Rossi: conversazione con Marco Graziaplena, direttore della fotografia

Direttore della fotografia di Mektoub my Love: Canto uno e di Buio, il percorso artistico di Marco Graziaplena è quello di un talento perseguito attraverso traiettorie inedite e di uno sguardo in cui la bellezza occupa un ruolo centrale. Di tutto questo abbiamo parlato nella conversazione che segue

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Volevo iniziare dall’anomalia del tuo percorso artistico cinematografico. Tu studi in Italia ma, di fatto, inizi a lavorare in Francia e in un cinema, quello d’azione, differente da quello in cui oggi ti ritroviamo.

Dopo la fine del liceo ho frequentato il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e da lì ho iniziato la classica gavetta grazie alla quale ho imparato a conoscere i materiali tecnici. Per diversi anni ho lavorato in Italia come aiuto operatore. Poi, nel 2008, un mio ex-professore del centro sperimentale, dovendo girare in Francia, mi propose di seguirlo. In seguito mi arrivarono altre offerte del genere e, dunque, in maniera piuttosto casuale mi sono ritrovato sul set di lungometraggi stranieri. Nel frattempo, essendo salito di status in Italia, non mi chiamavano più, mentre in Francia riuscivo a ottenere lavori di maggiore responsabilità. Senza troppo cercarlo sono finto a lavorare all’estero. 

Rispetto a Mektoub My Love e Buio mi ha colpito il fatto che la tua carriera è  iniziata lavorando nel cinema d’azione.

Sì, ne ho fatto tanto ed è una cosa che mi piace. Sono molto interessato alla tecnica pura di ripresa e il cinema d’azione è quello che più di altri ti consente di sperimentare nuove modalità e strumenti. Ho continuato farli anche perché il cinema è un mondo un poco chiuso, quando entri in una determinata famiglia ne diventi un habitué.

Il cinema d’azione è espressione di energia e dinamismo, dunque penso ti abbia insegnato a esserlo anche nel modo di relazionarti con il tuo lavoro. In tutto questo non bisogna perdere di vista il dettaglio estetico relativo ai corpi, che sono i grandi protagonisti di questo genere di prodotti. 

È un tipo di cinema molto tecnico, per farlo bisogna essere assai preparati; non si può improvvisare. La macchina produttiva che si mette in moto è grossa come pure il dispendio economico, quindi gli errori sono meno concessi. Bisogna conoscere perfettamente qualsiasi materiale utilizzato.

Negli Stati Uniti questi due aspetti possono coincidere: penso per esempio a Roger Deakins, maestro delle luci che spesso si cimenta nel cinema mainstream. Cosa che in Italia almeno fino a poco tempo fa succedeva con meno frequenza.

È vero. Il direttore della fotografia deve essere capace di creare qualsiasi genere di film, d’azione, melodrammatico, naturalista, etc. È un tecnico con delle competenze artistiche. 

Cosa intendi per creare un film?

Una sceneggiatura è un foglio stampato, bisogna trasporre la parola in immagine. Se c’è scritto “Un uomo è davanti alla porta” bisogna decidere di che colore è quest’ultima, di che colore è il vestito, come è pettinato l’uomo e da che angolo viene inquadrato. Il film a inizio riprese non esiste e va realizzato dal regista col supporto della fotografia, delle scenografie, dei costumi. L’aspetto visivo del film va creato dalla A alla Z. 

Quindi la tua concezione di direttore della fotografia è vicina a quella di Vittorio Storaro, che coniò per esso il termine cinematographer, sottolineando l’importanza del ruolo nell’ambito della realizzazione dell’opera?

Il discorso di Storaro verte anche sulla componente autoriale insita nell’apporto al film da parte dell’autore della fotografia.

Dicevi che in America c’è una visione diversa del tuo mestiere. E in Europa?

Professionisti come LibatiqueVan Hoytema riescono a fare qualsiasi tipo di film perché fanno cinema. È inutile distinguere tra categorie, dipende dalla duttilità personale che ti permette di adattarti a differenti registri. 

Vogliamo parlare di Van Hoytema e dei mondi che è stato capace di creare per Christopher Nolan?

Il suo primo film noto è un horror e nelle pubblicità ha una fotografia completamente diversa dai film di Nolan. Lo stesso Libatique passa senza problemi da Cowboy contro alieni a Il cigno nero. Questa cosa esiste già oltreoceano, mentre da noi penso sia un processo ancora in corso. Semplicemente è una questione di diversa mentalità.

Ci sono già delle eccezioni: penso a un maestro come Daniele Ciprì che ai lavori con Bellocchio alterna prodotti mainstream.

Esattamente, parliamo di una persona che ha un enorme esperienza nel campo autoriale ma che ama cimentarsi in un territorio diverso. È sempre interessante cambiare perché permette il confronto con altri tipi di problematiche. Sam Mendes dice che vuole fare tutti i generi di film perché come autore sente l’urgenza di mettersi alla prova con esperienze sempre diverse dalle precedenti.

Prima di parlare di Buio, non posso non chiederti della tua esperienza con un regista come Abdellatif Kechiche. Come sei arrivato a fare un film con un maestro come lui essendo ancora giovane come direttore della fotografia?

Anche in questo caso si è trattato di un incontro casuale. Il produttore è un italiano che abita in Francia. Mi disse che stava preparando un film senza rivelare il nome del regista. Si trattava di una trasposizione di un libro del 1400 che io conoscevo bene. Kechiche era un’artista lontano dal mio mondo e non avrei mai pensato di lavorarci insieme, piuttosto volevo sapere da dove nascesse la sua curiosità per quel testo. Ci siamo incontrati in un caffè, abbiamo chiacchierato del più e del meno, e dopo qualche mese mi ha proposto Mektoub my Love: Canto uno, che non aveva nulla a che fare col libro di cui avevamo parlato.

Tra l’altro, lui veniva da un periodo di pubblicità negativa a causa dei problemi occorsi sul set de La vita di Adele

Ho capito successivamente da dove venissero i problemi con una parte dell’opinione pubblica. Lì per lì mi sono chiesto se accettare o meno di fare il film. Ero scettico e un po’ preoccupato, perché mi pareva un’occasione arrivata quando non era il momento giusto per la mia carriera. Ne ho parlato con molte persone e tutte mi hanno detto che se non avessi accettato avrei buttato via un’opportunità irripetibile. Essere entrato a far parte di questo progetto ha cambiato nel profondo la mia vita. Avere a che fare con una persona del genere ha mutato il rapporto con il mio lavoro. Oggi sono molto contento di averlo fatto a livello professionale, ma ancora di più a livello umano.

Mi dicevi di aver capito le ragioni dei problemi avuti da Kechiche con l’opinione pubblica francese. 

Lui è un anarchico, non ha alcun interesse verso le regole stabilite. Il cinema oggi ha determinate regole che si sono codificate nel corso dei decenni: a lui non interessa nulla di tutto questo e va dritto nella direzione opposta. È convinto che un film possa essere realizzato e prodotto in maniere diverse rispetto a quelle comuni. In una mentalità molto cartesiana ed estremamente organizzata, il mancato rispetto delle regole può far nascere dei problemi. Inoltre, le persone geniali e con molta fantasia a volte sono poco prevedibili. Kechiche in più è un anarchico e non fa il cinema nel modo e nei tempi comuni. Per poterlo fare deve essere completamente libero.

Come direttore della fotografia da dove sei partito per creare Mektoub my Love: canto 1?

Dal nulla! È come essere abbandonati in mare aperto: non sai mai dove ti stai dirigendo, ti sembra di andare alla deriva. Sali sulla barca e chissà quando arrivi, chissà dove vai. Devi avere fiducia.

Nella scena iniziale di Mektoub, my love osserviamo l’amplesso di due ragazzi. Considerato che la nudità del corpo e le sue pulsioni sono uno uno dei grandi rimossi del cinema italiano, ti chiedo che difficoltà hai trovato nel girarla? Anche in considerazione che per te si trattava del tuo esordio come direttore della fotografia. Il rapporto dei corpi rispetto allo spazio e la particolarità delle loro posture ne potevamo complicare la realizzazione? D’altro canto, la libertà che in essa vi si esprime appare addirittura emblematica dell’ultimo cinema di Kechiche.

Ci sono degli attori da filmare, sono loro a condurre la sequenza. Se si sentono a loro agio in quello che stanno facendo, il resto viene da sé. Tu semplicemente devi essere il meno intrusivo possibile in quello che sta succedendo, poi le cose succedono in maniera naturale. È come essere un cacciatore in attesa. Aspetti che gli attori propongano qualcosa e quando lo fanno devi essere pronto a filmarlo, avendo l’accortezza di interferire il meno possibile. La tua deve essere una presenza capace di non farsi notare perché questo fa sì che gli attori si esprimano nella maniera più naturale possibile. Questo è l’atteggiamento fondamentale.

In termini di riprese si è trattato di un inizio di stampo per cosi dire documentaristico. Penso agli spazi stretti, alluso della camera a mano e della luce naturale.

La camera a mano deriva anche dal tentativo di essere invisibile, per dare all’attore la possibilità di esprimersi con il massimo della libertà. Scegliere questo tipo di ripresa ne è conseguenza diretta.

Per lasciare la libertà agli attori, ma anche perché muoversi in un ambiente così stretto diventa difficile. 

A volte bisogna adattarsi, cercando di fare quello che puoi con quello che hai. Bisogna sempre adattarsi alla location in cui giri.   

Nella prima parte del film gli attori si trovano spesso in piena luce del sole. Per contro, mi pare che tu volontariamente lasci la pellicola sovraesposta, quasi a voler dare la sensazione materica di quella che è l’esistenza dei ragazzi. Il sole entra così tanto nell’obiettivo perché accade lo stesso nelle loro vite. Era questo il principio o cos’altro?

La prima volta che abbiamo filmato con questa tecnica è stato evidente: non si poteva che girare in quel modo. Ci tengo a dire che la maniera di filmare di Kechiche è tutt’altro che naturalistica. Lui prova e riprova le cose nel dettaglio; sa esattamente a che ora va girata una scena; può aspettare delle ore perché, ad esempio, sa che alle 5.27 ci sarà quel raggio di luce messo in un certo modo. È tutto estremamente pensato, in realtà. Quello che lui costruisce è un finto naturalismo. Realizza una realtà a partire dal nulla. 

Il film è costruito come un lungo flusso: ad un certo punto c’è quella fantastica scena all’interno della discoteca: si tratta di una sequenza fluviale. Come direttore della fotografia, come si filma una scena così? Mi viene da pensare all’utilizzo di più macchine da presa, ma da lì a capire la costruzione di quei piani sequenza ce ne vuole.

Questo purtroppo ho promesso di non dirlo, però sicuramente ci sono molte macchine in azione. È una cosa estremamente complessa da mettere in piedi. Sembra spontanea ma non lo è.

In generale nel suo film c’è questa estensione spazio temporale che in termini di luce diventa complessa da mantenere. Anche in questo senso, penso che girare con lui sia un’esperienza diversa dalle altre.

La cosa magnifica nel film è proprio questa ricerca estrema di temporalità. Per questo spero che Mektoub My Love: Intermezzo riesca a uscire in sala. Come avrai letto la maggior parte del film è stato girato all’interno della discoteca. Il tentativo era quello di portare la temporalità di una serata in discoteca all’interno di un film, quindi il rapporto con il tempo è fondamentale. D’altronde, nel suo cinema il rapporto con il tempo è cruciale. L’unica cosa che vuole Kechiche è avere tempo per riflettere, per pensare, per costruire il film; poi bisogna trasmettere la temporalità all’interno dell’opera. Mektoub my love: canto uno è un lungometraggio che in fondo parla del tempo. È un film dalla temporalità dilatata, di quelli che danno un pugno in faccia allo spettatore, abituato a guardare i video sul telefonino mentre va a lavorare in metropolitana. È un’opera totalmente controcorrente rispetto alla direzione in cui sta andando il mondo contemporaneo. Questo è fondamentale nel suo cinema, almeno nei film a cui ho collaborato.

D’altronde, Mektoub racconta un tempo, quello della giovinezza. 

Esatto, che è il tempo sospeso per eccellenza. Abbiamo tutti vissuto un’estate attorno i nostri venti anni in cui eravamo sospesi in questa linea d’ombra, senza essere né adulti né ragazzi. Un periodo dove il tempo non contava e in cui lo stesso è improvvisamente finito senza che ce ne rendessimo conto.

Nel lavoro con Kechiche hai a che fare con luci naturali. Allo stesso tempo sappiamo come sia difficile controllarle quando la macchina da presa attraversa con continuità ampie porzioni di spazio. Forse il segreto è quello di non controllare la luce?

Al contrario, si deve cercare di controllare tutto il più possibile, nei limiti della situazione in cui ci si trova.

Mi piacerebbe che entrassi nel dettaglio per farmi capire qualcosa di più.

Non so come spiegarlo. Se io lascio tutto alla casualità sicuramente accadranno delle cose incredibili e irripetibili, però ho anche un altissimo livello di inconvenienti: di cose che sono capitate e che non dovrebbero accadere. Tutti questi “scarti” allungano i tempi di lavorazione. Dunque, bisogna fare in modo di creare uno spazio precostituito in cui quello che accadrà sarà utilizzabile al massimo. Devo far in modo che lo spazio in cui si muove un attore consentirà di produrre il massimo risultato possibile. In questa maniera forse sono riuscito a spiegartelo. Deve essere tutto controllato. Lasciare troppo al caso diventa molto rischioso.

Lo hai spiegato benissimo. Si può dire che il film è un capolavoro anche in questo senso, e cioè nel far sembrare casuale ciò che non è. Immagino ci siano molte prove prima di girare?

Ce ne sono molte, non ho mai fatte così tante in vita mia. Tieni conto che la scena girata nel quartiere in realtà non è una location reale. Tutto è stato rifatto: le luci per strada, i lampioni, i locali. Alcuni locali erano addirittura abbandonati. Non esisteva quasi nulla di ciò che si vede.

Un po’ come successe in Un sogno lungo un giorno di Francis Ford Coppola, con una Las Vegas ricostruita in studio. Tra l’altro l’immagine della capitale del gioco era resa per evidenziarne l’artificialità. Al contrario di ciò che avete fatto nel vostro film. 

Parliamo della città più finta del mondo, Las Vegas, colta subito dopo la guerra in Vietnam, ovvero quella in cui il sogno americano si stava distruggendo. Si trattava di azzerare ciò che era stato raccontato agli americani, dalla guerra mondiale fino agli anni ’70. Parliamo di una suggestione magnifica perché è la finzione più totale, destinata a durare un giorno solo. Kechiche, invece, credo sia a un livello diverso per quanto riguarda la creazione della realtà. Lui trova attori che spesso non sono professionisti. Assieme a loro crea il film e le personalità dei protagonisti mentre gira. E come se queste persone diventassero reali mentre interpretano il film. A quel livello il cinema non è più lo specchio della vita perché è esso stesso a plasmare l’esistenza. E questo è ciò a cui ambisce Kechiche, per questo va contro le regole normalmente accettate.

La cosa incredibile è che neanche per un momento pensiamo che la strada e i locali non siano veri, eppure è così.

La strada ovviamente c’era, ma solo i muri sono rimasti com’erano. Kechiche potrebbe girare all’interno di un teatro di posa, ma ha bisogno dell’odore, delle persone, di quella parte di casualità senza la quale tutto diventa troppo prevedibile, e per lui meno vero. 

Buio è un’altra scelta particolare e non solo perché si tratta di un grande debutto, quello alla regia di Emanuela Rossi. Buio è un film non comune per il tipo di storia, ma anche per il modo di metterla in scena. Anche qui ti chiedo come sei arrivato a girare con Emanuela? Rispetto a quello di Kechiche, Buio si muove sul versante opposto. Tanto lì c’era l’esplosione dei corpi, tanto qui vi è la loro repressione.

Il film di Emanuela è arrivato perché stavo facendo una serie in Italia e il suo produttore creativo, Claudio Corbucci, mi ha proposto questo progetto che doveva partire subito dopo. La serie era 1994. Lì si trattava di filmare seguendo un rigido piano di lavorazione, come è normale che sia: ovvero l’opposto di ciò che avevo fatto con Kechiche. Emanuela non la conoscevo. Di lei avevo visto soltanto un cortometraggio molto particolare fatto una decina di anni prima. Era andato ai David e aveva molti spunti interessanti. Dopo aver letto la sceneggiatura ho pensato che fosse un testo molto forte, tale da ricavarci un film bello e originale. Anche in questo caso si doveva partire dal nulla, e assieme a Emanuela abbiamo fatto un grosso lavoro di ideazione per ricreare lo spazio in cui doveva vivere questa famiglia. Si è trattato di un processo molto interessante perché le reference che aveva lei, oltre ad essere molto belle, erano di quelle che pochi registi tirano fuori. Molto particolari nel loro gusto estetico.

Anche io ho trovato esaltante questo tipo di cinema. 

Noi italiani eravamo dei pionieri nel cinema di genere, e ora siamo diventati gli ultimi al mondo. Adesso escono film coreani che sono prodotti di genere, ma realizzati con tale ricercatezza da essere dei capolavori. Ci siamo fatti sfuggire un tesoro enorme, adesso dobbiamo riscoprirlo. Nel caso di Buio si trattava di riprenderne i codici e reinterpretarli attraverso uno sguardo autoriale. 

La scena iniziale di Buio mi sembra paradigmatica del tuo lavoro. In essa la silhouette della protagonista sembra quasi emergere dall’oscurità, come se in qualche modo le appartenesse. Si tratta di buio reale ma anche metafisico, manifestazione dei sensi di colpa della ragazza e in definitiva del suo malessere. La divisione della figura a metà tra buio e luce rivela un’altra caratteristica del personaggio e cioè la sua ambiguità. 

Quello che dici è molto interessante. Nel cinema odierno c’è un problema tecnico, ovvero le mscchina da presa di oggi sono estremamente sensibili, raccolgono le informazioni luminose con grande facilità. In pratica per illuminare una scena serve sempre meno luce, il che abbassa il livello di contrasto. Per Buio, invece, quest’ultimo doveva avere un livello altissimo. Doveva essere totalmente nero o estremamente bianco, come la prima immagine.

Una luce estremamente bianca, come accade in tutte le scene in cui vediamo i personaggi all’esterno della casa. 

Buio è un film di estremi. Nella casa il nero dev’essere nero, ma nero pesto. Dato che si tende a lavorare con sempre meno luce, per assurdo è davvero più difficile ottenere questa tonalità, perché essa si ricava come porzione restante di una parte molto illuminata. Quindi abbiamo dovuto lavorare un po’ in maniera più antica, se così possiamo dire, con il tipo di illuminazione che si sarebbe fatto con la pellicola.

Molte scene sono illuminate con la luce delle candele, altre con fonti artificiali fornite da lampade e neon. Si tratta di due antipodi che rimandano a un’altra cosa e cioè alla sospensione tra antico e moderno esistente all’interno della casa. In questo senso, il dualismo delle luci è anche un’opposizione temporale e, a sua volta, un dualismo dell’anima.

Totalmente. La cosa che mi ha fatto innamorare nella sceneggiatura è che c’erano diversi tipi di buio. Uno artificiale, uno più luminoso, poi un altro ottenuto dal lume delle candele o dal fuoco. Poi c’era il buio pesto. Trattandosi di un’indagine fotografica su alcuni aspetti dell’animo umano, renderla visiva è stata una sfida difficile e affascinante.

Nel lavoro tuo e di Emanuela c’è una grande capacità di scrivere attraverso la luce. In Buio ho ritrovato la fiducia del cinema nel saper raccontare mediante le immagini. La sua fotografia non è soltanto bella ma anche significativa.

Su film del genere se crolla l’immagine crolla parte del film: se non riusciamo a rendere opprimente la casa non si riesce a credere alla storia. La differenza tra il kitsch e l’arte è molto labile e su questo bisogna giocare. Se tu vedi un film come Magnifica ossessione la storia non è così credibile, però è fatto talmente bene da rimanere a bocca aperta. Senza volerci comparare a un film del genere, siamo andati in quella direzione. Abbiamo dovuto dare un’estrema forza estetica alle immagini, altrimenti il film sarebbe stato meno forte. 

La scena iniziale, con le figure che escono dal buio, fa venire in mente Caravaggio. In altri momenti il film sembra andare indietro nel tempo, soprattutto quando le silhouette delle ragazze sono coperte da camicie da notte bianche illuminate dalle candela. Lì, per esempio, viene in mente il film della Coppola, L’inganno. Mi puoi dire qualcosa su questi riferimenti?

La prima inquadratura si rifaceva a quella de La Bibbia di John Houston. Poi, ovviamente, era un’immagine che ricorda il contrasto della pittura di Caravaggio e della pittura manierista italiana. Il Giardino delle vergini suicide ovviamente era una delle reference più importanti. C’era anche uno dei capolavori dell’Espressionismo anni Cinquanta e cioè La morte scorre sul fiume. 

Ad un certo punto, nella casa, all’interno, quando ci sono tutti quei teloni di plastica, mi è venuto in mente Bug di William Friedkin.

Sì, esatto. I teli non erano previsti dalla sceneggiatura e con Emanuela e la scenografia abbiamo inventato quello spazio creato dal padre. Queste, come altre, sono invenzioni pensate per dare maggior peso all’immagine.

Con Emanuela avete fatto un film ricco di invenzione e creatività e alla fine il risultato appare più sontuoso dei soldi impiegati per farlo.  

Ci chiedevamo cosa potevamo fare per renderlo più suggestivo. È stato molto interessante farlo perché ogni volta bisognava inventare come poter arricchire la scena.

Ci sono dei movimenti di macchina evidenti, e parlo delle carrellate laterali in cui la macchina da presa sembra passare in rassegna “l’esercito” dei personaggi. Vederli immobili, uno accanto all’altro, impassibili e senza guardarsi, rivela una convivenza fatta di rapporti umani congelati.

È divertente, perché ero partito dall’idea che si dovesse fare un film con delle regole da rispettare, per esempio utilizzare una camera fissa per contribuire al senso di disagio. Emanuela però non voleva bloccarsi in questa scelta così dogmatica e ha detto di voler fare quel carrello. Ho replicato che avevamo impostato un linguaggio definito, fatto di quadri privi di profondità, schiacciati contro il muro per il senso di oppressione presente dentro la casa. Dunque, lì per lì, ero contrario, invece alla fine il carrello ha funzionato benissimo. 

In questo film mi sembra ci sia la sintesi del tuo lavoro, perché utilizzi tanto luci naturali, tanto quelle espressioniste.

Abbiamo scelto di essere più espressionisti possibili. Ad un certo punto, quando loro sono in un salone, all’improvviso si vede l’immagine di un lago sul muro. Abbiamo cercato di essere più espressionisti possibili, non avendo paura di essere poco realistici. È stata questa la chiave del film.

Lo stesso dicasi per la scena dominata da una notte stellata. Anche lì il fondo è volutamente artificiale, aggiunto all’immagine principale. 

La notte americana rappresenta la finzione più finzione che esista. Sono pochi i registi che accettano di farla, perché spesso sembra una scelta troppo assurda o di dubbio gusto. Emanuela invece ha capito che tale scelta si sposava perfettamente con l’irrealtà costante che c’è in tutto il film. La finzione delle stelle e del colore che vi stava intorno era esattamente quello che ci voleva nel film. Lo avvicina ad un melodramma anni ’50. 

C’è anche un’altra scena di cui volevo chiederti, quella in cui compare la madre. In quel momento il buio diventa più caldo. Tra l’altro tra la donna è vestita di giallo e il sole, insieme alla madre, è ciò che manca alle bambine.

Questo è totalmente merito di Emanuela che ha detto: “La voglio vestita così”. La luce è al 95% uguale, il fatto che lei abbia quel vestito, quel trucco, quei capelli cambiano tutto. È stata Emanuela a impuntarsi che la voleva così. E ha funzionato molto bene.

Assolutamente, parla nella maniera giusta, perché la madre è il sole che manca.

Sembra un’altra inquadratura invece è quasi la stessa. A fare la differenza è la presenza dell’attore.

Nella sequenza in cui si vede per la prima volta il mondo esterno avete scelto di mostrare in campo lungo questa architettura post industriale che dà l’idea di un mondo alla deriva.

L’impressione che volevamo cercare di dare era anche il punto centrale del film è cioè: quanto è pazzo il padre? Sta veramente proteggendo le figlie da quel mondo? E com’è quest’ultimo ? Era questo il dubbio che dovevamo cercare di instillare. Quanto è opprimente il mondo esterno nonostante l’apparente libertà? Il padre è pazzo, ma per quale motivo è arrivato a questo livello di follia? Per questa ragione gli esterni sono piuttosto anonimi.

Mi sembra che la fotografia in quel caso si mantenga più neutra possibile? 

Lei è rinchiusa in una prigione, ma è comunque a casa sua, dunque si tratta di una prigione accogliente. Quando si ritrova nel mondo la prima cosa che scopre è un posto senz’anima, ovvero un centro commerciale.

La prima volta che Stella si ritrova all’esterno la vediamo illuminata da una luce pallida, come il viso della ragazza, forse a rimandare alla malattia dell’ambiente ma anche al malessere della protagonista.

Quello è anche fortuna, perché noi avevamo cercato questa nebbia per molto tempo e poi per caso l’abbiamo trovata. È stata una volontà superiore arrivata nel momento in cui serviva.

Una delle tue qualità è quella di illuminare e disegnare la bellezza dei volti. 

Sì, la ricerca della bellezza, specialmente nel viso femminile, è una cosa a cui pongo molta attenzione. Qual è la migliore fotogenia, qual è la migliore delle luci, l’altezza della camera, la lente migliore: ogni viso è diverso, non è che la stessa soluzione vada bene per tutti. Ogni viso ha la sua fotogenia da studiare e bisogna capire in quale modo va illuminato, con che lente va ripreso, a che distanza. Sono dettagli da capire bene.

Mi sembra che il lavoro sui volti sia una tua precipua caratteristica. In particolare, quello fatto sul viso di Denise Tantucci arriva a trasfigurarne la bellezza, tirandone fuori aspetti e sfumature che non conoscevamo.

Va capito il modo migliore di riprendere ogni attore. Per esempio il 35mm non va bene per tutti. Devi mettere la macchina in modo che alcuni aspetti del viso escano fuori. Quest’ultimo è espressione di ciò che abbiamo dentro; non è un segreto che gli occhi ne siano lo specchio. Però bisogna capire come illuminarli. Una attrice di Kechiche non può essere illuminata come Denise, non c’entra nulla. 

Senza entrare troppo nel dettaglio, ti chiedo però: quando illumini un personaggio come Stella, che ha un volto come quello di Denise, cerchi ovviamente di tirare fuori il personaggio dall’attrice o glielo costruisci sopra trovando dei punti di contatto tra realtà e finzione?

Bisogna trovare il giusto mezzo, nel senso che non è corretto trovare l’illuminazione che tira fuori il personaggio ma non rende giustizia alla bellezza dell’attore. Tranne casi speciali, la fotografia deve rendere servizio alla fotogenia. Questo è il primo punto; poi bisogna capire in che modo si può illuminare un interprete, tirandone fuori il suo personaggio. Fondamentalmente parliamo del rapporto ombra luce sul suo viso: ogni film ha necessità differenti. La fotografia di Buio su Mektoub non avrebbe senso, sarebbe ridicolo, i personaggi non sono comparabili e devono essere illuminati in maniera diversa.

Parlavi di bellezza. Nel cinema quando se ne parla si ha paura di essere fraintesi, come se tutto ciò che riguarda l’estetica sia automaticamente superficiale e superfluo. Al contrario i tuoi film la ricercano e la esaltano.

L’attore è colui che appare visivamente in un film: la sua presenza si deve imporre, deve coinvolgere lo spettatore, sennò il film non funziona. Puoi avere la storia più forte del mondo, ma se l’attore non esce fuori dallo schermo il film non esiste. Bisogna cercare questa cosa e quando l’attore c’è l’ha bisogna prenderla e cercare di amplificarla. Questo è fondamentale, altrimenti non vai da nessuna parte.

Una delle idee forti di Buio è quella di restituire una situazione cosi drammatica attraverso una ricerca del bello che concorre ad approfondire l’anima del film.

E allora Rossellini, Visconti, Fellini?  8 ½ è brutto? È un film con una fotografia eccezionale e per chiunque è uno dei cinque maggiori capolavori della storia cinema. La bellezza del film e la bellezza dell’immagine vanno di pari passo, non esiste che ci si privi di una cosa o dell’altra. 

Sono d’accordo con te. È bello ribadirlo. Buio è la dimostrazione di quello che stiamo dicendo: è la messa in scena dell’orrore però fatto con una bellezza estetica che è capace di raccontare e di andare in profondità. Va quindi contro certi stereotipi.

Quello che cerchiamo di fare è rompere gli stereotipi e ricercare la bellezza nei film di genere.

Come direttore della fotografia e come spettatore, quali film ti piacciono e quali sono i tuoi modelli, chi ti ispira e perché?

Sono veramente molto classico. Di film recenti ce ne sono pochi che mi colpiscono, forse perché è quando si è piccoli che si vedono le cose che ci segnano per sempre. Cronologicamente, l’ultimo film che trovo “classico” è Blade Runner, ma già siamo nell’82. Ci sono film incredibili fatti al giorno d’oggi: il cinema asiatico, ad esempio, produce costantemente capolavori da 25 anni. Ciò detto, ha marcato di meno il mio immaginario.

E tra quelli classici, qualche altro titolo?

Tutto Bergman.

Quindi tutto  Nykvist?

Si, Nykvist per me è veramente uno dei più grandi geni che abbia preso in mano la macchina da presa, da Fanny Alexander a Persona, fa delle cose assolutamente incredibili.

Tornerai a lavorare in Italia al cinema?

Spero di sì. Al momento ho da poco un bimbo e quindi c’è anche il problema familiare di come spostarci. Magari tornare Italia e fare dei bei film. Sarebbe un sogno!

Te lo auguro e me lo auguro, perché penso tu sia uno dei talenti “nuovi” del nostro cinema.

Grazie mille! Speriamo che il cinema italiano torni a essere quello che è stato. Deve staccarsi dalle logiche attuali ed essere temerario, perché facendo cose coraggiose poi non è detto che non si arrivi ai vertici del box office. 

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  • Anno: 2020
  • Durata: 98
  • Distribuzione: Courier Film
  • Genere: drammatico
  • Nazionalita: Italia
  • Regia: Emanuela Rossi
  • Data di uscita: 07-May-2020