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Laurence Anyways di Xavier Dolan

In Laurence Anyways, Dolan mette in scena una difficilissima relazione sentimentale tra due persone che, pur amandosi enormemente, incontrano un ostacolo più grande di loro, che dapprima li mette a dura prova, fino a minare irrimediabilmente la loro capacità di gestirlo, soverchiando il bisogno reciproco di stare vicini e di costruire e mantenere uno spazio comune, condiviso, di evolvere e crescere insieme; come se in quello spazio, nonostante la reciprocità più volte confermata, la ferrea volontà di non perdersi, il sentire di non esserne in grado, non ci si stesse più in due

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Presentato nella sezione Un Certain Regard dell’edizione del Festival di Cannes del 2012 e vincitore della Queer Palm nella stessa occasione, esce in Italia a distanza di ben quattro anni, distribuito da Movies Inspired, Laurence Anyways, terzo, stravagante e incredibilmente intenso  lavoro del giovanissimo, allora ventitreenne, Xavier Dolan.

Il precocissimo talento di quello che, senza timore di esagerare, si può considerare a pieno titolo un vero e proprio enfant prodige, è assimilabile per certi versi alla squisita spregiudicatezza e alla sfrontatezza, prive di troppe strutture, di un bambino, prerogative che il regista  usa a suo favore, traendone il massimo vantaggio. Tra le sue opere, oggi ormai sei, tutte ampiamente riconosciute sia dalla critica che dal pubblico, Laurence Anyways, nel quale Dolan è contemporaneamente regista, sceneggiatore e montatore, probabilmente rimane quella in cui questo aspetto si dimostra essere più evidente.

La chiara genuinità, la freschezza e la sincerità del suo slancio rendono perdonabili gli eccessi di questo esuberante piccolo vulcano, che si manifestano sia in termini di drammatizzazione, esprimendosi in una frequente esasperazione dell’emotività,  che in termini di forma, facendo riferimento alle varie scene kitsch, piuttosto che ai ralenti forzati o all’utilizzo di spregiudicato di inserzioni surreali. Le sue pellicole sono sempre urlate, mai sommesse, non è un ragazzo che comunica a bassa voce, non sussurra di certo Xavier Dolan. Non con la colonna sonora, sempre colorata e sparata a mille, estremamente eterogenea, ancor di più in questo caso, nella quale mette insieme le musiche più diverse e teoricamente incompatibili tra loro, alternando musica classica, musica rock e musica pop della più ordinaria, facendo delle scelte volutamente fortemente commerciali, forse semplicemente perché vi si riconosce, forse a provocare chi storce il naso davanti a tutto ciò che non è “vera arte”. L’ipertrofia naturale dell’autore canadese si traduce in un felice connubio tra urgenza di esserci e audacia.

Di sicuro, è necessaria una notevole dose di narcisismo, ma anche di coraggio, per mettere in scena e con tanta spudoratezza, opere come le sue, strapiene di bisogno di specchi e di altrettanto palesi insicurezza e vuoti affettivi, i quali si riempiono, o meglio, provano a riempirsi dell’immagine di sé o delle sue proiezioni nei suoi personaggi, nel senso che quelli che vengono fuori, nella più totale tenerezza, sono dei vuoti perfettamente allestiti ed efficacissimi, che proprio nel loro essere iperestesici e sgargianti esprimono altrettanto magnificamente le carenze dalle quali derivano. Vuoti che poi sono espressi in maniera più esplicita nella costante rappresentazione di dinamiche familiari problematiche e conflittuali già viste e presenti più o meno in tutte le sue opere fin dall’inizio(J’ai tuè ma mere, Tom à la ferme, Mommy).

In Laurence Anyways, Dolan mette in scena una difficilissima relazione sentimentale tra due persone che, pur amandosi enormemente, incontrano un ostacolo più grande di loro, che dapprima li mette a dura prova, fino a minare irrimediabilmente la loro capacità di gestirlo, soverchiando il bisogno reciproco di stare vicini e di costruire e mantenere uno spazio comune, condiviso, di evolvere  e crescere insieme; come se in quello spazio, nonostante la reciprocità più volte confermata, la ferrea volontà di non perdersi, il sentire di non esserne in grado, non ci si stesse più in due.

Tout ce que j’aime de toi, c’est exactement ce que tu déteste de toi. C’est ça que tu ne dis?”

Accade che a un certo punto del loro percorso, l’espressione dell’individualità di ciascuno rende impossibile la condivisione, che anche la percezione di aspetti che prima erano vissuti insieme naturalmente e serenamente, ad un tratto cambia forma, ne assume una diversa per ognuno dei due e inevitabilmente l’equilibrio vacilla fino a rompersi e la strada che era comune si sdoppia.

Dolan è bravissimo a esprimere l’ineluttabilità di questo sdoppiamento, a trasmettere in tutta la sua intensità, il dolore che comporta, a rappresentare quanto si diventa inaccessibili l’uno all’altro, indipendentemente da quanto ci si ama. E lo fa con la musica, con i colori, nella cura minuziosa dei costumi, nel dirigere sapientemente i suoi due magnifici protagonisti, Suzanne Clement e Melvil Paupaud, entrambi attori di grande espressività e notevoli doti interpretative.

Ogni elemento contribuisce a urlare quell’impotenza, contemporanea e direttamente proporzionale alla forza del legame. Elementi che per quanto i due registi siano completamente diversi, nelle origini e nel contesto in cui sono cresciuti, nell’esprimersi, nella propria soggettività, e soprattutto nell’esperienza, non è una cosa del tutto astrusa dire che per dirompenza, stravaganza e per eccessi, possano indurre il volgere di più di un pensiero verso Almodovar. Quando la necessarietà dell’essere supera il bisogno dell’altro, quello della reciprocità, che per quanto sia un bisogno primario assolutamente fondamentale nell’equilibrio di qualsiasi essere umano, soccombe di fronte a quanto sia vitale occupare il proprio spazio, affermare la propria identità, vivere la propria essenza, qualunque forma, colore, consistenza essa abbia.

Eppure, riuscire ad allontanarsi, quando ci si ama profondamente, quando si è legati fino a quel punto, è un’impresa difficilissima. Perché prima o poi il bisogno, lo slancio, la spinta verso l’altro superano la distanza, prevalgono sul tempo, sulle scelte, sul rischio di soffrire, emergono e riprendono forma, dando luogo all’ennesima prova, profondendo ancora speranza, ancora, sino all’esaurimento delle energie. Perché sarà questo a porre un punto, non potendo contare, la fine, per realizzarsi, sull’aiuto di un sentire sempre inesorabilmente presente.

È interessante sottolineare come il focus di osservazione non sia prevalentemente puntato su come certo modo di essere e di sentirsi “diverso” venga additato, rifiutato, discriminato. Sono tutti elementi presenti nella narrazione, ma l’onda che investe maggiormente lo spettatore, è piuttosto quella del dolore personale che colpisce chi, come conseguenza della rivelazione di una identità, è impossibilitato a viversi in relazione. E questo viene rappresentato nel vissuto di entrambe le parti, entrambe sofferenti e frustrate da tale preclusione, quella del diverso e quella di chi lo ama.

Così, paradossalmente, il vissuto di chi sposa la propria identità, per quanto questa dall’esterno possa essere percepita anormale, diversa, quello di chi risponde alle proprie istanze, è molto meno destabilizzante di quello di chi, non ha effettuato una rivoluzione di sé, ma ha subito quella dell’altro, che è sì, totalmente incoerente e lontana dal suo sentire. E questa non è altro che la dimostrazione del fatto che per quanto dolore si possa provare nel rinunciare a un amore, nel perderlo, l’equilibrio non può stare che nel proprio baricentro individuale, che è molto più pericoloso rinunciare a sé stessi che a qualsiasi reciprocità.

È bellissima Fred, interpretata dalla bravissima Suzanne Clement, premiata a Cannes  per la sua interpretazione come migliore attrice protagonista, che non possiede nessuno degli stereotipi di bellezza tipici di questo tempo, non è magra, non è alta, non è fine, non è elegante, ma è incredibilmente vera, nell’esprimente la sua frustrazione, nel gridarla, sputarla addosso al mondo, davanti all’attonito e impotente, suo amore impossibile; ed è altrettanto bella nel ridere insieme a lui, nel desiderarlo, nel saltargli al collo quando lo ritrova.

E infine lui, lei, Laurence. Il suo coraggio nell’affrontare quello che gli accade, il necessario egoismo per poterlo portare avanti, per poterne gestire l’urgenza, il terrore di non essere amato, dalla madre soprattutto, ma da chiunque, senza mai retrocedere, non perché non faccia male ma perché non può, non può non fare i conti con la realtà, come non può smettere di respirare o di dormire. E allora la lascia accadere, se ne prende tutto il carico, ne affronta gli stati d’animo, e nonostante l’inaccessibilità al padre, alla madre, alla sua donna, al mondo, continua ad amare.

Roberta Girau