“Prodotto dalla HBO, il documentario che Marina Zenovich ha dedicato all’insoluto caso giudiziario di cui è a tutt’oggi protagonista e vittima Roman Polanski, ha il sorprendente merito di andare oltre il compito meramente informativo di un’inchiesta giornalistica.”
Prodotto dalla HBO – se ne nota subito l’impianto e il ritmo televisivo – il documentario che Marina Zenovich ha dedicato all’insoluto caso giudiziario di cui è a tutt’oggi protagonista e vittima Roman Polanski, ha il sorprendente merito di andare oltre il compito meramente informativo di un’inchiesta giornalistica, facendoci penetrare piuttosto in uno di quegli indistricabili grovigli tra cinema e vita, tra elementi finzionali e presunta realtà quotidiana, che ammantano di misterioso fascino e di gravosi dubbi ogni nostro discorso intorno al “vero” e alle sue dimensioni.
Con un’impostazione che spesso ammicca agli stilemi del legal thriller, Wanted and Desired ricostruisce – giostrando tra una gran quantità di materiale d’archivio (fotografie, frammenti dai notiziari tv, verbali giudiziari) e le accurate interviste agli invecchiati protagonisti della vicenda (gli avvocati, i giornalisti, la stessa presunta vittima) – quel che accadde nell’agosto del ’77, quando il regista di origine polacca fu accusato d’aver stuprato la tredicenne Samantha Gailey nella villa di Jack Nicholson a Mullholland Drive.
L’imputazione di corruzione e pervertimento di una minorenne convogliò intorno a Polanski l’assalto spropositato e morboso della stampa. Con accanimento sensazionalistico – o, come suggerisce lo stesso regista, con deliberata crudeltà – tutti avanzarono una loro opinione, con un approccio completamente differente tra gli europei, che tratteggiavano Polanski come una figura tragica, sopravvissuta all’olocausto (la madre fu uccisa dai tedeschi, il padre deportato in un campo) e capace di raggiungere nonostante le origini il successo ad Hollywood, e la stampa americana, che gli affibbiava un profilo più oscuro, quello della star “demoniaca” con fama da spericolato e impavido, già sanguinosamente macchiata dalla terribile sorte che toccò alla moglie Sharon Tate, massacrata dalla banda di Charles Manson in circostanze rimaste poco chiare.
Ed è su questo buco nero biografico che la Zenovich sembra indugiare maggiormente, cercando in pellicole permeate di marciume sociale e persino di occultismo come Rosemary’s baby e Chinatown tracce di quello che dopo le riprese sarebbe accaduto fuori dal set, e arrivando a suggerire con evidente e clamorosa pertinenza, come il trailer de L’inquilino del terzo piano, uscito nel ’76 con Polanski stesso protagonista, potesse benissimo valere come presentazione d’una vita più che d’un film, suggellando un inquietante e drammatico cortocircuito tra piani di realtà solo apparentemente distanti.
A complicare ulteriormente una lettura chiara della situazione, intorno al caso in questione si generò presto un gioco delle parti, tra manovratori e manovrati, con un grande palcoscenico, quello mediale, per una volta corteggiato più dal giudice Rittenband, attento strumentalizzatore delle telecamere e già pratico di processi alle star (Cary Grant, Marlon Brando, Elvis) – qui nel ruolo di regista – che da Polanski (semplice attore-vittima) arrivando agli aspetti surreali, quasi da farsa, di un processo che apparve truccato e già segnato (in fase di sceneggiatura?).
E a far da collante a tutto, la figura di Roman Polanski, carismatico talento capace di passare dalle ristrettezze del socialismo reale ad un vita senza limiti tra Londra e Hollywood, costretto ad una fuga senza ritorno, ricercato negli Usa, pluripremiato e onorato nel resto del mondo, finito in un carcere svizzero più di trent’anni dopo quell’accusa di “unlawful sexual intercourse”, e interprete sulla sua pelle di uno di quegli “incubi reali” dai quali già tanto tempo prima aveva tentato di sfuggire la sua Mia Farrow-Rosemary.