“Girato nel corso di un anno scolastico del Celio Azzurro – la piccola scuola materna che dal 1990 (e, per merito dei tagli ministeriali, non si sa per quanto ancora) è un centro multiculturale per l’accoglienza di bambini stranieri in età prescolare – il film di Winspeare è un documentario che aiuta a ripensare il nostro essere (animali sociali) al mondo.”
No, non si tratta di una favola, come se ne annuncia in sottotitolo, relegando il progetto a vacanza utopica, ma piuttosto di un riuscito esperimento di integrazione e di interazione. Tra generazioni, tra ruoli, tra colori della pelle, tra Paesi di provenienza, tra abitudini enogastronomiche e sociali. Con un comune denominatore, il far fronte unitario nei momenti di avversità, quando il presenta frana sotto i colpi del tempo o delle sciagurate decisioni di chi ci “rappresenta” politicamente.
Girato nel corso di un anno scolastico del Celio Azzurro – la piccola scuola materna che dal 1990 (e, per merito dei tagli ministeriali, non si sa per quanto ancora) è un centro multiculturale per l’accoglienza di bambini stranieri in età prescolare – il film di Winspeare è un documentario che aiuta a ripensare il nostro essere (animali sociali) al mondo, cogliendo quell’emblematica comunità nascosta al centro di Roma senza mai fare un’intervista, ma piuttosto – come scrive lo stesso regista – <<assorbendo con la telecamera e con il cuore il carisma didattico dell’eterogeneo gruppo di maestri della scuola che, per insopprimibile missione, sviluppano la fantasia, la creatività, la capacità di relazionarsi con l’altro, di non aver paura della vita>>.
Una comunità, quella del Celio Azzurro, senza classi né divisioni, che vive senza “costipazioni”, nell’entusiasmo della condivisione, fabbricando affetti che si sperano imperituri. Senza schermi (protettivi o mediali-virtuali), recuperando la manualità, la conoscenza e l’uso del corpo, all’interno di un luogo in fruttuoso dialogo con la natura (quella esterna e quella umana). In spazi aperti, fisici e mentali, dove nessuno è additato come diverso, e in cui piuttosto si respira, si coltiva un orto, si corre e si ride. Un luogo in cui ci si può raccontare, cementando la collettività attraverso il gioco, quell’espediente che permette di cambiare il punto di vista e invertire una nefasta rotta che le leggi dell’esclusione e della separazione stanno perpetrando su larga scala.
Un film che prende posizione con coscienza e fermezza, facendo parlare una temporalità fatta di gesti quotidiani, di resistenza alle intemperie e di slanci emotivi, di confronti, scontri, di gestione ironica dei conflitti, offrendo un esempio in controtendenza rispetto alla creazione di nuovi ipocriti recinti identitari o a nuove invenzioni di etnie i cui contorni non possono essere modellati che dalle corporazioni al potere.
Il Celio Azzurro è una gioiosa utopia sempre sull’orlo di crollare in amara malinconia. Quella dei bambini, meteore umane che da quel fenomeno confuso e balbettante che sono tra 3 e 5 anni – esempi irripetibili di infanzia non ancora macchiata e ferita dal mondo – non si sa cosa (non) diventeranno una volta “usciti fuori”. Quella dei maestri, autoproclamatisi “in estinzione come gli artigiani” (non casuale allora sembra il ricorso alla manualità). Quella del tempo che passa (Winspeare fa regredire progressivamente i maestri, con un montaggio di istantanee, a neonati in bianco e nero). E forse anche quella del cinema che, attraverso una pellicola, in altri tempi ha pensato e sognato di poter cambiare il corso delle cose.
Salvatore Insana
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