Tua Madre è un docufilm diretto da Leonardo Malaguti e scritto insieme a Margherita Arioli, che esplora il tema complesso della maternità con leggerezza e una buona dose di umorismo, raccogliendo le testimonianze di donne — madri e non — che rispondono alla domanda: «Che cosa significa essere una mamma?»
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È un film realizzato da giovani, fresco ed efficace, capace di arrivare in profondità senza risultare pesante né scivolare nella superficialità o nella retorica.
Tua madre segue il percorso di Dania (interpretata da Dania Rendano), una ragazza di 25 anni, aspirante regista, che si trova a fare i conti con una gravidanza inattesa. Per capire se vuole davvero diventare madre, Dania decide di incontrare e interrogare donne di età, storie e visioni diverse, trasformando la sua incertezza, le sue paure e i suoi dubbi in un film.
Il risultato è un viaggio personale ma anche collettivo, che attraversa e scioglie paure, preconcetti e ruoli imposti, mettendo in discussione il mito della madre con sensibilità e intelligenza.
Ibrido tra fiction e documentario, il film restituisce la complessità della maternità contemporanea grazie soprattutto a testimonianze diverse – a volte antitetiche – che offrono molteplici prospettive da cui guardare la figura della madre, senza mai lasciarsi andare al giudizio. Nel confronto con queste voci, Dania scopre di non essere sola.
Rilevante anche la scelta di includere, tra i testimoni, un ragazzo trans (Dario Tramacere) che ha avuto un figlio prima della transizione: un’esperienza di genitorialità diversa, che ha pieno diritto di essere rappresentata al pari delle altre e arricchisce ulteriormente il discorso.
Dal punto di vista estetico, il film rispecchia perfettamente le mani e le menti giovani che lo hanno creato: un’estetica pop che nulla toglie allo spessore del tema trattato ma anzi risulta essere un punto di forza, dimostrando che pop e profondità non si escludono affatto.
Numerosi i temi affrontati: dal rapporto madre/figlio all’aborto, senza mai ridurre la figura della madre a uno solo di questi aspetti. Tante domande e poche risposte, com’è giusto che sia: perché ogni madre resta, prima di tutto, una donna, unica anche nel modo in cui affronta questa sfida.
Un film che prova a demolire un mito soffocante per restituire umanità alla figura materna – e il diritto di essere anche imperfetta.
Nato dall’incontro con Umberto Maria Angrisani, che ha prodotto il film con la sua neonata casa di produzione EXA — fondata a Napoli nel 2024 e specializzata nel cinema di finzione e nel documentario d’autore — in collaborazione con i produttori esecutivi Wilma Labate e Giovanni Toni.

Intervista a Leonardo Malaguti e Dania Rendano
Possiamo definire Tua Madre un documentario d’autore? Qual è l’elemento formale o narrativo in cui riconosci maggiormente la tua impronta registica?
( Leonardo Malaguti ) Il discorso su cosa sia un autore è enorme e non penso di dover dare io questa definizione. Tua Madre è sicuramente un documentario molto personale, in cui sento di ritrovarmi anche stilisticamente. Ho un approccio estremamente artigianale al lavoro del cinema – ma in generale al lavoro creativo – perché nasco disegnando e ho sempre bisogno di “toccare” le cose.
Mi riconosco in questo collage, in questo mix di medium diversi – il cinema, il disegno, la grafica. Da questo punto di vista sono intervenuto moltissimo in prima persona. Gli elementi grafici li ho realizzati a mano: Dania può testimoniare che, mentre stavamo smontando tutto, io ero sul pavimento a fare l’animazione delle matrioske. È proprio l’aspetto che mi diverte di più del lavoro del cinema, e in questo mi riconosco: c’è una giocosità e un’artigianalità da cui mi sento rappresentato.

Leonardo Malaguti
Tua Madre affronta un mito profondamente radicato nella cultura italiana – quello della mamma – evitando però un approccio didascalico. Cosa ti interessava decostruire, a livello narrativo e simbolico, di questa figura così ingombrante nel nostro immaginario collettivo?
(L.M.) Tutto è partito quasi da una provocazione. A un certo punto, riflettendo sul tema, ho pensato: e se partissimo dall’idea provocatoria che la mamma, per come è raccontata nella cultura italiana, è la base del patriarcato? Era nata come una provocazione giocosa, e invece mi sono reso conto che aveva molte più basi di quanto immaginassi.
Ho notato come persone anche estremamente progressiste, aperte, iper – femministe, quando parlano della mamma improvvisamente regrediscano a uno status: la madre che si martirizza per i figli, che ha dato tutto per loro. Sentire questi discorsi mi fa sempre un certo effetto — soprattutto se pronunciati da persone che, se non si parlasse della loro madre e ascoltassero affermazioni del genere, probabilmente rimarrebbero colpite da questo approccio alla femminilità e alla maternità.
Così mi sono chiesto se non fosse davvero un mito da provare ad abbattere: desacralizzare questa figura per alleggerirla, magari anche liberarla, e riportare il focus sulla persona, non sul punto di vista del figlio.

Dania e Marina Turi
In che modo hai portato avanti l’intento di liberare questa figura da tutte le aspettative umane e sociali che le si incollano addosso nel momento in cui una donna diventa madre?
(L.M.) Penso che il mio ruolo, nella liberazione di questa figura, sia quello di portare le persone a farsi delle domande che possano poi spingerle a riflettere e, magari, a liberare la propria visione. È stato bello vedere come tutta la crew abbia iniziato a guardare la propria vita, il proprio rapporto con la mamma o con altre figure familiari in maniera diversa. Questa, credo, sia la cosa più bella che si possa desiderare ed è sicuramente la più auspicabile.

Dania e Silvana Agatone
La gravidanza di Dania è una cornice di finzione e non una realtà: quale è stata la motivazione di questa scelta? Questo aspetto ha influenzato il tono e la sincerità delle donne intervistate?
(L.M.) Ha influenzato il tono del film, ma non ha influito minimamente sulle interviste. C’è stato un lavoro molto meticoloso nel costruire questo arco narrativo, perché ci sembrava necessario come trampolino di lancio: serviva a dare una motivazione alle domande, al percorso, alla ricerca, e anche ad aiutare lo spettatore a entrare più profondamente nella storia. L’elemento di finzione, quindi, ha la funzione di facilitare l’ingresso nell’elemento di realtà.
Per quanto riguarda le interviste, invece, non ha avuto alcuna influenza: sono state condotte come vere e proprie interviste documentaristiche. A parte il momento in cui Dania dice al ragazzo che è incinta — lì era pensato volutamente per ottenere una reazione da quello specifico intervistato , perché aveva senso nella conversazione — per il resto tutte le interviste sono assolutamente genuine.

Dania e Giorgia Palombi
Quindi, le donne intervistate sapevano in anticipo di questa finzione?
(L. M.) No, non necessariamente, ma dipendeva anche dal rapporto con le persone. L’obiettivo era mantenere la conversazione più naturale e spontanea possibile. Ci sono state interviste con persone che conoscevamo già e che, in qualche modo, hanno anche contribuito alla costruzione del documentario.
(Dania Rendano) Per esempio, Wilma Labate, che è stata dall’inizio parte del progetto, lo sapeva, così come la ginecologa. In altri casi non era necessario specificarlo, perché l’intervista era centrata sulla figura della mamma, non riguardava me.
(L.M.) Sì, esatto. In alcuni casi non abbiamo neanche parlato dell’elemento narrativo del film: dicevamo semplicemente di voler fare un documentario sulla figura della mamma. Quindi, quando Dania intervistava, questa cosa non veniva nemmeno fuori. Spesso non c’era alcun bisogno di integrarla.
Perché hai scelto una ragazza non incinta per questo ruolo?
(L.M.) Certo, se avessi trovato una stand up comedian così brillante e incinta sarebbe stato ideale. Però, a un certo punto, anche per una questione pratica, era importante avere questo device narrativo per dare un senso a tutto il percorso.
Ovviamente, una ragazza incinta, che stava realmente vivendo questa situazione, avrebbe aggiunto un ulteriore livello di realtà. Ma non necessariamente avrebbe reso il film migliore, penso.

Dania Rendano
Possiamo dire che Dania compensa bene questa “mancanza” con la sua innata spontaneità, la sua prontezza nel rispondere e il suo saper trattare con leggerezza – senza mai risultare superficiale – argomenti così delicati?
(L.M) Dania è stata una scelta immediata, dal primo momento in cui ci siamo sentiti al telefono. Lei conosceva il progetto e mi ha detto che l’idea di sviluppare qualcosa su questo argomento le interessava. Ci conoscevamo, letteralmente, da cinque minuti. Mi ha raccontato che, a 17 anni, aveva abortito con una tale nonchalance, normalità e ironia che era esattamente ciò che cercavo per il documentario. Ho capito subito che era una persona a cui non avrei dovuto spiegare come volevamo raccontare questa cosa. Infatti, ci siamo trovati immediatamente.
Nel docufilm racconti esperienze profondamente personali, come l’aborto avvenuto a 17 anni. Come ti ha fatto sentire parlarne davanti alla macchina da presa? È stato naturale fin dall’inizio o hai avuto qualche esitazione?
(D.R.) Mi è venuto naturale. Sono una persona molto spontanea, mi capita spesso di fare oversharing: è successa la stessa cosa anche per questo film.
Però devo dire che avevo molta fiducia nel fatto di essere nelle mani di persone che mi avrebbero tutelata. Parlando di questi temi, ho instaurato con tutti un rapporto molto intimo – anche, per esempio, con il fonico o con l’operatore di camera. Ognuno, in qualche modo, ha condiviso qualcosa della propria storia e si è creato questo ambiente in cui mi sentivo molto protetta, sentivo di poter dire le cose e condividere le mie esperienze, sapendo che sarei stata tutelata. Questo mi ha dato molta fiducia.
Come è nata l’idea di intraprendere un’indagine sulla maternità e perché hai scelto la forma del docufilm?
(L.M.) È una tematica che con Margherita Arioli abbiamo affrontato spesso, anche per altri progetti. Il documentario, poi, è un linguaggio a sé all’interno del cinema: è interessantissimo da esplorare e ti dà una possibilità di sperimentazione che a volte la finzione non offre. Ci interessava affrontare questo tema parlando con le persone, riportando esperienze reali, e attraverso queste esperienze capire qualcosa in più. Per questo abbiamo pensato che la forma documentaristica fosse il modo migliore per tentare questo percorso.
Umberto, il produttore di Exafilm, ci ha appoggiato fin da subito – soprattutto nell’approccio al docufilm, che è la definizione che preferisco. Non è un documentario puro, perché contiene un elemento di finzione, ma il 90% di ciò che c’è nel film è documentaristico.
Io credo molto nell’ibridazione, non sento alcun tipo di limite: per me la finzione è spesso un mezzo per rendere più fruibile la realtà, per renderla più immediata. Come diceva Werner Herzog, e come penso anche io, il cinema è comunque un filtro: la realtà non sarà mai al 100% ciò che vedi davanti alla macchina da presa. Tutto passa attraverso un processo che inevitabilmente toglie qualcosa. E a volte aumentare ciò che hai davanti alla macchina da presa ti aiuta, perché, una volta passato attraverso questo filtro, il pubblico lo percepisce comunque come naturale e reale. Proprio perché ciò che è stato “tolto” non sottrae nulla alla verità dell’esperienza.
Cosa ti ha fatto dire sì a questo progetto?
(D.R) Il tema mi è caro, avevo voglia di far parte di un progetto che parlasse di questo argomento.
In Tua Madre tu non incarni né un personaggio né te stessa al 100%, ma una possibile versione di te. Come hai vissuto questo aspetto a livello recitativo?
(D.R.) Questa è una bella domanda … non lo so, la mia vita è un po’ così, fatta di stati che oscillano tra la realtà e la finzione; quindi, è una condizione a cui sono abituata. Prima mi mandava in crisi, adesso l’ho abbracciata.
Nel documentario, in particolare, le intervistate mi hanno aiutato molto a rimanere coi piedi per terra. Il fatto che fossi davvero interessata alle loro storie mi ha guidata in questo percorso: non mi chiedevo come loro vedessero me, o che personaggio stessi interpretando. Ero presente al 100% per l’interesse genuino che avevo verso ciò che stavo chiedendo.
Prendendo parte a questo progetto e ascoltando le donne che hai intervistato, in qualche modo è cambiata la tua visione personale su questo argomento oppure l’hai solo riconfermata? In che modo questa esperienza ti ha arricchito?
(D.R.) Ho imparato tantissime cose, sia più scientifiche e tecniche, sia legate alle esperienze personali. Probabilmente il fatto che molte delle persone intervistate avessero età diverse ha giocato un ruolo importante. Anche se, naturalmente, a prescindere dall’età, ognuno ha esperienze completamente differenti.
Una cosa che sicuramente ho imparato è giudicare meno mia madre. Una volta mi è stato detto che i rapporti verticali — quelli con i nostri genitori — si possono risolvere solo attraverso altri rapporti verticali, mai attraverso rapporti orizzontali come, per esempio, quelli che si instaurano con gli amici. In un certo senso, poter “fingere” di essere una mamma mi ha dato la possibilità di replicare un rapporto verticale e questo, paradossalmente, mi ha aiutata a rivedere e risolvere qualcosa nel rapporto con la mia mamma e con la figura materna in generale.
Quale intervista vi ha colpito di più?
(L.M.) Ce ne sono molte che sono state intense, come esperienze da girare e da vivere.
Le affermazioni che per me sono state più forti, in senso positivo, sono quelle di Paola Lamartina, la suora laica. Non ti aspetti di sentire una persona come lei dire certe cose, probabilmente per un pregiudizio.
Riflettevo su come si crei quasi un gioco di specchi tra l’intervista alla ministra Roccella e quella a Lamartina: due persone della stessa generazione, che condividono teoricamente un percorso di fede o comunque un’educazione molto legata alla religione, possono avere due posizioni così diverse. La flessibilità del pensiero di Paola Lamartina mi ha fatto veramente molto effetto.
(D.R.) Sì, anche a me, moltissimo. Riguardandolo, mi ha commossa di nuovo. Quell’intervista emana un senso di giustizia profonda. Mi ha colpito anche l’intervista con il ragazzo perché incarnava un pensiero considerato comune – estremamente comune. Ci stupiamo nel sentire suor Paola dire che il mondo finirà con la parità dei sessi, mentre troviamo normale che un figlio possa dire di essere così geloso della madre.
Come è stato avere una conversazione così personale con la ministra Roccella?
(D.R.) Forse non ero davvero consapevole della situazione. Era un contesto molto informale: stavamo prendendo il tè, l’ho aiutata a mettersi lo zucchero, la toccavo. A rivederlo è stato strano: lì per lì, sembravamo amiche. Questo è un tema che unisce le persone nel racconto delle proprie esperienze intime. Avevo letto il suo libro e mi interessava molto la sua vita privata. Alla fine, l’ho vista meno come una ministra e più come una donna che mi stava raccontando la sua storia.
(L.M.) La ministra è stata estremamente disponibile nel dialogo. Penso che Dania sia stata anche coraggiosa nel modo in cui, in maniera molto naturale, ha controbattuto ad alcune affermazioni. Questo mi ha colpito perché noi avevamo preparato una lista di domande, ma poi tante cose sono nate sul momento. Lei è stata bravissima a giocare questo ping pong, senza lasciarsi intimidire dal contesto, pur rimanendo sempre rispettosa e professionale.
(D.R.) È stato difficile, perché la ministra ha una dialettica importante: da questo punto di vista eravamo ad armi impari. Lei era abituata a fare quel tipo di intervista, io no. Usava, come qualsiasi politico, dei dati che io sentivo di non poter controbattere come avrei voluto. Dopo un’ora e mezza di intervista ero stanca: sono persone che fanno questo di mestiere, abituate a parlare con i giornalisti. In questo mi ha salvato la spontaneità del considerarlo come una chiacchierata tra due donne.

Dania e la ministra Roccella