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I banditi di Ultracinema: intervista ai registi della Blow-up Academy

Ferrara diventa terreno di esordio per il cinema più impuro: i giovani autori della Blow-Up Academy debuttano a Ultracinema Art Festival

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I giovani autori di un cinema che "va oltre" esordiscono ad Ultracinema Art Festival con dei cortometraggi dalla Blow-up Academy

La primissima edizione di Ultracinema Art Festival (qui il sito ufficiale), dall’11 al 13 dicembre, ha portato nella bellissima città di Ferrara un tipo di cinema che non verrà mai dimenticato, fatto di corpi, di sensibilità e di forza. Ultracinema, diretto artisticamente da Jonny Costantino, è un festival nato per dare spazio a visioni radicali, ibride, lontane dalle convenzioni, dove il cinema si contamina con altre arti e diventa un’esperienza fisica ed emotiva.

Durante l’ultima giornata del festival abbiamo seguito da vicino l’esordio dei giovani registi della sezione Ultrablow. Immergendoci nel contesto vivo e pulsante dell’evento, è stato possibile confrontarsi con gli autori, studenti della Blow-Up Academy, dalle voci nuove e affamate. Un dialogo diretto con chi non si limita a osservare il cinema, ma lo attraversa, lo sporca e lo reinventa.

Fabio Bertasi, autore di Blendung

Ultracinema Blow-up Academy - Fabio Bertasi Blendung

Frame estratto da Blendung, gentilmente concesso dal regista Fabio Bertasi e Ultracinema Art Festival

Come nasce l’idea di questo cortometraggio? E il titolo, Blendung?

Tutto è partito una sera d’estate, mentre tornavo a casa. Stavo percorrendo la solita strada al buio, tutto tranquillo, quando all’improvviso, in mezzo alla strada, è comparsa una ragazza che faceva l’autostop. Mi sono letteralmente ghiacciato mentre guidavo, ho sterzato di colpo, sono finito nell’altra corsia e per poco non facevo un incidente per schivarla.

Quello che mi è rimasto impresso è stato il suo volto, non me lo sono più tolto dalla testa. Da lì è nata una grande rabbia nei suoi confronti, perché ho pensato che avrei potuto ucciderla e che quella cosa avrebbe potuto rovinarmi la vita. È brutto da ammettere: da una parte speravo che non fosse morta, dall’altra ho persino pensato che qualcuno l’avesse potuta uccidere al posto mio, perché avrebbe potuto davvero distruggermi la vita.

Per quanto riguarda il titolo, Blendung significa “abbaglio” in tedesco, perché me la immagino abbagliata improvvisamente dai miei fari in quella notte buia e solitaria.

Da quale necessità o impulso sei partito per creare questo lavoro?

Ho cercato di ripercorrere la storia di questa ragazza, capire cosa l’avesse portata a trovarsi in mezzo alla strada. Mi sono chiesto perché fosse lì e mi sono detto: ricreiamo una storia, ricreiamole un background che la porti ad arrivare proprio su quella strada, in quel momento preciso, in quell’esatto istante in cui passavo io.

Mi sono ispirato molto a Philippe Grandrieux, che secondo me sviscera perfettamente il tipo di cinema che piace a me. Ho preso molte ispirazioni dai suoi film, in particolare Sombra e La vie nouvelle. Sombra inizia con una macchinina che percorre una strada ed è esattamente la stessa immagine che c’è all’inizio del mio film. Non volevo però girarla con un drone, perché i droni non mi piacciono, quindi ho registrato lo schermo della PlayStation 2 di un videogioco con una macchinina che va avanti lungo la strada.

Matteo Lusvardi, autore di In Heaven

Matteo Lusvardi In Heaven

Frame estratto da In Heaven, gentilmente concesso dal regista Matteo Lusvardi e Ultracinema Art Festival

Il corto ha un sound design molto particolare e distintivo: cosa ti ha spinto a optare per questa scelta sonora?

Diciamo che tutto parte dall’immagine. L’immagine mi ha suscitato, diciamo, questi suoni.

Quale sensazione volevi far emergere attraverso l’ambientazione? E quali sono i luoghi a te più cari che ami riprendere?

Volevo che potessero immergersi in un mondo scuro, un po’ oppressivo. Principalmente sono stato in chiese o comunque luoghi abbandonati, come lo zuccherificio. Di solito vado in questi posti isolati per fare delle riprese.

Abbiamo notato che le immagini sono ferme e decadenti, eppure si percepisce una vibrazione e una vita in movimento. Questo effetto era voluto? Che significato ha, secondo te, questo contrasto?

Sì, secondo me, il fatto di avere immagini ferme ma dei suoni, e soprattutto delle zone in ombra molto buie, lascia spazio all’immaginazione dello spettatore. È come se fosse lo spettatore a creare il movimento con la sua immaginazione.

Gabriele Piccolo, autore di I Corpi Degli Altri

Gabriele Piccolo I corpi degli altri

Frame estratto da I Corpi Degli Altri, gentilmente concesso dal regista Gabriele Piccolo e Ultracinema Art Festival

Genesi della danza fra gli attori Manuel Benati e Thomas Borgatti: come nasce la scena della danza? Quale è stata la preparazione per arrivare a quel momento?

Per quanto riguarda la danza è stata estremamente naturale, nel senso che non abbiamo fatto delle prove prima. Abbiamo lavorato sui personaggi, ma li ho lasciati liberi di mettere la musica che volevano e ambientarsi nello spazio. È nata in modo genuino, perché a casa hanno fatto il lavoro sul personaggio e poi si sono trovati sul set.

Mi sono sorpreso anch’io, perché non sapevo cosa potesse uscire da quella connessione. Volevo che fosse una cosa naturale ed è uscito quello che è uscito, sono stati bravi loro a trovare l’interazione giusta.

Come ti sei rapportato con la sceneggiatura del tuo lavoro? Com’è nato il soggetto?

Come ho detto all’inizio della proiezione, è nato tutto dopo un avvenimento di vita reale, vissuto. Nel corto c’è un incidente di cui ho vissuto la dinamica e ho deciso di riportarla. È partito tutto dalla scena dell’incidente, quasi come una scusa per costruire in realtà un corto.

Il corto non parla dell’incidente, ma è un discorso molto più ampio. L’ho scritto io partendo da quello e non è un corto che parla di quella singola dinamica, ma di un individuo che si rapporta agli altri in determinati modi.

E invece per il sonoro? Cosa ti ha ispirato?

Per la musica avevo le idee chiare riguardo alla scena in auto, quando il personaggio di Tommy si ritrova ad ascoltare John Zorn. Avevo già in mente di utilizzare quella musica lì. Nella scena iniziale invece ci ho lavorato con un ragazzo in separata sede.

Per quanto riguarda il sonoro e l’audio, ho lavorato quasi tutto in presa diretta, usando quello che avevo. Non ho modificato molto, ho mantenuto gran parte di ciò che c’era. Qualche elemento l’ho ritoccato, ma la maggior parte è audio originale, su cui poi ho giocato un po’, montando parti prese da alcune scene anche in altre diverse.

Per il voice over è stato un lavoro molto diverso: il dialogo l’ho costruito e montato con tre o quattro registrazioni differenti. I suoni ambientali, invece, li ho registrati da solo a casa e li ho aggiunti successivamente, unendo diversi suoni, come il sottofondo della macchina preso dalla scena dell’auto.

Davide Roca, autore di Silent Light

Davide Roca Silent Light Ultracinema Blow-Up Academy

Lucia Bertera in Silent Light, frame gentilmente concesso dal regista Davide Roca e Ultracinema Art Festival

Da dove è arrivata l’ispirazione per questo corto? Cosa ti ha spinto a realizzarlo?

Quello che mi ha ispirato è ciò che mi interessa esplorare attraverso il linguaggio cinematografico: il rapporto tra gli esseri umani. La possibilità del contatto, le vicinanze e le distanze, tutte le sfaccettature che viviamo nel relazionarci con l’altro.

Il confronto con l’altro, il contatto con l’altro, la ricerca dell’altro: è questo.

In che modo, tramite un corto, l’immagine ti ha permesso di esprimerti più della parola?

Forse, perché faccio più attenzione a quello inconsciamente. Mi sento più rivolto verso lo sguardo. Sono tanto abituato a parlare quanto a guardare, ma pongo più attenzione su quello che vedo e sull’esprimerlo effettivamente.

Mi viene più naturale farlo con l’immagine. A volte con le parole mi perdo e non riesco a dare la stessa intensità che vorrei dare a quello che sento.

Come ti sei relazionato al concetto di nudità e corpo nel corto?

Ho voluto rappresentare due facce della stessa medaglia: la lontananza e la vicinanza, cioè l’avvicinamento estremo al corpo e la lontananza fisica dei corpi. La scena della nudità del corpo rappresenta il passaggio ultimo nel confronto col corpo dell’altro, il contatto intimo, mentre l’ultima inquadratura mostra due corpi distanti che ancora non si sono avvicinati e vivono questa tensione, questa possibilità di incontrarsi. Secondo me non poteva esserci uno senza l’altro.

Le clip di Lucia fanno parte di un altro lavoro che poi ho smembrato perché non mi soddisfavano nel dispositivo iniziale e quello che lei mi restituiva tramite quelle immagini calzava perfettamente con il dispositivo che stavo costruendo.

Manuel Benati, autore di Lo Stato Del Silenzio

Manuel Benati Lo Stato Del Silenzio

Ferdinando Colliva, Samuele Barboni ed Edoardo Querzoli in Lo Stato Del Silenzio, frame gentilmente concesso dal regista Manuel Benati e Ultracinema Art Festival

Come mai senti l’argomento delle forze dell’ordine così vicino a te?

Come dicevo prima della proiezione, in realtà non mi sarei mai sognato di fare un progetto su questo tipo di argomento, nonostante abbia a cuore raccontare qualsiasi sopruso, abuso di potere o ingiustizia. Vale la pena parlarne.

Tutto nasce dalla proposta di Stefano Muroni (fondatore della filiera Ferrara la Città del Cinema e presidente onorario di UAF) di farmi dirigere il film su Federico Aldrovandi. Dopo averci pensato, mi sono chiesto cosa potessi dare a questa storia e la cosa che mi interessa di più affrontare è il tema della diversità. Come, all’interno di gruppi sociali, di cerchie ristrette, ci siano queste differenze. In alcuni gruppi vengono accettate serenamente, in altri vengono represse. Da lì nascono situazioni più difficili, situazioni di abuso di potere, violenza e divergenze e mancanza di rispetto di questa diversità.

Che tipo di lavoro hai fatto con gli attori? Su cosa ti sei basato per sceglierli?

Avevo bisogno di due attori che fossero due energie diverse, ma che esprimessero una fortissima vitalità. Quello che ho fatto è stato riconoscere questa vitalità nel mio quotidiano. Per esempio, i miei amici, Ferdinando e Samuele, li conosco e so come sono, quindi erano perfetti per il ruolo. In realtà, il cortometraggio è stato scritto proprio su di loro: non li ho scelti, il progetto li ha scelti.

Per quanto riguarda il lavoro con gli attori, abbiamo fatto tanta improvvisazione sulla sceneggiatura e poi abbiamo limato. Li ho lasciati molto liberi all’inizio per poi togliere, togliere, togliere. Come nella scrittura, anche nella regia e nella direzione dell’attore bisogna saper togliere invece che inserire.

Lorenzo Saiani, autore di L’Enfer Est Réel

Lorenzo Saiani L’Enfer Est Réel

Frame estratto da L’Enfer Est Réel, gentilmente concesso dal regista Lorenzo Saiani e Ultracinema Art Festival

Come sei arrivato a concepire questo tipo di impianto?

La versione originale dura 52 minuti e diventerà anche più lunga. È nata vivendo, vivendo essenzialmente l’estate. Non ho scritto nulla, ho solo preso la camera. Avevo in mente di fare un lavoro con una certa durata e un certo peso. Ho ripreso il bello che vedevo intorno a me, senza una logica narrativa.

Poi l’ho montato. È stato fatto letteralmente da luglio a settembre e l’ho finito a fine mese. La versione che avete visto è l’ultima e si è prolungata fino a un paio di settimane fa.

Quali sono stati i tuoi maestri per questo lavoro?

L’influenza principale, soprattutto nella fase iniziale, è Brakhage, senza dubbi. Nella seconda parte del lavoro di questa versione, dai due puntini che si incontrano in poi, c’è moltissimo della visione di Fassbinder. Il Fassbinder di Berlin Alexanderplatz, nello specifico. L’autore non lo conosco bene, ma l’opera sì: Pharos of Chaos è ampiamente citata verso la prima metà del lavoro. Altri registi che mi piacciono, come Cassavetes e Welles, sono presenti in piccola parte.

Attraverso questo lavoro, lo scopo principale è andare oltre, superarsi, superare ogni limite che la persona può avere. Questo vale sia dal punto di vista artistico che nella vita, quindi avere la forza di rivedersi, rispecchiarsi, distruggersi, ricostruirsi e rielaborarsi in questa distruzione e ricostruzione continua.

Come ti sei sentito dopo aver concluso il cortometraggio?

Quando l’ho finito mi sono sentito svuotato, svuotato di tanti pesi. Mi sono fermato un attimo, a riflettere e a metabolizzare, finché non è arrivata l’idea di proseguire con questa ricerca.

Ora l’ho rivisto, avevo a fianco i miei genitori, ed è stata un’esperienza molto particolare, specialmente nella parte su mio nonno materno. È stato strano. Bello, ma strano allo stesso tempo, proprio per questa energia particolare che sentivo accanto, da parte di mia madre.

Beatrice Conte, autrice di Strani Attrattori

Beatrice Conte Strani Attrattori

Frame estratto da Strani Attrattori, gentilmente concesso dalla regista Beatrice Conte e Ultracinema Art Festival

Quali autori o opere ti hanno ispirata?

Di registi, mi ha ispirata Tarkovskij. Dei suoi film, direi Stalker e Solaris. Anche Memories di Ōtomo, infatti ho inserito la musica di Memories. Per il testo che ho usato, le frasi che ci sono in mezzo, stavo leggendo in quei giorni Cărtărescu, il suo romanzo Solenoide e Abbacinante.

Come hai realizzato la scena finale, quella con il cambio di stile dall’animazione?

L’ultima scena è diversa perché l’idea era che le immagini dovessero prendere più corpo, quindi si sviluppa in tre dimensioni. Abbiamo fatto una costruzione con il DAS e poi è stata animata a passo tre o a passo due.

 

 

 

Un ringraziamento speciale a Daniele Nizzoli, Letizia Cenerini, Riccardo Forti, Eleonora Piana, Jasmine Simione, Mariachiara Iannizzotto, Alessia Schipani, Giorgia Faietti, Miriam Casadio e a tutto il team di Ultrapress, coordinato da Ylenia Politano, di Ultracinema Art Festival.