«Scorsese torna al genere thriller dopo quasi vent’anni e, proprio con “Cape fear” (1991), il suo nuovo “Shutter island” condivide il gusto retrò del cinema anni Quaranta..»
Scorsese torna al genere thriller dopo quasi vent’anni e, proprio con Cape fear (1991), il suo nuovo Shutter island condivide il gusto retrò del cinema anni Quaranta, riaggiornato a una grammatica registica che in pochi a Hollywood possono permettersi. «Ho mostrato alla troupe Vertigine (1944) di Otto Preminger e Le catene della colpa (1947) di Jacques Tourneur prima di iniziare le riprese», commenta lo stesso Martin Scorsese. «A quella linea cinematografica affiancherei anche il cinema di Fritz Lang».
Un prodotto profondamente cinefilo, quindi, che il regista esprime nell’amalgama di fotografia, regia e musiche, riportando alla mente atmosfere care anche all’espressionismo tedesco e, infatti, continua: «I grandi autori del cinema tedesco sono stati adottati da Hollywood durante il nazismo, e alcuni di loro sono diventati tra i migliori interpreti del thriller e del noir».Dal punto di vista narrativo il film segue una linearità logica che progressivamente si sfilaccia in situazioni oniriche visionarie decisamente inedite nel cinema dell’autore newyorkese.
La storia è ripresa dal romanzo “L’isola della paura” dell’ormai gettonatissimo Dennis Lehane, lo scrittore da cui sono stati tratti anche Mystic river (2003) di Clint Eastwood e Gone, baby, gone (2007) di Ben Affleck. «In qualche modo sono rimasto legato al materiale originale», sottolinea sempre Scorsese, «alla paura e la paranoia che è racchiusa nell’opera letteraria». Lehane è notoriamente abile nel ricreare i drammi umani della provincia americana, il dolore che non conosce modo di attenuarsi e che alimenta se stesso fino alle estreme conseguenze. Nel caso di Shutter island è immerso più che nelle precedenti trasposizioni in una situazione tipicamente di genere, nonostante il tema del trauma inaccettabile diventa l’effettivo McGuffin della storia. Scorsese pare essere interessatoal tema complottistico e paranoico della vicenda, più che al lato umano: «In qualche modo sono temi che riflettono la mia idea di racconto perché ho i miei dubbi nei confronti dell’autorità».
Leonardo Di Caprio interpreta Teddy Daniels, un U.S. Marshall che, insieme a un suo collega, indaga in un manicomio criminale sulla scomparsa di una paziente. Nella clinica sono in conflitto le teorie progressiste del dott. Cawley (Ben Kingsley), che vorrebbe curare i pazienti attraverso la terapia, l’accettazione del dolore assecondando lo sviluppo del lutto, e quelle conservatrici e brutali del dott. Nahering (Max Von Sidow), dedito alla lobotomia. Daniels scoprirà un complotto atto a farlo impazzire. La confezione di Shutter island è assolutamente ineccepibile, com’è ovvio aspettarsi da produzioni di questo calibro, ma quello che non convince è lo sviluppo finale dell’intreccio che in casi del genere richiede una precisione matematica negli schemi, che, in effetti, non c’è. Alla fine della fiera la chiusa risulta forzata e troppo simile a molte opere già viste.