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100 anni di Nosferatu: il cinema succhiasangue

Friederich Murnau con Nosferatu firmava non solo uno dei suoi film più belli, ma un capolavoro fondante della storia del cinema

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Cento anni fa, il 2 marzo del 1922, a Berlino veniva proiettato per la prima volta Nosferatu, eine Symphonie Des Grauens, film muto diretto da Friederich Murnau, considerato oggi il capolavoro del regista tedesco nonché uno dei capisaldi del cinema horror ed espressionista.

Il film, in un bianco e nero che oggi contribuisce ad accrescere l’inquietudine di ogni suo fotogramma, era liberamente ispirato al romanzo di Bram Stoker Dracula, del 1897, del quale però la produzione dovette modificare tutti i nomi dei personaggi (Dracula diventa infatti Orlok, la location non è più Londra ma Wisborg) per mancanza dei diritti sull’opera: nonostante questo, Murnau fu denunciato dagli eredi di Stoker.

(Tra parentesi: Stoker non era stato certo il primo a scrivere di vampiri, visto che il primato spetta a John Polidori con il suo Il Vampiro del 1819, seguito a ruota da James RymerVarney Il Vampiro o Il Banchetto di Sangue– e Sheridan Le Fanu, tutti ispirati dall’essere mitologico e folcloristico nato da superstizioni della Mitteleuropa e dal primo caso di vampirismo documentato –Jure Grando-).

Conseguenza: la causa fu (ovviamente…) persa, e lui fu costretto a distruggere tutte le copie esistenti dell’opera, che però è arrivata ai giorni nostri grazie d una copia clandestina salvata dal lungimirante autore.

Il film, a parte questi piccoli dati cronachistici, è una vera e propria perla che risplende della luce di Murnau. “Ci sono registi che o credono nell’immagine o credono nella realtà”, ci spiegano i libri di storia del cinema con le parole del critico francese Andrè Bazin: ed ecco, Murnau fa parte del secondo gruppo, quello che fa fronte verso un montaggio fluido, uno spazio analogico organizzato, che sa eccitare lo sguardo dello spettatore e sa visualizzare il suono.

Il cinema tedesco, nella fattispecie con l’espressionismo tedesco, aveva come nucleo tematico e stilistico quello di svelare il sogno e l’inconscio represso, anzi meglio il perturbante freudiano: concetto al quale si lega alla perfezione nel momento in cui come Freud utilizza prospettive oblique e false dando alla luce ciò che è sempre perennemente al buio.

Con Nosferatu, Murnau consegna alla storia quella silhouette nera, quel cranio rasato, quelle orecchie puntute che si avvicinano lentamente all’occhio della cinepresa, prendendo della creazione stokeriana solo quanto serve a creare un nuovo (per l’epoca) mostro uscito dall’inconscio.

Sta di fatto che da allora la figura del vampiro, ammantata di romanticismo e orrore in un impasto viscoso e vertiginosamente unico, non ha mai smesso di incuriosire l’audiovisivo (cinema e televisione) che hanno declinato il personaggio del conte transilvano da diversi punti di vista. Vediamo i risultati più interessanti.

CABALA VAMPIRICA

Nosferatu fu vietato in diversi paesi, alla sua uscita, e pubblicizzato come un film occultista-erotico-spiritista-metafisico: in effetti, l’idea alla base della produzione era di Henrik Galeen e Gustav Albin Grau, quest’ultimo disegnatore e occultista, dalla quale fantasia nacque una delle sequenze più memorabili del film (l’esibizione della lettera in controluce, con chiari simboli cabalisti).

Galeen e Grau rielaborarono, e di molto, il nobile aguzzino della Transilvania, che in realtà nelle pagine di Stoker appariva come un nobile decaduto, non privo di fascino, ma non certo dalle sembianze mostruose; che oltretutto si rifaceva a Vlad III Hagyak di Valacchia detto “L’Impalatore”, personaggio storico realmente esistito dal cognome patronimico Draculea (figlio del Diavolo), che adorava come suggerisce il suo soprannome impalare i propri nemici.

Fu allora Tod Browning, altro regista fondamentale, a dare al conte rumeno le vesti che gli appartenevano dalle pagine del libro: nel 1931 infatti esce al cinema Dracula, che stabilisce anche l’iconografia classica del vampiro hollywoodiano.

Questa volta a vestire il mantello è Bela Lugosi (che si identificò così tanto con il successo del personaggio da farsi seppellire con gli abiti di scena): e il film rappresenta, sicuramente anche grazie al suo sguardo magnetico e alla sua recitazione overacting e preconizzante, uno snodo fondamentale -probabilmente dovuto anche all’avvento del sonoro, spettacolare e sensazionale- all’interno della storia del cinema dell’orrore, in grado di modificare in modo sensibile la fruizione del genere e allo stesso tempo fautore di un canone interpretativo che resiste ancora oggi.

Paradossalmente, però non è nella regia di Browning che il film trova la sua arma vincente (l’autore avrebbe fatto altre sortite, migliori, nel cinema di Hollywood, da Freaks a Lo Sconosciuto) bensì prima di tutto nella dolente assonanza tra Dracula e Lugosi: vale a dire Bela Ferenc Dezso Blasko, che aveva dovuto abbandonare l’Ungheria, suo paese natio, nel 1919, con la rivoluzione sovietica ungherese fallita, rifugiandosi nell’esilio. Anche per questo, nel suo sguardo ferale e ferino sembra sempre agitarsi il demone della malinconia, che rende il suo vampiro un essere non dimentico del dolore e quindi ancora più terrificante nella sua azione predatoria.

Inoltre, consapevole della natura teatrale del testo, Browning si limita ad una messa in scena statica inserendo il soprannaturale, non ricorrendo ad effetti speciali o scenici, bensì rendendo Dracula fuori posto ovunque, di modo che la sua presenza di per sé sia disturbante, contribuendo all’atmosfera malsana di inquietudine in un film di nebbie, scenografie di bianco contro nero, di Bene contro Male, diventando così un canone espressivo.

Solo un anno dopo un altro grandissimo autore mette mano al personaggio: il film è Vampyr, il regista è Carl Theodor Dryer.

NEBBIE E SANGUE

Regista profondamente spirituale, uno dei massimi esponenti della cinematografia mondiale di tutti i tempi, nel 1932 crea un film dell’orrore con incubi bianchi e nebbiosi, variando di già il tema giocando con la Carmilla Le Fanu, con Edgar Allan Poe e con rimandi al neorealismo di Bunuel e Cocteau.

Dryer utilizza le coordinate del genere horror per sperimentare nuove tecniche e staccarsi dall’espressionismo: la figura del vampiro maschio non è più allora centrale, si sgretola il racconto lineare con personaggi facilmente identificabili, e via libera ad una vampira saffica e instabili punti di vista (tra cui un seppellimento visto dall’interno di una bara).

Vampyr affronta il mito del non-morto e lo fa non rappresentando la lotta tra reale e soprannaturale, bensì realizzando in tutto e per tutto un film totalmente fuori dalle coordinate della logica, dell’ordine costituito, restituendo una marcia funebre onirica e malsana, una soggettiva spalancata verso mondi senza nessun rapporto con il Divino e con la Luce.

Per la tappa successiva, occorre ora fare un balzo in avanti di quasi vent’anni, e arrivare al 1958, anno in cui Terence Fisher girò il suo Dracula Il Vampiro, aprendo le porte del free cinema (movimento cinematografico inglese sociale e politico di contestazione del cinema britannico, inserito nel più ampio movimento delle nuove onde emerse nelle cinematografie europee) e inaugurando una delle stagioni più felici della casa di produzione Hammer. I vistosi canini di Cristopher Lee sono identificativi dell’ennesima, iconica declinazione del vampiro, questa volta a stretto contatto con il camp che verrà, il film lascia campo libero al colore e alla sensualità del regista.

Dracula Il Vampiro è il primo di una serie che comprende altri 5 seguiti e ben 2 spin-off: era un’impresa quasi impossibile, alla fine degli anni Cinquanta, superare nell’immaginario comune Bela Lugosi come succhiasangue, e invece Lee ci riuscì nonostante l’esiguo minutaggio che ha in tutto il film (dieci minuti più o meno su novanta), segnando lo stile Hammer con il mix di sottile erotismo e atmosfere gotiche e con la messa in scena cupa e raffinata per portare in sala un terrore strisciante che sale ad alti livelli tensivi nelle sequenze con il vampiro protagonista.

RILEGGERE (O CORREGGERE?) IL MITO

Dopo tre rappresentazioni che definirono per sempre la figura del vampiro nelle sue possibili variazioni sul tema, era necessario rivisitare il mito: è toccato prima a Roman Polanski che nel 1967 ha dissacrato e scrostato la patina del dejà vu con Per Favore Non Mordermi Sul Collo, giocando e ribaltando i cliché.

Mentre due decenni dopo, nel 1983, sempre nell’onda revisionista questa volta tinta di oscurantismo, Tony Scott con Miriam Si Sveglia a Mezzanotte accentua i lati erotici del personaggio alla luce del glam rock di David Bowie protagonista della pellicola, che insieme a Catherine Deneuve forma una coppia raffinata e malinconica in una città sospesa tra Londra e Manhattan. Per finire, nel 1987 Kathryn Bigelow ne Il Buio Si Avvicina usa il sole della California per corrodere la carne e il genere e rivisitare l’horror attraverso il western, e con un mood crepuscolare che fa il paio con il coevo Ragazzi Perduti, a far sì che il 1987 fosse l’anno per ridefinire la figura del vampiro, abolendo i capelli impomatati e il mantello nero a favore di giovani energici e assetati, in piena frenesia metaforica. Nasce infatti da qui il ripensamento dell’archetipo, essenziale rispetto agli Anni Trenta e Cinquanta, che in retrospettiva ha contribuito a rendere immortale il personaggio.

RESTAURAZIONE, MA CON MODERAZIONE

Che infatti, dopo la decostruzione e il ripensamento che andavano a delinearne l’essenza, aveva bisogno di essere ricostruito in chiave moderna ma sempre classica: ed ecco allora il capolavoro, Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola. Magnifica fusione mitica: Vlad III di Valacchia e il conte di Stoker, il dandy scottiano e la repressione vittoriana, tutto confluisce nello sguardo di Coppola e nel corpo di Gary Oldman.

È il primo film a cui il regista lavora dopo la conclusione della trilogia del Padrino, che attraverso le lenti deformanti dell’horror rielabora la storia stessa del cinema (arte non-morta per eccellenza) e riflette su di sé, sul gigantismo proprio del mezzo destinato ad una lenta e inesorabile decadenza nel cimitero di Hollywood, sul finire del Millennio terra più di incubi che di sogni; e sul contagio, sbriciolando l’ambizione sotto i colpi dell’effettismo e ri-azzerando la carica dell’Autore nel suo stesso sguardo, con il suo cinema in cerca di vita e mitopoietico.

In questa sorta di restaurazione, non poteva mancare la lettura estetizzante ma più morbida rispetto al rigore cinefilo di Coppola: sceneggiato da Anne Rice, dal suo romanzo del 1976, esce nel 1994 (a due anni di stanza dal Dracula d Bram Stoker) Intervista Col Vampiro, tradotto in immagini da Neal Jordan, che innesta nella leggenda le sue ossessioni sul tormento e sul rimpianto della mortalità. Uomini stanchi di vivere o solamente stanchi di essere uomini, sono i vampiri della Rice, desiderosi di sfuggire ad un orizzonte di deprimente miseria spirituale e fisica. Un racconto voluttuoso e lugubre avvolto dalle spire di un glamour madido di dannazione.

Vicino a questa dimensione di stanchezza spirituale ed esistenziale come punto di partenza del rifiuto della vita pe arrivare alla non-morte c’è Abel Ferrara, che nel 1995 dirige The Addiction – Vampiri a New York, uno dei suoi capolavori assoluti, immerso in una notte intrisa di peccato ed espiazione, voracità e assuefazione sessuale. Il film serve prima di tutto al suo regista come forma suprema di confessione, disegnando l’assoluta codificazione di una civiltà urbana marcia e corrotta, con il vampirismo come metafora perfetta di un’umanità abietta destinata alla sofferenza, alla condanna e al Male eterno. The Addiction è una straordinaria apologia del peccato, e in questo senso riporta il vampiro al suo mito fondante come icona letteraria e in quanto tale capace di reinterpretare il mondo nel quale viene immerso.

Altrimenti in quale altra visione potrebbero nascere i moderni vampiri teen di Twilight e Lasciami Entrare?

GIOVANI, SANGUE DEL VOSTRO SANGUE

Seguendo l’esempio (e ovviamente aggiornandolo alla moda) di Ragazzi Perduti, i vampiri di Stephenie Meyer perdono mantelli e denti aguzzi per indossare blue jeans a bordo di lussuose auto sportive: lo mostra bene la saga di Twilight, i film (cinque) ispirati ai romanzi della scrittrice che semplificano i concetti alla base del tema facendo leva sulle pruderie adolescenziali, e utilizzando di conseguenza due attori esordienti o quasi, Robert Pattinson e Kirsten Stewart, che solo in seguito sapranno mostrare il loro talento, mentre in Twilight restano intrappolati in meccanismi abusati e sceneggiature risapute.

Discorso diverso per Lasciami Entrare, di Tomas Alfredson, che prende l’archetipo narrativo e lo riplasma, senza mai snaturarlo, svilirlo o deriderlo: in questo modo, il film diventa un piccolo saggio sul romanzo di formazione, lacerato all’interno da una parabola orrorifica che ne condensa il significato, metaforizzandolo.

Negli anni Zero, dunque, il vampiro sembra aver perso definitivamente la mise che gli aveva cucito addosso Bram Stoker ma non certo la sua allure: come conferma Solo Gli Amanti Sopravvivono, capolavoro di Jim Jarmusch del 2013, storia elegantemente slabbrata di due dead men, due ghost dog: un codice di letture del mondo che il mondo di oggi non riesce a comprendere, non prevede, lascia ai margini.

Jarmusch cerca di nutrire la nicchia che scompare e che porta al sicuro i suoi vampiri, che non hanno la pretesa di essere fuori dal sistema ma sanno di non esserne servi; succhiando il sangue dal reale in memoria di un cinema analogico che lo imprime su pellicola. Come fosse ancora tempo di cinema e vampiri, del cinema come vampiro, delle luci e delle ombre del Nosferatu di Muranu e del Vampyr di Dryer, di un altro ipotetico capitolo della storia delle immagini allestito del Dracula di Coppola.

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100 anni di Nosferatu