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Tom à la Ferme di Xavier Dolan

Dolan firma un’opera forse un po’ più debole rispetto alle altre, ancora molto dipendente dal suo ipertrofico ego, che per quanto ben inserito, è sempre onnipresente nel suo lavoro, con la differenza che in questo caso è molto meno compensato da elementi di originalità e di valore, ma dimostra comunque delle grandi doti nel suo mestiere, una cura maniacale di tutti i particolari che contribuiscono al raggiungimento dei suoi obiettivi e una grande determinazione nel produrre dei risultati in definitiva più che apprezzabili

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Presentato in concorso, alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013, Tom à la Ferme esce in Italia soltanto in questi giorni. Al suo quarto lungometraggio, Xavier Dolan, dopo J’ai tua ma mere, Les amours immaginaires e Laurence Anyways,  era stato ammesso per la prima volta in gara in una manifestazione così importante, novità alla quale poi ha fatto l’abitudine, considerato che entrambe le sue opere successive, Mommy e Il più recente Just à la fin du monde, sono state non solo accolte ma premiate con i migliori riconoscimenti alle corrispondenti edizioni del Festival di Cannes.

In particolare, l’ultimo lavoro del regista canadese ha ricevuto quest’anno Il Gran Premio della Giuria, fattore che probabilmente ha indotto la distribuzione italiana a dare valore ai suoi film precedenti e meno noti, offrendo così al pubblico nostrano la possibilità di apprezzarli in sala.

La pellicola è un adattamento della pièce teatrale dal medesimo titolo di Michel Marc Bouchard, drammaturgo connazionale con il quale Dolan ha collaborato con particolare entusiasmo in questo progetto nell’autunno del 2012, scegliendo questa volta di inoltrarsi e sperimentarsi nel genere del thriller psicologico.

Come dichiarato dall’autore, che ancora una volta, scrive, dirige e interpreta il suo film, Tom à la ferme avrebbe dovuto rappresentare un cambio di direzione rispetto ai suoi lavori precedenti, nei quali è sempre stato centrale il tema dell’amore impossibile, quasi a identificare una (così definita da Dolan stesso) involontaria trilogia; anche se poi, nonostante gli intenti, sia per dinamiche che per tematiche, il cambiamento probabilmente è risultato essere meno drastico di quanto lo stesso autore si era prefissato. Nel senso che, per quanto il focus sia centrato apparentemente su emozioni come la paura e su vissuti di tensione, e per quanto la narrazione, oltre ad essere meno esplosiva e drammatica rispetto all’intensità del sentimento che si manifesta in tutte le forme, non solo negli altri tre film anche in quelli successivi, sia avvolta da un’atmosfera molto più rarefatta, anche in questo caso si respirano identità represse, conflitti interiori profondi ed è palpabile la sofferenza relativa a una relazione non condivisibile, non riconosciuta, nemmeno quando vissuta nell’ineluttabilità della morte. Quindi, permane il senso di inaccessibilità, l’assenza di libertà di poter vivere il proprio essere per quello che è, e anzi, forse in Tom à la ferme queste tematiche son anche un pochino più scontate o quantomeno comunicate in maniera meno originale e potente, rispetto ai lavori precedenti.

Elemento di novità invece, non nel senso che non sia mai stato trattato, ma nella poetica di Dolan, perlomeno fino all’uscita di questo film, è il vivere questo non riconoscimento e questa alterità nel terrore, nella paura per la propria incolumità, l’essere vittima di mentalità arretrate, ignoranti e limitate e subire il paradosso di dover aver paura di qualcosa che è generato da nient’ altro che altra paura. Paura di ciò che non si conosce, di ciò che non verrà accettato, di ciò che potrebbe mettere in crisi un’immagine di sé precostituita, vincente, e in quanto maschile, forte e dura, rinchiusa in stereotipi che tengono prigioniera qualsiasi spontaneità o empatia verso ciò che viene percepito come diverso e, quindi, una minaccia. Ancora una volta, una madre problematica, collaterale nella narrazione ma non per questo meno ingombrante, apparente causa del non detto gigantesco che aleggia nell’aria, pesante come il piombo, consistente quasi si potesse toccarlo, e della conseguente tensione indicibile che ne deriva. Affettivamente inadeguata, incongrua anche nella mimica e nelle espressioni emotive. Ride, piange, si stranisce, si arrabbia, più o meno indipendentemente dagli stimoli. Apparentemente inconsapevole di un segreto tenuto in piedi ufficialmente dalla paura di destabilizzarla, ma retto e alimentato da qualcosa di molto più profondo, magari forgiato anche dalla sua educazione, ma ormai insito, radicato e individuabile nell’incapacità di uscire da una struttura rigida e stereotipata, che non prevede debolezza, non concepisce dolcezza, che copre qualsiasi parvenza di vulnerabilità con arroganza e violenza, perché vissute come difetti e soprattutto come prerogative che si può scegliere di non possedere. Salvo poi venir fuori apparentemente incoerentemente in un valzer, nel prendersi cura di una ferita che si è consapevoli di aver procurato, o nell’incapacità di separarsi da ciò che tanto si teme, confermando il bisogno e l’impossibilità di viverlo.

Violenza e arroganza molto ben espresse e comunicate da Pierre Yves Cardinal, interprete maschile nei panni di Francis, grossolano e insopportabile contadino ottuso, vittima dei suoi limiti e carnefice allo stesso tempo, probabilmente il personaggio più interessante del film.

Così, Tom, per quanto libero di essere se stesso e di palesare la sua verità, è invece succube della propria solitudine, e seppur per breve tempo, rischia di scegliere un’asfittica e claustrofobica “normalità” distorta in cui si sente voluto, al respirare la propria aria, a vivere nel proprio corpo e con le proprie istanze, pur di non rimanere da solo. Ma per fortuna, bastano poche ore perché l’orrore delle inevitabili conseguenze di determinate aberrazioni, si riveli in tutta la sua atrocità e lo risvegli come una doccia fredda, dandogli l’energia e la forza di riprendersi la sua vita. Purtroppo, simili ristrettezze mentali e conseguenti discriminazioni e abusi sono presenti dappertutto, ma nel film l’entità della distanza e della paura del diverso è amplificata dallo scarto esistente tra un contesto cittadino probabilmente più emancipato, da cui proviene il protagonista, e l’ambiente più arretrato di un contesto isolato come quello di un villaggio rurale.

Dolan firma un’opera forse un po’ più debole rispetto alle altre, ancora molto dipendente dal suo ipertrofico ego, che per quanto ben inserito, è sempre onnipresente nel suo lavoro, con la differenza che in questo caso è molto meno compensato da elementi di originalità e di valore, nel senso che una narrazione molto più scarna e in parte più ovvia e un’ambientazione per quanto suggestiva, così essenziale, probabilmente tolgono qualcosa al suo solito brillante potenziale. Inoltre, l’abituale estrema esposizione della propria intimità potrebbe rivelarsi essere un’arma a doppio taglio per Dolan, nel senso che denota un’autenticità e una genuinità, dalle quali il passo all’eccessivo protagonismo in un film che non possiede l’energia e le qualità degli altri può essere molto breve.

Riguardo l’ambientazione, Dolan racconta che la pièce comprendeva soltanto dieci scene che si svolgevano tutte in tre soli ambienti, una camera da letto, una cucina e un granaio, mentre lui ha sentito l’esigenza di inserire dei contesti alternativi, dando la possibilità al suo protagonista di muoversi in spazi esterni, che potessero amplificare la tensione generata in quelli interni, nella previsione che egli dovesse o potesse rientrarvi. Questo racconto è indice di quanto per il regista fosse importante curare il vissuto di paura e di angoscia, che avrebbe dovuto essere il perno di quest’opera e della sua evoluzione autoriale.

Stesso obiettivo ha cercato di ottenere nella cura della colonna sonora. Nel progetto iniziale di Dolan, sempre in virtù dell’intenzione di operare un grande cambiamento nel suo cinema, non avrebbe dovuto esserci musica in Tom à la ferme. Egli si era fatto l’idea che da un silenzio assordante sarebbe emersa una maggiore tensione,  che sarebbero stati altri rumori, come gli ululati o quello del vento, a produrre il giusto stato d’animo. La protagonista di Laurence Anyways gli aveva fatto notare che l’ utilizzo sfrenato della musica pop aveva fatto debordare eccessivamente la sua presenza nel film, così, accettando e riconoscendo la critica, si è ripromesso e ha mantenuto di far suonare eventuali canzoni pop soltanto in sottofondo magari nei bar. Parlando poi con i suoi co-produttori, si è ravvisata la necessità di una presenza sonora che favorisse la caratterizzazione dei personaggi, così si è trovato un compromesso e individuato un compositore, Gabriel Yared, che dopo aver ricevuto la proposta e i dvd delle altre opere di Dolan, ha accettato di buon grado di lavorare col giovane canadese, il quale non solo è rimasto folgorato dalla sua musica, ma ha dichiarato che questa ha influito enormemente sulla riuscita del film e sul suo esserne soddisfatto alla fine del lavoro.

Insomma, sarà anche un film lievemente più debole rispetto ai suoi tornadi, ma Dolan dimostra sempre e comunque delle grandi doti nel suo mestiere, una cura maniacale di tutti i particolari che contribuiscono al raggiungimento dei suoi obiettivi e una grande determinazione nel produrre dei risultati in definitiva più che apprezzabili.

Roberta Girau