‘The Teacher’ punta al cuore della resistenza palestinese
Attraverso una conversazione esclusiva con la regista Farah Nabulsi, candidata all'Oscar per 'The Present', vi proponiamo un approfondimento che si insinua nel cuore morale della resistenza palestinese in Cisgiordania
In The Teacher, esordio nel lungometraggio per Farah Nabulsi, in uscita l’11 dicembre nelle sale italiane e presentato in anteprima al Torino Film Festival, il conflitto si fa materia vivente in un film di straordinario impatto emotivo. Dopo il successo del cortometraggio The Present, candidato all’Oscar, Nabulsi torna con un’opera che dà forma cinematografica alla vita sotto occupazione, trasformando la quotidianità in un dispositivo narrativo che modella gesti, silenzi e scelte morali.
The Teacher: un albero che brucia
La conversazione che segue è un prezioso contributo intimo, sussurrato, che fa emergere tutta la sensibilità e la consapevolezza della regista palestinese al suo esordio nel lungometraggio di fiction che ha avuto la prima al Toronto International Film Festival 2023.
Farah Nabulsi non è stata solo disponibile e delicata: ci ha regalato un film potente, rivelando una maturità sorprendente nel controllo del ritmo, nella cura dei dialoghi, nella direzione degli attori, nella riconoscenza per la troupe e i suoi collaboratori.
In questo equilibrio torna a imporsi il volto di Saleh Bakri, già protagonista di The Presente figura centrale del cinema palestinese contemporaneo. Bakri ha una qualità rara: riesce a incarnare allo stesso tempo intensità e sottrazione, fragilità e resistenza. Il suo volto, scavato e luminoso, attraversa il film come un territorio emotivo in continua trasformazione. Ciò che colpisce è la sua capacità di far emergere le emozioni più impercettibili. Un tremore, un indebolimento dello sguardo, un accenno di sorriso che non cancella mai il peso del dolore. È un attore abituato a muoversi sui confini — tra dolcezza e disincanto, tra dignità e vulnerabilità — e in The Teacherraggiunge forse uno dei suoi vertici interpretativi, donando al personaggio di Bassem una forza morale che non passa dalla parola, ma dal non detto, dal corpo che trattiene, protegge, resiste. Non è un caso che sia egli stesso un attivista nella realtà.
Tra le immagini più cariche di significato c’è quella di un albero bruciato. Ma, vedremo, non è un albero qualunque, ma un moncherino annerito che racconta la vulnerabilità palestinese e, allo stesso tempo, la fragilità di un’idea di civiltà occidentale che sembra non riconoscere (né rispettare) più i simboli su cui fondava la propria narrazione. La fragilità e la forza dei legami familiari, diventano la grammatica profonda del film. Ne emerge un’opera che rifugge il sensazionalismo per abbracciare un senso più ampio di responsabilità e resistenza, restituendo dignità all’esperienza palestinese senza cadere mai nella retorica o nel pietismo.
È da questo terreno etico e cinematografico che nasce la conversazione che segue.
Saleh Bakri in una scena del film
L’ulivo: un simbolo necessario
Secondo un recente report di Al Jazeera (2025), l’esercito israeliano ha sradicato circa 3.000 ulivi nel villaggio di Al-Mughayyir, vicino Ramallah, in quello che è stato descritto come una strategia di trasferimento forzato delle comunità palestinesi. Fonti ufficiali, tra cui OCHA, confermano che durante la stagione della raccolta delle olive si registrano frequentemente attacchi, incendi, sradicamenti e distruzioni degli uliveti da parte dei coloni, spesso compiuti in totale impunità.
Nel film, questa pratica diventa l’evento scatenante di una tensione crescente che attraversa l’intero racconto. A un certo punto compare l’immagine di un ulivo bruciato, una presenza che sembra incarnare allo stesso tempo la vulnerabilità palestinese e la fragilità del Mediterraneo come spazio culturale condiviso. Nella storia, l’ulivo ha simboleggiato pace, radici, identità, ma anche un confine tra Oriente e Occidente.
Quanto consapevolmente questo simbolo opera nel tuo immaginario visivo?
Credo che il simbolo operi su due livelli, sia consapevole che quasi istintivo. In quanto persona profondamente legata alla Palestina, sono molto consapevole di quanto l’ulivo plasmi la vita palestinese. Non è solo una pianta o una coltivazione, è un emblema del rapporto originario con la terra. È un sostentamento, un’eredità culturale, un rituale quotidiano che attraversa tutto, dalle olive all’olio, fino al sapone.
Quando ogni anno migliaia di ulivi vengono sradicati o bruciati dall’esercito israeliano o dai coloni israeliani illegali, non si tratta solo di una perdita economica per i palestinesi indigeni, ma di una forma di violenza ambientale e psicologica. Colpisce la continuità di un popolo.
Ecco perché, nel film, l’ulivo compare con tanto peso. Chi appartiene alla terra non la distruggerebbe mai, e questo contrasto diventa narrativamente e visivamente importante. Girare in Palestina, in Cisgiordania, significava permettere al paesaggio stesso di respirare sullo schermo, a quei pendii verdi, a quegli uliveti quasi onnipresenti. Volevo davvero che il pubblico percepisse quella bellezza. Perché l’ulivo ha sempre simboleggiato radicamento, pace, resistenza, ma anche una linea che separa chi nutre la terra da chi tenta di recidere quel legame.
Così, quando nel film compare un ulivo bruciato, si porta dietro tutto questo. Non è un semplice elemento scenico: riflette la più ampia lotta per l’identità e per l’appartenenza, per decidere chi protegge la terra e chi tenta di cancellare ciò che sostiene un intero popolo.
L’immagine del film che ha dato vita al manifesto: non location, ma immagini reali dalla Cisgiordania occupata.
L’arte di raccontare per immagini
Guardando The Teacher si percepisce una costruzione narrativa sorprendentemente solida. La sceneggiatura segue gli schemi classici del racconto mondiale, senza mai esibirli: una struttura in tre atti, una ferita profonda che muove il protagonista, e un doppio percorso emotivo che coinvolge maestro e allievo.
Questa chiarezza formale è ancora più sorprendente se si considera che Farah Nabulsi proviene da un universo lontano dal cinema, quello della finanza londinese. La sua capacità narrativa non deriva da una formazione accademica, ma da un’assimilazione profonda dei modelli del cinema mondiale: strutture, ritmi, psicologie interiorizzate attraverso anni di visioni, come accade ai narratori naturali.
A ciò si aggiunge il suo triplo ruolo di sceneggiatrice produttrice e regista: una triade che nel cinema indipendente diventa condizione di sopravvivenza. The Teacher è un film che esiste proprio grazie alla sua natura flessibile. Un progetto capace di adattarsi alle circostanze della realtà, di entrare nei luoghi senza forzarli, di proteggere la propria voce senza fare rumore.
Il film è costruito su una tensione costante, senza mai scivolare nel melodramma. Hai scritto tu stessa la sceneggiatura e hai raccontato che l’hai scritta molti anni fa. Durante la scrittura, qual è stata la sfida principale nel bilanciare il ritmo narrativo con la complessità politica?
La struttura in tre atti, la “ferita” del protagonista, e il “doppio percorso” — quello dell’insegnante e quello del suo giovane studente — rivelano una forte consapevolezza tecnica.
Hai una formazione teorica sulla costruzione narrativa o è un linguaggio che hai sviluppato soprattutto attraverso la pratica?
È difficile individuare un punto preciso, perché per me il processo non è mai stato accademico. Non ho alcuna formazione formale in sceneggiatura o teoria della narrazione. Tendo a seguire ciò che accende la mia curiosità e il mio interesse emotivo. Detto questo, è impossibile immergersi per anni nel cinema, nei libri, nelle sceneggiature, nelle masterclass, in decenni di visioni, senza assorbire certi modelli.
Col tempo inizi a riconoscere la logica sottostante della struttura classica, non come un insieme di regole, ma come una sorta di architettura psicologica che spiega perché certi movimenti narrativi risultano così soddisfacenti o inevitabili.
Anche se non sono attratta dagli schemi rigidi, di solito parto con un’idea molto chiara della storia che voglio raccontare. Prima ancora di scrivere una singola battuta, ho già tracciato i punti essenziali, i momenti chiave, i passaggi emotivi, dove si collocano i climax e che forma complessiva avrà l’arco narrativo.
Così, quando inizio a scrivere la sceneggiatura vera e propria, la struttura è già solida. Solo quando mondo e personaggi prendono vita sulla pagina inizio a ragionare sulla forma, su come guidare il pubblico, su come mantenere la tensione senza scivolare nel melodramma, su come assicurarmi che nessuno si perda, a meno che io non voglia che accada.
L’obiettivo è sempre creare un percorso emotivo che avvicini lo spettatore a capire cosa è in gioco e a empatizzare con i personaggi. Questo è sempre stato intuitivo per me: è ciò che i film che amo hanno fatto con me. Poi, ovviamente, quando entrano in gioco i collaboratori — in questo caso il British Film Institute e una consulente al montaggio — spesso fanno emergere elementi strutturali che forse non avevo verbalizzato. I loro feedback possono essere preziosi e aiutano a capire dove l’architettura narrativa può essere rafforzata o chiarita.
È stato certamente vero per The Teacher.
Dunque, qualsiasi raffinatezza tecnica tu percepisca nel film nasce da una combinazione di istinto narrativo, da una struttura forte preparata in anticipo e dalle conversazioni costruttive con persone di fiducia.
La doppia prospettiva della diaspora
Esiste in The Teacher una prospettiva che non è mai binaria, né totalmente interna né totalmente esterna alla realtà palestinese. Non è sorprendente se si considera la biografia della regista, sospesa tra Londra e Palestina, tra sistemi occidentali e appartenenza alla diaspora. Nella genesi di questo lavoro si avverte anche il peso, per lo spettatore, di sapere che chi racconta proviene da un mondo che costruisce narrazioni filtrate, spesso manipolate, un mondo che decide quali parole usare — o non usare — per nominare l’orrore: l’Occidente “democratico”. Questa tensione tra intimità ed estraneità sembra generare uno sguardo terzo, non neutrale ma lucidissimo. Proviamo a muovere questa delicata prospettiva alla regista, cercando di non urtare la sua sensibilità, ma provando al contempo a far emergere questo paradosso.
Saleh Bakri e Imogen Poots rispettivamente nei ruoli di Basem El -Saleh e Lisa, l’operatrice umanitaria inglese
La tua biografia attraversa due mondi molto diversi: sei cresciuta e hai studiato a Londra, hai lavorato a lungo in ambienti finanziari occidentali, e allo stesso tempo appartieni a una diaspora che vive il dolore della distanza dalla Palestina.
In che modo questa doppia prospettiva — dentro il sistema ma anche radicalmente fuori — ha plasmato il tuo modo di rappresentare la realtà palestinese senza semplificarla?
Credo che questa prospettiva influenzi tutto e allo stesso tempo nulla, in modo consapevole e inconsapevole. L’immaginazione e l’approccio di qualsiasi artista sono inevitabilmente modellati dalla somma delle proprie esperienze vissute: l’infanzia, gli incontri, le relazioni, i traumi, perfino quelli ereditati di cui non ci rendiamo pienamente conto. Tutto questo filtra inevitabilmente nel lavoro, volenti o nolenti.
Quindi la risposta onesta è che qualunque cosa questa “doppia prospettiva” contribuisca, è già sullo schermo. Per esempio, la presenza nel film di un volontario britannico esiste in parte perché tali figure sono realmente presenti in Palestina, ma anche perché volevo esplorare l’umanità del protagonista da ogni angolazione.
E posso immaginare che una parte inconscia di me, con un piede in Occidente e uno in Palestina, abbia influenzato questa scelta. Lo stesso potrebbe valere per il bilinguismo del film o per la spinta emotiva che mi ha portata a scrivere dopo aver visitato la Palestina da adulta. Forse c’è un senso silenzioso di colpa, o di nostalgia, o semplicemente la tensione di appartenere a due luoghi insieme.
Dunque, più che semplificare la realtà palestinese, quella miscela di prospettive probabilmente la complica — in senso positivo. Mi permette di avvicinarmi alla storia con intimità e distanza allo stesso tempo, con una connessione emotiva profonda ma anche con una certa lucidità.
In definitiva, però, la vera espressione di questa “doppia prospettiva” è ciò che si percepisce nel film stesso.
Cinema indipendente come scelta politica
C’è un altro livello di complessità in The Teacher, ovvero la relazione tra la finzione del film e la realtà dell’occupazione. La produzione stessa si è svolta in un territorio attraversato dalla costante presenza militare. Nel film si percepisce questa frizione continua tra ciò che è scritto e ciò che accade intorno: la realtà palestinese interferisce fisicamente con le immagini di finzione, modificando tempi, spazi, modalità percettive di spettatori ormai assediati, nel proprio immaginario, dalle immagini reali che scorriamo quotidianamente sui social.
Durante la presentazione al TFF, hai parlato del “privilegio” che alcuni cineasti indipendenti hanno ancora nel riuscire a girare in Cisgiordania.
Da un punto di vista operativo e produttivo, com’è stato possibile realizzare un progetto di finzione — seppure ispirato a fatti reali — in un territorio segnato da occupazione militare, instabilità politica e forti restrizioni?
Sei anche la produttrice del film, quindi hai affrontato ogni passaggio burocratico. Considerando il livello di controllo esercitato dalle autorità, è probabile che la sceneggiatura sia stata esaminata.
Hai incontrato ostacoli? E quanta libertà creativa e produttiva hai realmente avuto?
Poiché si tratta di un film di finzione, il nostro approccio in Palestina è stato quello di creare una sorta di “cuscinetto” attorno alla produzione. Quando si gira sotto occupazione militare non si va a cercare problemi, si cerca di evitare di attirare l’attenzione pur rispettando il mondo che si sta rappresentando.
Ovviamente, questo non significa che le difficoltà non emergano — emergono continuamente. Alcune sono le tipiche sfide del cinema indipendente, altre sono intrinseche alla dura realtà politica in cui giravamo.
In pratica, abbiamo cercato di lavorare in aree dove la presenza dell’esercito israeliano o dei coloni fosse meno intensa, anche se in Cisgiordania non è mai semplice. Abbiamo girato soprattutto nei centri urbani come Nablus o in villaggi palestinesi.
Tuttavia, l’occupazione ci ha colpito comunque: ai checkpoint le persone arrivavano in ritardo sul set; blocchi stradali improvvisi ci sono costati due giorni di riprese perché cast e troupe non sono riusciti a rientrare dopo il weekend. Nel cinema indipendente, perdite simili sono catastrofiche.
I due giovani fratelli (interpretati da Mahmoud Bakri e un intenso Muhammad Abed El Rahman), al cospetto di un soldato israeliano
Ciò che non avevo previsto era il peso emotivo. Il fatto che stessimo girando un film sulla realtà mentre quella stessa realtà si dispiegava intorno a noi in tempo reale. C’era una pressione enorme nel rendere giustizia all’ingiustizia. Non è un film d’epoca: è il presente.
Mentre giravamo scene sugli ulivi bruciati, venivamo a sapere che i coloni stavano bruciando ulivi nel vicino villaggio di Burin, da cui proviene il personaggio dell’insegnante. Vedevamo il fumo in lontananza.
Un’altra mattina, andando sul set alle 5, ho visto una famiglia con i loro sei bambini davanti alle macerie della loro casa demolita durante la notte: un’immagine che riecheggia direttamente scene del film.
Una notte abbiamo concluso le riprese a Nablus all’una del mattino. Poche ore dopo mi sono svegliata con la notizia che l’esercito israeliano era entrato in città e aveva fatto esplodere una casa con dentro giovani resistenti. Era a meno di due chilometri dal luogo in cui stavamo girando.
Come regista cercavo di restare positiva, di guidare la troupe fino in fondo.
Come produttrice cercavo di tenere tutti al sicuro e allo stesso tempo di portare a termine il film.
Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se potessimo continuare.
Quando Israele ha iniziato a bombardare Gaza verso la fine delle riprese (e parliamo del 2022, non degli eventi più recenti), anche se Gaza è separata dalla Cisgiordania, l’atmosfera è cambiata subito. Le tensioni sono aumentate e alcuni membri internazionali della troupe sono diventati comprensibilmente nervosi.
Questi non sono problemi astratti: influenzano ogni decisione sul campo.
E poi, oltre a tutto questo, c’erano le normali pressioni del cinema indipendente: location perse, la luce che svanisce troppo in fretta, la danza continua tra tempo e risorse che scivolano via.
Ma c’è stata anche una bellezza profonda: la solidarietà e la generosità dei palestinesi del posto, che avevano compreso cosa il film cercasse di custodire. Il loro sostegno ha creato un senso di scopo collettivo che ci ha accompagnati nei giorni più difficili.
Per quanto riguarda i permessi, li abbiamo presi dai ministeri palestinesi ovunque fosse possibile.
Nelle aree dove non potevano rilasciarli, semplicemente non abbiamo chiesto permessi a nessuno.
Di certo non li avremmo chiesti all’occupante, che difficilmente li avrebbe concessi.
In quel quadro, abbiamo lavorato in modo silenzioso, attento e con la maggiore libertà creativa possibile nelle circostanze.
L’insegnante
La figura dell’insegnante, nel cinema, ha spesso rappresentato un punto etico del racconto.
Nel canone occidentale, si pensi a L’attimo fuggente: l’insegnante come guida carismatica, anticonformista, quasi profetica, una forza che trascina gli studenti verso la ribellione.
Ma nel cinema politico e nelle cinematografie del Sud globale, l’insegnante assume un’altra postura: più fragile, più esposta, più silenziosa. E il caso di Monsieur Lazhar di Philippe Falardeau.
Nel cinema iraniano, invece, l’insegnante assume una postura più fragile e quotidiana: basti pensare a Dov’è la casa del mio amico? di Abbas Kiarostami, dove la scuola diventa spazio di responsabilità e di sguardo morale.
E in opere documentarie come Nostalgia della luce di Patricio Guzmán, la trasmissione del sapere si trasforma in una forma di resistenza alla cancellazione della memoria.
In The Teacher, questa tradizione si distilla in un archetipo completamente nuovo: non l’insegnante che guida con il carisma, ma l’insegnante che resiste attraverso la cura.
Un maestro non altisonante, non giudicante, non performativo, ma caregiver; un uomo la cui forza morale non sta nell’eloquenza, bensì nel gesto minimo, paterno, discreto, profondamente umano. È una declinazione radicale dell’archetipo, che rende la sua figura ancora più potente e, potremmo dire, contribuisce in modo profondamente attuale alla ricostruzione della figura maschile il cui coraggio riesce a convivere con la fragilità e il dolore trova finalmente espressione fisica (ovvero cinematografica).
Il titolo The Teacher pone l’educatore al centro del racconto, non solo come personaggio ma quasi come una lente etica. Nella Palestina occupata, gli insegnanti spesso si trovano in un’intersezione fragile tra cura, autorità ed esposizione alla violenza.
Come hai lavorato su questa figura? E cosa simboleggia l’insegnante per te, in termini di scelta morale, responsabilità e resistenza in un contesto in cui perfino l’istruzione diventa uno spazio conteso?
L’istruzione è sempre stata vitale per i palestinesi, non solo come porta verso nuove opportunità, ma come forma di resistenza in sé. È anche per questo che l’attuale devastazione di Gaza è ancora più dolorosa per me: sapere che quasi metà della popolazione di bambini e giovani non può frequentare la scuola o l’università da oltre due anni.
Quella centralità dell’educazione è uno dei motivi per cui ho iniziato dalla figura dell’insegnante.
È sempre stato il mio punto di partenza: quest’uomo il cui ruolo nella comunità è silenziosamente etico, protettivo, radicato nella cura.
Una volta che ha preso corpo l’insegnante, il personaggio di Adam è arrivato naturalmente.
Se metti un insegnante al centro di una storia, soprattutto nella Palestina occupata, la presenza di uno studente — un adolescente modellato da quella vicinanza quotidiana — diventa un’estensione organica della narrazione.
La loro dinamica nasce anche dalla posizione del maestro nel villaggio: qualcuno che si vede ogni giorno, qualcuno che per un bambino che ha perso il padre diventa un punto di riferimento familiare, un giorno un sostituto genitoriale.
Per me l’insegnante ha permesso anche un’esplorazione più sfumata della resistenza.
Bassem non è lo stereotipo della “figura della resistenza”. In superficie resiste semplicemente insegnando, insistendo che l’apprendimento continui, che i giovani meritino conoscenza e dignità anche dentro un sistema progettato per sopprimere entrambe.
Ma man mano che la storia avanza si comprende che la sua resistenza è stratificata: porta con sé storie e scelte che vanno ben oltre l’aula. Questa dualità — autorità gentile e lotta nascosta — è ciò che lo rende così interessante.
Ho sempre avuto una profonda ammirazione per gli insegnanti.
Scegliere quella professione, ovunque nel mondo, comporta una responsabilità morale: prendersi cura, guidare, contribuire a dare a un giovane uno sguardo su di sé.
Nella Palestina occupata, quella responsabilità diventa ancora più fragile e carica, perché l’educazione stessa è politicizzata e contestata.
L’insegnante, per me, simbolizza una sorta di centro etico: qualcuno la cui umanità si esprime nella cura e nel coraggio.
I suoi atti di resistenza, silenziosi o drammatici, nascono tutti dalla convinzione che la prossima generazione meriti protezione, possibilità, speranza.
Arte, cinema e coscienza collettiva
In molti Paesi, la società civile si mobilita quasi ogni settimana per evitare che l’attenzione sulla tragedia palestinese svanisca. Molti sentono che se ciò che accade oggi può avvenire impunemente in Palestina, allora può accadere ovunque. Allo stesso tempo cresce la percezione che la protesta pubblica abbia un impatto limitato sulle decisioni politiche.
Tu invece esprimi la tua posizione attraverso il cinema.
Negli ultimi mesi sono usciti nelle sale italiane altri film che affrontano questo presente, come Put Your Soul on Your Hands and Walk della regista iraniana Sepideh Farsi, o The Voice of Hind Rajab della tunisina Kaouther Ben Hania. Dal tuo punto di vista, quanto possono influire il cinema e l’arte nella formazione di una coscienza collettiva? E quale senso di responsabilità avverte oggi una filmmaker palestinese nel rappresentare ciò che sta accadendo?
Credo sinceramente che il cinema sia una delle forme di comunicazione e d’arte più potenti e più belle che il mondo abbia mai conosciuto. Per me è allo stesso tempo un atto di sfida e un’affermazione di esistenza.
Può mettere in discussione gli stereotipi, smantellare le percezioni distorte, aprire spazio a un popolo le cui voci sono state a lungo marginalizzate o alterate.
Il cinema ha la capacità di rivelare l’ingiustizia e costringere il pubblico a confrontarsi con una realtà che altrimenti potrebbe ignorare. Genera empatia avvicinando gli spettatori alle esperienze vissute, permettendo al personale di diventare universale e trasformando storie individuali in verità umane condivise.
Per i palestinesi diventa un modo di reclamare una narrazione sequestrata e di invertire decenni di disumanizzazione.
Contrasta lo status quo, resiste alla compiacenza, offre una rappresentazione significativa a comunità cui tale rappresentazione è stata negata.
L’arte può anche mobilitare, a volte silenziosamente, a volte con urgenza, informando e ispirando.
E, cosa fondamentale, il cinema preserva storia e memoria di fronte a cancellazioni e negazioni.
In questo senso, la responsabilità che sento come filmmaker palestinese non è astratta: è molto presente.
È la responsabilità di raccontare le nostre storie con onestà e dignità, di creare opere che lascino spazio alla complessità, e di contribuire a una coscienza collettiva che rifiuta di dimenticare ciò che sta accadendo.
Almeno, spero che sia questo ciò che il mio cinema riesce a fare.
Per concludere?
Il cinema di Nabulsi usa un linguaggio capace di superare la soglia dell’impotenza. L’arte, per dirla con l’autrice israeliana Ariella Aïsha Azoulay, si fa così archivio contro l’oblio, uno strumento per riportare nel campo del visibile ciò che rischia di essere cancellato. Un esercizio di immaginazione politica, come ricorderebbe il critico d’arte e scrittore britannico John Berger.
Nel suo gesto estremo, il protagonista mette in gioco la propria vita pur sapendo che agli occhi del mondo
“la vita di un ostaggio israeliano, vale quanto mille vite palestinesi.”
Farah Nabulsi porta questo paradosso morale al centro della narrazione e lo trasforma in un luogo di verità. È qui, in quella zona di ferita, che il suo cinema continua a interrogare noi tutti. La domanda che attraversa The Teacher nasce dal dolore stesso delle vittime: sarò capace di perdonare, potrò rinunciare alla vendetta, posso resistere senza diventare ciò che combatto?