Nonostante la presenza di un cast di tutto rispetto, all’interno del quale spicca centrale la sempre elegantissima e impeccabile Isabelle Huppert, ma non passano inosservati neanche Brendan Gleeson e Marisa Tomei, viene istintivo chiedersi come un film come Frankie di Ira Sachs, possa essere stato selezionato per la competizione ufficiale di una manifestazione della caratura del Festival di Cannes. Non si tratta di un opera di scarsa qualità o deprecabile in alcun modo ma semplicemente è un film troppo debole, poco incisivo, privo di qualsiasi intensità, senza alcun guizzo o elemento di rilievo, perché possa trovarsi all’interno di una competizione così importante, in corsa per un premio come la Palma d’Oro.
Ira Sachs mette in scena una giornata della vita di un gruppo di persone che si riuniscono in una casa di vacanza a Sintra, in Portogallo, e lì si confrontano tra loro, spaziando tra vari argomenti e mettendo in atto le loro dinamiche relazionali. Isabelle Huppert è Françoise Cremon, un’attrice di fama internazionale che riunisce per un’ultima vacanza le persone a lei più care, i figli, i suoi due mariti, la sua amica, prima di morire a causa di un tumore. A parte la sempre godibile visione della Huppert, anche nel suo semplice muoversi e parlare (qui la vediamo esprimersi sia in inglese che in francese) e la moderata apprezzabilità dei luoghi mostrati, non c’è molto altro. Il genere intrapreso da Sachs vorrebbe probabilmente richiamare o riprodurre uno stile simile a quello delle commedie di Woody Allen o di Peter Bogdanovich, con un palese ampio scarto di personalità ed esperienza che determina un risultato decisamente più modesto, sbiadito e meno significativo. In realtà, il regista non fa niente di veramente sbagliato, non ci sono elementi di disturbo o francamente criticabili nel suo lavoro, niente che si possa condannare, ma non c’è nemmeno niente che possa coinvolgere in modo particolare, che possa essere ricordato o che sia degno di nota. Non vi è una narrazione vivace che possa mantenere viva l’attenzione dello spettatore, non c’è una fotografia particolarmente rilevante che possa incrementare il valore estetico dell’opera; in un film in cui i dialoghi sono così centrali, non sono abbastanza brillanti o arguti da intrattenere il tanto necessario da rendere appagante la visione. Anche il contesto sociale scelto non favorisce l’interesse dello spettatore, nel senso che si tratta di persone e luoghi appartenenti a una classe borghese che, per quanto generalizzando, vive in un mondo che non si distingue certo per valori e profondità, quindi anche nei contenuti degli argomenti trattati non ci sono riflessioni filosofiche o scambi particolarmente stimolanti. C’è una certa ironia, appannaggio soprattutto del personaggio della Huppert, sempre in parte nei panni di una ex diva sarcastica e un po’ dispotica, ma nulla di indimenticabile.
Insomma, non si può non valutare non all’altezza della situazione e in ogni caso trascurabile la visione di questo lavoro poco consistente, nella speranza che il regista statunitense torni nei prossimi progetti a intrattenerci con maggiore abilità, che dato il suo precedente e decisamente più soddisfacente Love is strange, siamo certi non gli manchi.