Il mio negozio, primo pomeriggio scaldato da un incerto sole primaverile. Colonna sonora “The Return of the She-King” dei Dead Can Dance. Dopo anni che non accadeva, doveva succedere e io dovevo aspettarmelo! La sindrome della pagina bianca che periodicamente colpisce anche il più grafomane degli imbrattacarte si è rifatta viva. Leggo svogliatamente notizie in ordine sparso alla ricerca di uno spunto e rimbalzo da un angolo all’altro della rete come un insonne si rigira nel letto in una notte di ferragosto. Niente, per quanto mi sprema non riesco a trovare uno straccio di idea! Alla fine, per quanto impaurito dalle possibili conseguenze, faccio quello che ogni serio redattore farebbe in questi casi. Chiedo aiuto al grande capo.
Erano almeno cinque anni che non mi capitava una cosa del genere e considerando che l’ultima volta che ho chiesto spunti al grande capo, questi mi rifilò da recensire un corto incentrato sulla figura di un cyborg-omosessuale-nazista-sardo che viaggiava indietro nel tempo per uccidere il Bambino Gesù reincarnato durante la guerra civile in Jugoslavia, direi che tutto sommato stavolta mi è andata di lusso.
A tempo di record mi trovo nella mail un link-stampa per visionare Karamea. Ammetto che ho impiegato circa dieci minuti per pronunciarlo giusto e questo, unito ai precedenti, mi ha procurato una certa apprensione. Invece già dai primi minuti capisco che le mie paure erano del tutto ingiustificate. Karamea infatti non tratta di qualche strano culto post-salviniano in cui si evocano i Grandi Antichi e nemmeno di crudeli pratiche sessuali in qualche modo connesse ai libri di Fabio Volo, ma è un documentario sullo sviluppo sostenibile incentrato su una piccola, isolata e invidiabile comunità neozelandese.
Il film, un prodotto italiano, per la regia di Marco Gianstefani, rientra a pieno nel filone della documentaristica impegnata che, dopo il rilancio operato nei primi anni del nuovo secolo da Michael Moore, sta vivendo una lunga e fortunata stagione di successi e sperimentazioni andando a sviscerare le innumerevoli problematiche della società contemporanea.
Negli ultimi 15 anni credo di aver visto trattare le più svariate tematiche. Politica, guerra, economia, alimentazione e ovviamente ambiente. Quello che non mi era mai capitato per le mani però, era un prodotto simile, con un taglio fresco e dinamico, una fotografia calda e avvolgente, un ritmo azzeccato, giovane e a tratti scanzonato che raramente si trova nella odierna documentaristica italiana la quale troppo spesso confonde impegnata con noiosa.
Indubbiamente un film che inizia con un preambolo sulle responsabilità del consumo critico, mettendo in guardia dai bisogni indotti, dal feticismo delle merci e dall’alienazione data dall’utilizzo compulsivo delle nuove tecnologie, non poteva che predispormi positivamente alla visione. Infatti per me, che non possiedo smartphone, social network e continuo a comunicare usando solo la mail e un vecchio nokia 8700, è praticamente impossibile non provare empatia con i protagonisti del documentario, riconoscendomi in moltissime delle loro ragioni.
Dopo l’introduzione al tema dello sviluppo sostenibile affidata alle parole del professor Adam Bumpus dell’università di Melbourne, inizia il film vero e proprio con un classico taglio “road movie” in questo caso inevitabile, perché la comunità in oggetto si trova proprio alla fine di una strada che porta alla punta estrema della Nuova Zelanda. La strada è il filo conduttore, la chiave che apre lo scrigno delle immagini che circondano la lingua d’asfalto con i loro contrasti, tra campi coltivati e nebbiose colline ricoperte da alberi che rimandano al “Fitzcarraldo” di Herzog.
Dopo una presentazione generale della comunità, la camera ci accompagna fin dentro a conoscere uno per uno i membri più rappresentativi con le relative storie. Il montaggio gioca su una omogeneità tra le persone intervistate e il territorio che vivono, dando veramente l’idea che siano un tutt’uno.
Sapiente è il contrasto tra le singole interviste incentrate sull’individualità di ognuno, con il percorso che lo ha portato in quel luogo e i momenti collettivi che scandiscono la vita a Karamea. L’elemento della vita e delle attività in comune è sostenuto anche da un’azzeccata e discreta scelta musicale della colonna sonora a tratti anche retrò che contribuisce a dare al tutto un’atmosfera alla sunshine family.
Una scelta un po’ furbesca se vogliamo, studiata per rendere il tutto in modo più appetibile ad un pubblico di 20-30-40enni nati e cresciuti in ambienti cittadini e che magari non troverebbero proprio una festa passare il sabato pomeriggio a rigirare compost (letame, per capirci) in un orto. Però, leggerissime forzature a parte, l’approccio è corretto e centra il bersaglio che è quello di far capire attraverso tante singole vicende, di cui si compone la storia di tutta la comunità, che ognuno è parte di un “uno” più grande che è la specie umana e che questa a sua volta è parte dell’universo che la circonda.
Personalmente non credo che l’obiettivo di Gianstefani fosse quello di convincere una massa di commercialisti metropolitani che spalare letame sia una cosa esaltante. Leggendo tra i fotogrammi si capisce, anche in modo esplicito, che la vita è equilibrio. Un equilibrio in cui viviamo e da cui traiamo vita. Un equilibrio che sempre più spesso rompiamo, avvicinandoci al punto di non ritorno, spesso per cose di cui non abbiamo bisogno e che in fondo non ci rendono nemmeno felici.
Onestamente, chi di noi, eccetto medici, primi ministri e responsabili di centrali nucleari ha veramente bisogno di essere connesso 24 ore su 24? E onestamente, quanto di questa socialità virtuale che pratichiamo spesso senza raziocinio, si traduce in una vera socialità che riempie le distanze tra gli esseri umani facendoci sentire meno soli e indifesi?
Questo film, come dice anche uno dei protagonisti, non vuole certo salvare il mondo, ma vuole insegnare ad ognuno di noi a salvare il mondo nel suo piccolo. Un film sicuramente da vedere per capire che un altro mondo è possibile e che anche attraverso piccole scelte quotidiane ciascuno di noi lo può costruire.