Quando un film di Gabriele Salvatores esce in sala, si corre a vederlo, perché l’umanità e la visione del mondo di questo regista, il suo sguardo profondo e leggero al tempo stesso, sempre compassionevole (nel senso greco del termine), corrispondono e si combinano perfettamente alla sua grande abilità nel raccontare storie e dirigere film attuali ed avvincenti.
La sua cifra stilistica è inconfondibile ed è quella di un maestro a pieno titolo: il suo ultimo lavoro, Napoli-New York – tratto da un soggetto inedito di Federico Fellini e Tullio Pinelli ritrovato quasi per caso – non fa eccezione. Anche se a Salvatores, da sempre schivo e riservato, il termine ‘maestro’ non piace molto riferito a se stesso, noi invece pensiamo gli si attagli perfettamente, a maggior ragione dopo il suo ultimo film, distribuito in questi giorni nelle sale da 01 Distribution.
Napoli-New York sembra infatti raccogliere il meglio della maturità cinematografica del regista, che firma un film potente per le immagini e per l’impianto narrativo, ma senza mai tradire sé stesso, con quell’umiltà sorniona e sorridente che lo rende irresistibile, e che gli fa scegliere come colonna sonora la musica degli anni Sessanta e Settanta – dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare ai Procol Harum, a Tom Waits (che canta West Side Story) – e che, nonostante gli anni trascorsi da film quali Mediterraneo, Marrakech Express, Turné, Nirvana, rimane un inguaribile romantico, amante dei giovani e delle sperimentazioni, della fantascienza e delle favole, come quella raccontata, appunto, in Napoli – New York.
A pochi giorni dalla sua uscita, il film – prodotto da Paco Cinematografica con Rai Cinema con il contributo di FVG Film Commission – PromoTurismoFVG, Regione Campania e Film Commission Regione Campania – continua a conquistare gli spettatori (già oltre 200.000, numero destinato a crescere) ed a consolidare il proprio consenso registrando calorosi applausi al termine di ogni spettacolo, e confermandosi come uno dei titoli (e dei registi) più amati dal pubblico.
“In questi giorni stiamo presentando il film in sala in tante città diverse – commenta Gabriele Salvatores con entusiasmo – e troviamo sempre grande affetto e calore da parte del pubblico nei confronti di Napoli-New York. È una storia del nostro passato scritta da Fellini e Pinelli, venuta fuori da un baule, che racconta tanto di noi oggi. E vedere così tante persone condividere questa emozione è per me e per tutta la squadra una gioia immensa.”
Napoli-New York: quando eravamo migranti e sognavamo l’America
Tante storie s’intrecciano nella trama del film Napoli – New York: il racconto della Napoli dell’immediato Dopoguerra (1949), tra miseria e macerie, il sogno dell’America dove qualche parente è già emigrato e del quale si sa poco o niente (ma si immagina tutto il meglio), l’incontro fra due ragazzini, Carmine e Celestina, di 12 e 9 anni (i giovanissimi Antonio Guerra e Dea Lanzaro) rimasti entrambi soli al mondo, dopo gli ultimi bombardamenti della città, che si aiutano come possono; il loro emozionante viaggio in una nave diretta a New York sulla quale salgono quasi per caso; l’incontro con il simpatico cuoco di bordo George (il ‘grande’ Omar Benson Miller) e con il capitano alcolizzato (Tomas Arana); i sentimenti contrastanti dei due protagonisti all’arrivo nel Nuovo Mondo, che sgomenta e incanta al tempo stesso.
E poi ancora l’incontro con il capitano operativo della nave, Domenico Garofalo (un Pierfrancesco Favino in piena forma nei panni di un burbero benefico), con sua moglie (intensa l’interpretazione di Anna Ammirati) e con la comunità italiana di Little Italy; la ricerca della sorella di Celestina, Agnese (brava la giovane attrice napoletana Anna Lucia Pierro), sposata in America e che si scoprirà in prigione per omicidio, una storia vera reperibile sui giornali dell’epoca adattata al film, che richiama, in qualche modo, anche i primi moti dell’emancipazione femminile. Nel film il giornale di Little Italy, su cui si riportano le notizie più importanti della comunità, ha come direttore il bravissimo Antonio Catania, cui è affidato questo estroso cameo.
Bravissimi i due bambini protagonisti, che conquistano da subito il cuore del pubblico per la loro spontaneità e simpatia partenopea: “Io non so cosa diventeranno questi due ragazzini – ha raccontato Salvatores – però voglio dire una cosa, e spero che nessuno si offenda, soprattutto i miei amici milanesi, ma con due bambini milanesi non l’avrei potuto fare questo film”.
La pellicola si dipana in tante direzioni ed i personaggi si incrociano, si perdono, si ritrovano tra i vicoli di Napoli e nelle strade di New York, le due città del titolo ed anche nell’Oceano, cui è dedicato uno dei tre capitoli in cui è diviso il film. Il destino fa il suo giro ed i ragazzini, insieme ai tanti emigranti italiani partiti in cerca di una vita migliore, scopriranno, sbarcati oltreoceano, un continente ed una metropoli sconosciuta che, dopo numerose peripezie di ogni tipo, impareranno a chiamare casa.
Sempre ricorrono i temi cari all’autore: lo sguardo dei giovani e dei bambini e le loro scoperte, tra afflato di formazione, capacità di sognare e stupirsi, le debolezze degli adulti, i luoghi dell’altrove, le trasformazioni sopraggiunte o necessarie, le trovate cinematografiche che rendono grande un film.
Ma soprattutto, in tempi bui ed oscuri come i nostri, Napoli-New York si propone come un grande affresco epocale che racconta, con leggerezza e poesia ma con uno sguardo che possa essere di monito al presente, come eravamo quando cercavamo di sfuggire alla fame e alla povertà, cosa significava viaggiare nella stiva di una nave per settimane laceri e sporchi (non tutti sopravvivevano), com’era l’arrivo dei migranti a Ellis Island, l’accoglienza della polizia e la durezza dell’impatto con un’America piena di sfavillanti possibilità ma durissima per chi non aveva documenti, denaro e lavoro.
Nei titoli di coda Salvatores ci ricorda che, fra il 1950 e il 1985, sono stati 19 milioni gli italiani emigrati negli Stati Uniti senza più fare ritorno. Una fiaba dunque, questo film, ma che tiene gli occhi ben puntati sul presente.
“Viviamo un momento pieno di diffidenza, rancore, a volte di odio – afferma il regista – Mi piaceva fare un film che parlasse di solidarietà, accoglienza, sogni e speranze e, in fin dei conti, di amore, e che raccontasse di come, se guardiamo da vicino chi è diverso da noi, se lo conosciamo, poi possiamo anche volergli bene: il mio è un film che dà una piccola pausa e che fa, spero, pensare e capire che, se ci aiutiamo gli uni con gli altri, possiamo essere anche migliori di come siamo.”
Ricostruire New York a Trieste e a Cinecittà
A proposito di New York, nelle note di presentazione del soggetto ritrovato, Fellini dice di non essere mai stato negli Stati Uniti e di potersi solo immaginare la città, come un posto ‘lontano, mitico, luccicante, magico’.
Ma poi, dopo essere stato finalmente negli Stati Uniti, Fellini scrive. “È dolce New York, violenta, bellissima, terrificante: ma come potrei raccontarla? Solo qui, nel mio paese potrei tentare l’impresa. A Cinecittà, nel Teatro 5, dove qualunque rischio io affronti trovo sempre a proteggermi la rete delle mie radici”.
Su questa base Salvatores ha ricostruito la ‘sua’ New York a Trieste e a Cinecittà:
“E anche quello che scriveva Fellini – prosegue Salvatores – ci ha spinto a ricreare New York in Italia e ad usare i VFX come il Teatro 5. Dal punto di vista narrativo la mancata conoscenza diretta della città americana non nuoce affatto e, anzi, diventa funzionale al racconto. Questa mitica città, vista innumerevoli volte in tanti film, l’abbiamo reinventata in maniera credibile, ma non realistica, così come poteva immaginarla l’Autore e come appare agli occhi dei due scugnizzi napoletani che, come Fellini, non l’avevano mai vista.
Pur stando molto attenti alla ricostruzione degli ambienti, dei costumi e, in generale, del periodo storico, questa particolare visione “magica” di New York, di questo altrove sconosciuto e misterioso, crea un bel contrasto con la descrizione di Napoli, nella prima parte del film, più realistica e ‘vera’. Anche se, nei vari episodi napoletani che raccontano anche momenti drammatici, non c’è mai sofferenza, dolore o rassegnazione, ma la normale aspettativa di potersela cavare, di poter “faticare” per guadagnarsi la vita: quella che oggi chiameremmo “resilienza”.
Le riprese del film si sono svolte nei mesi estivi del 2023 a Napoli, Trieste, Fiume oltre che negli studi romani di Cinecittà; New York è stata ricostruita a Trieste con grande mestiere e tanti espedienti, tra cui ovviamente l’uso del computer: ad esempio tra gli edifici del Porto Vecchio, Salvatores ha ricreato una ‘copia’ dei docks newyorchesi. Ogni tanto, sullo sfondo compaiono immagini della città incollate e riflesse sulle vetrine: arte e artigianato del mestiere del cinema, messi al servizio delle storie da raccontare. Questa scelta ovviamente ha anche consentito al regista di contenere i costi del film.
Una storia bellissima ritrovata in un baule ‘misterioso’
A proposito di storie, è quasi una sorta di giallo quello del reperimento della bellissima ‘sceneggiatura’ di Napoli-New York: Tullio Pinelli, una sera, disse al suo amico Augusto Sainati, professore e critico cinematografico, di avere un baule pieno di scartoffie scritte da lui stesso con Federico Fellini, e gli chiede di prenderlo e di buttare via tutto: Sainati invece prende il baule ma ne conserva il contenuto e, dal baule, come dal cappello, viene fuori la storia del film, con gli appunti redatti a mano da Fellini che lo aveva scritto per un altro regista, il quale poi a sua volta rinunciò. Fellini entra poi in contatto epistolare con registi americani ma alla fine decide di non farne più nulla.
Questa storia ‘ritrovata’ miracolosamente viene poi ripresa ed affidata, per farne un film, a Gabriele Salvatores: il quale è ben felice di avere l’opportunità di trovarsi fra le mani questa preziosa sceneggiatura.
‘Già solo il fatto di essere venuto in possesso di una storia di cui si sapeva poco o niente, mi è sembrato meraviglioso – racconta Salvatores – Quando poi ho letto questa ‘sceneggiatura’ di circa 80 pagine, di Fellini e Pinelli, la meraviglia è diventata desiderio e spinta creativa. Mi è capitato anche di pensare che dalle pagine trovate in un baule di casa Pinelli sia venuta fuori la fantasia di due persone che non erano mai state a New York nella loro vita, fino a quel momento, che guardavano quindi a questa America come a un sogno e che hanno attinto, per raccontare l’avventura dei due protagonisti, alla realtà che avevano intorno e che conoscevano, quella dell’immigrazione, ma per usarla fondamentalmente come una favola di formazione, con un meccanismo di racconto. E mi è poi capitato anche di pensare quanto fosse difficile invece fare una cosa simile oggi, cioè limitarsi a questo”.
Lo stesso Fellini scrive che “Napoli noi la sappiamo raccontare, ma a New York, e in America, non ci siamo mai stati ma ce la siamo un po’ immaginata”. Questa affermazione ha dato a Salvatores la chiave di lettura del film ed ha anche deciso di cambiare il finale del manoscritto originale che, secondo il regista, ad un certo punto era probabilmente stato ‘abbandonato’ e che inoltre manifestava troppa fiducia nel sogno americano.
Da un Fellini non ancora regista
“Ho cambiato un po’ il finale – racconta Salvatores – perché lì c’era troppa fiducia nella capacità del popolo americano di comprendere le difficoltà degli altri, non c’era ad esempio tutto il processo, però è vero anche quello, la prima donna condannata a morte negli Stati Uniti era un’italiana, e loro probabilmente si sono anche ispirati a questo evento per scrivere. In fin dei conti la storia è stata scritta subito dopo la guerra, gli americani ci avevano liberato, erano alti, grandi, ci portavano la cioccolata. Ma tutta la vicenda del processo, compresa la requisitoria dell’avvocato difensore che sono andato a cercarmi, è basata sul resoconto di una commissione speciale istituita negli anni Venti sugli italiani…purtroppo l’America che io ho sempre amato per il suo cinema, la musica e la letteratura, non è più quella che adesso vedo. Il sogno americano a volte può diventare anche un incubo, diciamocelo, con tutto l’affetto che ho per quella nazione, però è così.”
Sull’intera storia del ritrovamento e del manoscritto è uscito in questi giorni un volume, edito da Marsilio e curato da Augusto Sainati, intitolato Napoli-New York: una storia inedita per il cinema, che propone per la prima volta questo soggetto cinematografico dal sapore neo-realista, ripreso nel film di Gabriele Salvatores e scritto nella seconda metà degli anni Quaranta da un Fellini non ancora regista, ma già fertile inventore di molti soggetti con l’inseparabile amico e collaboratore Tullio Pinelli.