Presentato in concorso alla 69esima edizione di Cannes, Il ventesimo film di Pedro Almodovar è un’opera probabilmente meno dirompente, che non possiede la veemenza e l’impeto cui il regista spagnolo ci ha abituato nelle varie evoluzioni della sua carriera. Temi a lui cari come la passione, il dolore, il sentimento, tutti quasi sempre comunicati con la massima intensità e drammatizzazione, in Julieta sono costituiti dagli stessi elementi ma sono meno esplosivi, più compassati, la loro espressione è più asciutta ed essenziale, rappresentano vissuti costruiti nel tempo, più eterogenei, stratificati, meno immediati, ma non per questo meno potenti. Il fatto che si tratti innegabilmente di un uomo fortemente empatico, fa sì che ogni dimensione da lui descritta, anche le dinamiche meno ricercate, che anche un abbraccio in cucina al mattino, il guardarsi nello scomparto in un treno, il ricevere una lettera inaspettata, assumano una gamma infinita di sfumature confluenti in tanti piccoli grandi punti luce che riscaldano e riempiono gli occhi e l’emotività dello spettatore.
Il soggetto è il prodotto di un adattamento libero di tre racconti della raccolta dal titolo Runaway (In fuga in Italia) del Premio Nobel Alice Munro. L’idea nasce dal proposito iniziale del regista, di ambientare tutto il film in un treno, che gli ha fatto individuare l’ispirazione dapprima in uno dei racconti della scrittrice canadese nel quale vi è la descrizione di una scena che si svolge interamente all’interno di un vagone; proposito poi evolutosi nell’utilizzarne tre, adattandoli in base alle sue esigenze narrative, e nel farli convogliare nella vita di un unico personaggio che rappresentasse il fulcro del suo progetto, ancora una volta, instancabilmente, una donna, Julieta. Almodovar conferma la sua grande capacità di muoversi in perfetta sintonia con ogni elemento dell’universo femminile, esplorandolo nei suoi aspetti più complessi e soffermandosi con altrettanta cura sui dettagli, finendo sempre col darne una visione d’insieme estremamente ricca e variegata, appagante ,che rende ogni sua opera un’inesauribile fonte di energia.
Julieta è una donna estremamente sofferente, gravata da un passato difficile e penoso che ripercorre nei suoi snodi più significativi, tentando di dargli un senso e di elaborarne i conflitti che hanno influenzato e continuano a condizionare pesantemente la sua quotidianità e le sue scelte. Così, nel progredire del suo doloroso cammino attraverso la memoria, constatiamo insieme a lei quanto sia impossibile andare avanti con la propria vita e tollerare che qualcuno con cui si è avuto un legame affettivo profondo, possa davvero smettere di amare, che improvvisamente o gradualmente, qualsiasi siano le ragioni, supposto che ne esistano di plausibili, possa accadere di non essere più importanti per una persona per cui lo si è stati, per cui si è certi di esserlo stati; di non essere più nella sua mente, nella sua anima, che quella persona possa essere diventata indifferente, di poter essere estirpati dal suo mondo, che possa dileguarsi, scomparire dallo spazio condiviso che era di entrambi. È qualcosa che per alcuni, non solo è quasi intollerabile, ma è proprio difficilmente concepibile. La sensazione è quella di avere una vera e propria allucinazione, come se un momento si vedesse un albero, un palazzo, un fiume, un qualsiasi oggetto stabile davanti a sé, si chiudessero gli occhi e il momento successivo, quell’oggetto, che nella propria testa non può spostarsi, non può muoversi, DEVE essere lì, si riaprissero gli occhi e non ci fosse più. È una sensazione atroce, devastante, che nell’immediato stordisce, fa vacillare il proprio baricentro emotivo e a lungo termine si ripercuote poi enormemente su ogni evoluzione personale, legame, affetto futuro.
Almodovar riesce a trasmettere magnificamente tutto questo, lo realizza e lo affronta utilizzando come strumento di narrazione un viaggio attraverso i ricordi della sua protagonista, interpretata in modo impeccabile da entrambe le attrici di grande espressività e talento, scelte dal regista per il suo ruolo, la carismatica e bellissima Adriana Ugarte che la incarna da giovane, e la più sobria e contenuta ma non meno incisiva, Emma Suarez, gravata dal peso degli anni e della sofferenza. Un viaggio interiore intimo e solitario, che paradossalmente ma neanche tanto, assume una forma comunicativa, quella epistolare, di una lettera mai indirizzata né spedita. Un dialogo con chi non c’è, una voce nel vuoto che esprime in tutte le sue sfaccettature l’affetto, la passione, lo slancio, comunicati mediante il potere delle immagini e delle doti interpretative degli attori, in maniera talmente sensoriale e realistica, da far sì che il dolore per la loro perdita, sia altrettanto, se non maggiormente efficace e sentito.
Quella pena tangibile e inconfondibile che assume talmente tanta consistenza da dare la sensazione di poter essere toccata, di poterne sentire l’odore, il sapore, data dall’angoscia che determina abitare quel vuoto; essere rimasta da sola a viverci, arredarlo, corredarlo di torte di compleanno che non verranno mai mangiate, di candeline che non saranno mai spente, di statuette che rappresentano qualcosa o qualcuno, di simulacri di qualsiasi cosa che non c’è purché rimanga qualcosa, modificarne la forma cambiando il luogo, i colori, le pareti, i pavimenti, ma sapere perfettamente e inesorabilmente che non è altro che il solito opprimente e irriducibile vuoto. È particolarmente efficace e significativa l’universalità di quel vissuto di perdita, come esso sia divenuto assoluto, che comprenda il vuoto di un lutto e allo stesso tempo quello dell’abbandono, che possa riguardare un uomo o una figlia, che non importa quale ne sia l’oggetto perché le due cose si fondono in un unico omogeneo e pregnante nulla col quale fare i conti.
Nonostante si tratti di un film estremamente doloroso e sofferto, tutto è inserito in una dimensione molto dinamica che indica una costante evoluzione. I molteplici flashback, i frequenti riferimenti agli spostamenti, denotano un movimento perpetuo, che è specchio di vitalità, nel dolore o meno. Vi è una continua alternanza tra contrazione e dilatazione delle dimensioni di tempo e spazio, che non sono mai statiche. Niente è immobile, tutto evoca un passaggio, un percorso. Il treno, il trasloco, il pellegrinaggio, il mare. Un viaggio che passa attraverso tutti gli elementi cardine dell’esistenza umana, l’innamorarsi, la nascita, il tradimento, la colpa, la malattia, l’amicizia, la perdita, la morte. Tutti vengono percorsi, toccati, sentiti, trasmessi come parte integrante della vita, come realtà che non può far altro che accadere, di cui non si può far altro che percepire l’effetto e accoglierlo, accettarlo, sia esso gioia o dolore, paura, rabbia, angoscia o sorpresa.
Almodovar ha dichiarato di vedere la sua Julieta una persona debole e vulnerabile, addirittura la più debole tra le donne da lui ritratte, in quanto vittima delle sue perdite. A mio avviso, il fatto che Julieta abbia subito le sue perdite, che ne abbia sofferto infinitamente, che sia impotente davanti a quel vuoto, non la rende affatto debole. Vulnerabile, forse, sì, ma non debole. Perché quel dolore è incredibilmente vivo, viene da un’anima pulsante e qualsiasi emotività, per quanto dolorosa, è un indice di vitalità e quindi di forza. Ci vuole molta più forza per essere consapevole di quel dolore e ascoltarlo, assorbirlo, farsene impregnare, come fa lei, piuttosto che per negarselo, nasconderselo o sminuirlo, come fa di solito chi apparentemente ne è meno vittima. E lo paga comunque.
Roberta Girau