Giulietta degli Spiriti è un film del 1965, diretto da Federico Fellini. È il primo lungometraggio a colori del regista riminese, dopo l’episodio a colori dal titolo Le tentazioni del dottor Antonio del film collettivo Boccaccio ’70 del 1962. Con Giulietta Masina, Sandra Milo, Mario Pisu, Valentina Cortese, Sylva Koscina, Caterina Boratto. All’indomani dell’uscita del film nelle sale italiane, in quegli anni sessanta in cui l’Italia si affacciava su una nuova realtà senza esservi ancora tuffata, la critica non fu tenera con Fellini, forse perché nessuno aveva ancora davvero capito il regista ed il suo mondo visionario ed incantato. Mentre all’estero, come ad es. in Francia e in Gran Bretagna, socialmente più avanzate dell’Italia dell’epoca, il film suscitò critiche assai più favorevoli. Fortunatamente, pur facendo molto caso a quel che si diceva e si scriveva di lui, Fellini è riuscito sempre ad infischiarsene e a proseguire per la sua strada, fino ad ottenere il giusto riconoscimento alle sue qualità artistiche.
Sinossi
Giulietta ha festeggiato l’anniversario del suo matrimonio, ma è infelice perché sa che Giorgio, il marito, ha una relazione con un’altra donna. In un primo tempo cerca conforto spirituale interrogando un veggente indiano, poi cerca di instaurare un dialogo con il marito e con la rivale. Il matrimonio è però ormai in crisi irreversibile e sceglie la solitudine. Nella presa di coscienza svaniranno anche i fantasmi.
Con Giulietta degli Spiriti, grazie a un colore che accentua la ricerca simbolica e antinaturalistica, Federico Fellini non pone più alcun freno ai suoi istinti immaginativi. Tra tutti i viaggi nella memoria effettuati nel corso della sua attività questo è l’unico che cerca di esplorare il mondo della controparte femminile vedendolo animato e coabitato da una folla di presenze uscite direttamente dall’iconografia della religione cattolica e da figure di sacerdotesse del sesso, che invitano alla liberazione del corpo e alla trasgressione dei comandamenti e dei tabù. Solido, sfaccettato, persuasivo, indimenticabile, questo ritratto di Giulietta che Federico Fellini (con l’aiuto di Tullio Pinelli, di Brunello Rondi e di Ennio Flaiano, i suoi collaboratori abituali, cioè) è riuscito a plasmare, facendone il più ispirato punto di forza del film. Tanto più psicologicamente complesso com’è il personaggio, seppure meno nuovo, di quello del regista cinematografico in crisi di Otto e mezzo. E ci siamo. Il paragone con il precedente film di Federico Fellini è, a questo punto, indispensabile. Diremo subito che Otto e mezzo resta qualche gradino più su di Giulietta degli spiriti. Così felice ed intenso in ogni sua parte, il primo, mentre in Giulietta sono le parti condotte sul piano realistico a raggiungere la maggiore efficacia, la più sintetica, poetica tensione drammatica. Una bellezza turgida e un po’ ambigua, un sovrabbondare di immagini corposamente deliranti, un riverbero di manichini, spiriti, donne impennacchiate, bimbi; con le inquadrature mirabilmente affastellate di corpi e d’ombre. Fellini, liberato ormai dalle preoccupazioni ironico-realistiche degli esordi, si abbandona qui del tutto ai suoi istinti più profondi, che la maturità ha rivelato senza più inibizioni, così come gli spiriti rivelano a Giulietta ‘liberata’ le sue paure, i suoi fragili legami che un tempo le parevano così importanti, decisivi. Ecco il senso panico della natura in Fellini, la sua visione del mondo ironico-paganeggiante. Il suo amore per il gioco incontrollabile della memoria perduto verso le caligini magiche dell’infanzia, inteso tuttavia ad una religiosità disarmata e disponibile. Le forme di questa fantasmagoria hanno del miracoloso, e pongono Giulietta degli Spiriti ai primi posti nella storia del cinema fantastico. Mai visto un simile scialo di metafore, un’immaginazione a così largo spettro (dalle cianfrusaglie alle illuminazioni più ardite), un’alleanza tanto stretta tra Fellini e lo scenografo e costumista Piero Gherardi, cui danno un apporto prezioso la fotografia di Gianni Di Venanzo e la musica di Nino Rota, impiegata per sottolineare la struggente irrealtà dell’insieme. Fellini ha davvero obbedito al precetto di D’Annunzio: ‘Il cinema deve dare agli spettatori le visioni fantastiche, le catastrofi liriche le più ardite meraviglie, risuscitare il meravigliosissimo dei tempi moderni e degli spiriti di domani’.