Un superlativo Pierfrancesco Favino, diretto da un altrettanto straordinario Marco Bellocchio, ha elevato la partecipazione dell’Italia alla 72° edizione del Festival di Cannes, con un unico film, Il traditore (2019), portando alla Croisette uno spaccato fedele e efficacissimo di uno dei periodi più mesti della storia del nostro paese. Bellocchio sceglie una narrazione lineare accorata e in qualche modo solenne, che si differenzia molto dal quella più astratta e distaccata con la quale si era espresso in Buongiorno, notte, altro film biografico che si può ricondurre allo stesso genere, raggiungendo un risultato più coinvolgente e suggestivo.
Il Tommaso Buscetta di Bellocchio, interpretato da un Pierfrancesco Favino probabilmente nella miglior performance della sua carriera ci viene presentato dal regista come una figura complessa e sfaccettata, che nello stesso tempo è un personaggio emblematico, un “mito”, come lui stesso si definisce e percepisce, il che lo porta a vivere la sua vita e le situazioni che deve affrontare in modo mai troppo presente a se stesso, mai troppo autentico, come se fosse sempre su un palco, in un perenne teatro, che è l’unica condizione in cui riesce a gestire una dimensione contraddittoria e difficilissima nella quale non può più né riconoscersi nell’organizzazione in cui ha sempre creduto e che si ostina a dire di non aver tradito (a discapito dell’odio riservatogli in seguito alle sue dichiarazioni come collaboratore di giustizia), né in qualcuno che si è redento e che potrebbe mai essere considerato irreprensibile. Così vive i panni di un personaggio, un uomo che probabilmente non è accessibile nemmeno a se stesso, che in qualche modo lo protegge sia dagli altri che dalla propria coscienza.
Nello stesso tempo Bellocchio, proprio caratterizzandone il personaggio e tratteggiandone egregiamente i confini, si avvicina e ci consente di avvicinarci enormemente alla dimensione più umana di Tommaso Buscetta, al suo conflitto interiore, ai suoi vissuti; paradossalmente riesce a valicare le difese imposte dal personaggio creando una connessione con un’interiorità così inaccessibile e lo fa senza che quell’emotività venga quasi mai esplicitata, lo fa attraverso le espressioni e l’abilità di Favino che, afferma lui stesso, di aver compreso subito che la difficoltà più grande del vestire i pani di quest’uomo sarebbe stata il riuscire ad andare oltre il fatto che di lui nessuno ha mai visto gli occhi, al di là dell’immagine che ne hanno dato le sue interviste, accedere a quello che era la sua persona.
Grandi prove attoriali anche per quel che riguarda tutto il resto del cast, che si dimostra totalmente all’altezza dell’alto livello raggiunto dall’opera, tra gli altri, un grande Luigi Lo Cascio nei panni di Totuccio Contorno e Fabrizio Ferracane che incarna Pippo Calò. Nonostante si tratti di una storia ormai tristemente nota anche nei suoi particolari alla maggior parte degli italiani, Bellocchio riesce a restituirne aspetti propri e a interessare lo spettatore cogliendone l’essenza in un modo personale. Lo spazio probabilmente più prezioso e di maggiore impatto è quello riservato al progressivo sviluppo della relazione tra don Masino Buscetta e il giudice Giovanni Falcone che viene rappresentato in modo molto contenuto e sommesso ma da cui emerge una forte intensità. La ricostruzione storica è molto accurata e supportata da tante ricerche, sia da parte degli sceneggiatori, che del regista e degli attori. Ci sono voluti tanti mesi prima di raggiungere un risultato che soddisfacesse chi ha lavorato al progetto. Sembra che l’ultima versione della sceneggiatura fosse l’undicesima.
Il Buscetta di Bellocchio, come lui stesso afferma, non è un eroe, è qualcuno che ha fatto delle scelte per salvare la propria vita e che le ha fatte in modo tutto sommato conservativo, ribadendo e non rinunciando a dei valori che riconosceva propri, per quanto tali possano essere chiamati (come lo stesso Falcone gli fa presente), semmai sentendosi lui stesso tradito nel non rispetto di questi da parte di Cosa Nostra, e per questo avverte in qualche modo legittimata la propria scelta di collaborare con la giustizia. Il regista ne esprime egregiamente tutte le contraddizioni senza assumere mai una netta posizione né critica, né benevola nei suoi confronti, ma restituendone semplicemente la sua visione, facendolo vivere e muoversi all’interno della descrizione di un contesto storico e situazionale solido e ben strutturato. Quindi, una grande prova, quella italiana alla Croisette, con la quale Marco Bellocchio torna ai suoi massimi livelli, dopo l’ultimo Fai bei sogni, forse un po’ sottotono rispetto alle sue grandi doti.
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