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Approfondimenti

Il Vampiro: il mito gotico attraverso la lente del cinema

Eros, sangue, dannazione, blasfemia e amore eterno. Questi e molti altri sono gli archetipi di una delle figure più affascinanti della letteratura e del cinema: il vampiro.

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Il vampiro è una delle figure più affascinanti e intriganti della mitologia gotica.
Il cinema, come la letteratura, ne ha inevitabilmente subito il fascino, cucendo sul personaggio del vampiro un insieme di archetipi che ne definiscono la figura scenica.
Nonostante alcuni topos che lo identificano più di altri — i denti aguzzi, l’irresistibile sete di sangue e la peculiare condizione di non morto tra i vivi — il vampiro ha assunto diverse forme nella storia del cinema.
Diventando anche chiave di metafore e analisi sulla società contemporanea per gli artisti che l’hanno portato sul grande schermo.
Ecco alcuni dei capolavori cinematografici che hanno reso il mito del vampiro un’icona intramontabile.

Il Vampiro di Murnau e l’Espressionismo Tedesco

Nasce nel 1922, con Nosferatu – Eine Symphonie des Grauens, la prima grande apparizione cinematografica del vampiro.

Friedrich Wilhelm Murnau, figlio del cinema tedesco espressionista, trasforma la figura di Dracula in un simbolo della peste e della decomposizione. Il suo Conte Orlok — nome reinventato dal regista a causa della mancata concessione dei diritti d’autore sul Dracula di Bram Stoker dalla sorella dello stesso scrittore —  interpretato da Max Schreck, non è affascinante né romantico: è una sagoma che si arrampica sui muri, un corpo che porta con sé la morte come un miasma. L’estetica di Murnau è fatta di ombre, geometrie spezzate e lente dissolvenze: il vampiro diventa immagine pura, la personificazione della paura collettiva e del trauma storico di un’Europa ancora ferita dalla guerra.

In Nosferatu, il male non è psicologico ma naturale, come un vento che attraversa il mondo. E il cinema — arte della luce e dell’ombra — ne diventa il terreno privilegiato: è lo spazio in cui la notte prende forma.

Uno spettro fra il gotico e la sensualità

Negli anni ’30, con Dracula di Tod Browning e l’interpretazione ipnotica di Bela Lugosi, il vampiro entra nella cultura di massa.

Il mostro di Murnau diventa qui un aristocratico raffinato, un signore della notte che seduce e comanda. Il gotico hollywoodiano trasforma la malattia in fascino, il contagio in eros.

Negli anni ’50 e ’60, la Hammer Films rinnova il mito con Christopher Lee: sangue rosso, sete e desiderio. Le ombre espressioniste si tingono di porpora, e il vampiro diventa specchio della repressione sessuale e morale dell’epoca.

Il corpo, prima negato, ora domina la scena: il morso è atto erotico, la morte un’estasi. È in questa fase che il vampiro smette di essere un semplice mostro e diventa simbolo del desiderio che non può essere contenuto.

Un’esistenza malinconia giace nell’ombra: Werner Herzog e il suo  Nosferatu- Il principe della notte

Nel Nosferatu – Il principe della notte del 1979, Werner Herzog trasforma il mito del vampiro in una meditazione esistenzialista sulla solitudine e sul tempo. Lontano dall’orrore espressionista di Murnau, il suo Conte  — un Klaus Kinski pallido e febbrile, prigioniero della propria eternità — non incute terrore, ma compassione. È un essere condannato a desiderare ciò che non può possedere: la vita, l’amore, la fine.

Il regista tedesco costruisce un universo ipnotico, dove il paesaggio diventa specchio dell’anima e la peste che invade Wismar è più metafora che malattia. La bellezza glaciale di Isabelle Adjani (Lucy Harker), la musica sacrale dei Popol Vuh, i silenzi sospesi: tutto concorre a un’estetica del disfacimento, dove la morte è un atto d’amore e la luce sembra già un ricordo.

Nel suo Nosferatu non c’è paura, ma malinconia. È il racconto di un mondo che svanisce lentamente, osservato da un vampiro che, più che succhiare sangue, sembra implorare di poter finalmente dormire.

Bram Stoker’s Dracula di Francis Ford Coppola: il ritorno della seduzione

Nel 1992, Francis Ford Coppola realizza Bram Stoker’s Dracula, un’opera che è allo stesso tempo reinvenzione e omaggio.

Il regista americano rilegge la figura di Dracula come tragedia amorosa e metafora del cinema stesso: un mondo costruito di luci, specchi e illusioni ottiche. Ricalcando perfettamente ciò che afferma Jonathan Harker nel romanzo omonimo di Bram Stoker:

“Ma questa volta, impossibile l’errore: mi stava vicino, lo vedevo da sopra la spalla, ma nello specchio egli non si rifletteva […] Era sorprendente e, aggiungendosi a tante altre stranezze, non faceva che accrescere quella vaga sensazione di disagio che avevo sempre provato in presenza del Conte.”

Gary Oldman incarna un vampiro dilaniato dal dolore, innamorato dell’idea stessa dell’eterno ritorno. La macchina da presa si muove tessendo diverse trame tra loro, come accade nell’omonimo romanzo, ricolmando l’inquadratura di simboli e desideri: sangue come amore, immortalità come condanna.

Francis Ford Coppola torna all’idea del vampiro come creatura romantica e religiosa, oscillante tra peccato e salvezza, ma lo fa attraverso una consapevolezza cinefila, un barocco visivo che cita Méliès, Murnau, Dreyer.

Il vampiro di Coppola è anche metafora del cinema stesso: l’invenzione del cinematografo accade proprio negli anni in cui il conte va a Londra per cercare Mina, interpretata da Winona Ryder in uno dei suoi ruoli più iconici. Dracula diventa così il doppio del cinema: immortale, artificiale, fatto di memoria e riflessi.

La città come inferno: The Addiction di Abel Ferrara

Nel 1995, Abel Ferrara ambienta il vampirismo nelle strade sudice di New York.

In The Addiction, il bianco e nero scolpisce e mette in evidenza la colpa del contemporaneo: la dipendenza come nuova forma di vampirismo. I vampiri di New York vengono rappresentati dal regista come dei junkies, tossicodipendenti che cercando di colmare il vuoto dell’esistenza impregnata dal capitalismo attorno a loro, attraverso la dipendenza: il sangue diventa simbolicamente la dose di eroina indispensabile per sopportare le idiosincrasie delle esistenze che vivono i protagonisti.

Lili Taylor è una studentessa di filosofia che, morsa da una vampira, inizia a nutrirsi di sangue. Ma Ferrara non cerca il sensazionalismo: costruisce un discorso morale, religioso, in cui la fame, o meglio la sete, diventa allegoria della grazia perduta.

Il vampiro è peccatore e predicatore, corpo che desidera e mente che rifiuta. È un essere che cerca salvezza in un mondo che non crede più alla redenzione.

La città, con i suoi vicoli bui e i suoi palazzi anonimi, sostituisce il castello gotico: l’inferno è urbano, quotidiano, mentale.

The Addiction è il punto in cui il mito si piega alla modernità, e il sangue diventa un’altra forma di sostanza.

Eternità, arte e amore: Solo gli amanti sopravvivono di Jim Jarmusch

In Solo gli amanti sopravvivono del 2013, il vampirismo non è più maledizione ma condizione esistenziale. È un poema languido sull’amore e sul tempo, dove Adam e Eve — Tilda Swinton e Tom Hiddleston, creature d’ombra e di cultura — attraversano i secoli come reliquie sensibili di un mondo esausto. I loro gesti sono piccoli riti di sopravvivenza: un vinile, un libro antico, una carezza sotto la luce sporca di Detroit.

Jarmusch svuota il mito dal suo orrore portando sullo schermo una storia d’amore eterna. Il sangue è raro e prezioso, la notte è rifugio e malinconia, e l’amore — fragile ma ostinato — diventa l’unica forma possibile di resistenza contro l’entropia del presente. Tutto nel film è sospeso, fluttuante, come una musica che non vuole finire.

In questo tempo immobile, i vampiri di Jim Jarmusch non cercano redenzione: cercano ancora bellezza, nonostante tutto. E nel loro languore, forse, riconosciamo il desiderio di sentirsi vivi dentro un mondo che svanisce sotto l’imperativo categorico dell’eternità.

Il ritorno del vampiro predatore: Nosferatu di Robert Eggers

Nel 2025, Robert Eggers riporta in vita il mito primordiale con il suo Nosferatu, un film che è insieme remake, evocazione e stregoneria.

Dopo oltre un secolo, l’ombra di Murnau torna a proiettarsi sullo schermo, ma Eggers non cerca il tributo: cerca il sortilegio. Girato con una precisione maniacale e una fotografia spettrale, il film trasforma l’espressionismo in incubo fisico.

Bill Skarsgård interpreta il Conte Orlok scolpito nella decomposizione, un corpo che si disfa sotto il peso della sua stessa immortalità. Eggers fonde realismo storico e visionarietà gotica: il vampiro non è più simbolo del male esterno, ma del tempo stesso che corrompe ogni cosa.

Nel suo Nosferatu, il sangue non è solo nutrimento, ma memoria che imputridisce; la luce non salva, ma svela.

Il regista americano rilegge l’estetica di Murnau come una materia vivente, costruendo un film che sembra sorgere dall’ombra del cinema stesso , un’opera che riflette sul vedere, sul perire e sul ricominciare a guardare.

Robert Eggers restituisce al vampiro la sua funzione originaria: essere la ferita da cui il razionale continua a sanguinare.

La parodia di se stesso e il disincanto contemporaneo: Dracula di Radu Jude

Con Dracula, il regista rumeno Radu Jude demolisce il mito e lo riporta alla realtà postmoderna.

Il regista, già noto ai più come autore di un cinema politico sferzante, affronta la figura del vampiro attraverso il tono di una satira feroce e disillusa. Il suo Dracula non abita più castelli o cripte, ma la contemporaneità: un’Europa logorata dall’ipocrisia, dalla memoria selettiva e dal consumo.

Radu Jude usa l’immagine del vampiro come metafora di un potere che non muore mai, che continua a succhiare linfa alla storia e alla società, fino a diventare un grottesco simbolo del turismo e del consumismo. Nel suo film, la Romania — patria del mito e luogo della sua eterna finzione — diventa palcoscenico della stanchezza. Il vampiro è un burocrate, un attore, un fantasma che non trova più un senso.

Attraverso lo humour e l’utilizzo volutamente grossolano dell’AI, il regista porta lo spettatore in una sorta di meta-cinema,  smascherando la sterilità di un’epoca che ha trasformato l’orrore in spettacolo e la memoria in merce.

La vera condanna del vampiro è l’amore perduto: Dracula – A Love Tale di Luc Besson

Nel 2025, Luc Besson chiude idealmente il cerchio. Dracula – A Love Tale è un film intriso di un intenso romanticismo, caratterizzato da  un’estetica prettamente malinconica.

Il regista sottrae al mito la sua ferocia e lo trasforma in un uomo dannato dall’infelicità che solo un cuore spezzato può vivere. Il suo vampiro, interpretato magistralmente da Caleb Landry Jones, è una figura che vive nel rimpianto di un amore interrotto precocemente e della sua memoria infinita.

I castelli gotici si riempiono di bagliori dorati, la notte si fa pittorica. Il sangue non è più orrore, ma simbolo della continuità del sentimento. Il regista francese riconsegna il vampiro al suo destino più poetico: quello di incarnare la nostalgia stessa del cinema. Un amore durato 400 anni è l’unica via di redenzione per l’anima perduta del suo Dracula.

Il vampiro sopravvive, ma è ormai stanco, contemplativo. Il suo morso è carezza, la sua fame è  dettata dalla solitudine. Luc Besson non cerca più di spaventare: cerca di ricordare. Il vampiro, come lo spettatore, non vuole altro che continuare a guardare.

Dalle notti del muto alle nebbie digitali, la figura del vampiro ha attraversato il cinema come una presenza costante, mutevole, specchio di ogni epoca. È stato malattia, desiderio, dipendenza, confessione, satira e rimpianto, ma nonostante le diverse chiave d’interpretazione il mito del  vampiro racconta sempre la stessa verità: la paura di morire e l’orrore di non poterlo fare.