Ci sono film che graffiano la pelle fin dalla prima inquadratura. Poltergeist non è uno di questi. Ci prende per mano, ci accompagna lungo il vialetto perfettamente curato di una tipica casa di periferia americana, ci fa entrare nel salotto, ci offre una bella birra ghiacciata e ci lascia accomodare sul divano. Poi, senza avvisare, ci rinchiude nella stanza e iniziaa far tremare le pareti.
Il 1982 segna l’uscita di questo cult firmato da Tobe Hooper (Non aprite quella porta) e scritto/prodotto da Steven Spielberg. Un binomio che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto generare un incubo cinematografico di proporzioni bibliche. E in parte lo fa: Hooper porta con sé il gusto per l’orrore puro, quello sporco, che arriva addosso senza preavviso. Spielberg, invece, sembra fare da garante, smussando gli angoli, filtrando il sangue con zucchero a velo. Il risultato è un ibrido curioso: un horror vestito da film fantastico, capace di inquietare, ma anche di rassicurare lo spettatore più impressionabile.
La famiglia perfetta sotto assedio
Il cuore di Poltergeist non è soltanto la casa infestata, ma soprattutto la famiglia che la abita. I Freeling incarnano alla perfezione il modello di benessere suburbano dei primi anni ’80: una villetta ordinata, un prato curato, sorrisi rassicuranti. Nulla può turbarli. Quando gli spiriti cominciano a manifestarsi, la reazione non è di terrore, bensì di fascinazione. Steve e Diane osservano le sedie che si spostano da sole e i giocattoli che si muovono con la stessa curiosità con cui si guarderebbe un trucco da prestigiatore. È come se il sogno americano fosse in grado di assorbire e normalizzare persino l’impossibile, riducendo il paranormale a un bizzarro passatempo domestico. 
Ma quando Carol Anne scompare, inghiottita da una forza invisibile, la patina di sicurezza si sgretola di colpo. Da quel momento l’orrore non è più un fenomeno strano con cui convivere, ma una minaccia totale che scardina l’illusione di un ordine eterno, costringendo i Freeling a misurarsi con la paura più antica: quella di perdere ciò che si ama.

La piccola Carol Anne di fronte ad una delle presenze.
Poltergeist – Una favola travestita da incubo
Sotto il rumore dei fenomeni paranormali, Poltergeist nasconde la struttura di una fiaba classica. C’è uno sconvolgimento iniziale — la separazione forzata della piccola Carol Anne (interpretata dalla compianta Heather O’Rourke) dalla sua famiglia — e c’è un lungo percorso di prove e pericoli che i genitori devono affrontare per riportarla a casa. Come in molte favole, il cuore pulsante non è il mostro, ma il legame che tiene insieme i personaggi. L’orrore diventa un banco di prova dell’amore familiare: più i Freeling si spingono oltre i loro limiti, più il film si trasforma in una parabola sul ritorno all’ordine perduto. È un’idea semplice, quasi archetipica, che convive con le trovate visive e la tensione horror, ma che rivela come Spielberg abbia plasmato la storia affinché restasse, sotto ogni urlo e ogni scricchiolio, una rassicurante favola sul potere unificante della famiglia.
Hooper vs Spielberg: due anime, un film
Lo scontro — o meglio, l’incontro — tra le due visioni è evidente in ogni fotogramma. Hooper, reduce dal culto sanguinolento di Non aprite quella porta, ha un senso del terrore fisico, sporco e viscerale. Ne è un esempio la scena in cui uno dei personaggi, sotto l’effetto di una presenza maligna, immagina di strapparsi brandelli di carne dal volto davanti allo specchio: un momento crudo e disturbante, che lascia intravedere la mano del regista texano e ciò che Poltergeist avrebbe potuto essere senza la patina imposta dal grande pubblico.
Spielberg, invece, porta con sé la sua inconfondibile capacità di avvolgere anche il mostro più inquietante in un’aura di meraviglia. La sua regia — o, per essere più precisi, la sua supervisione — dosa la tensione con la curiosità, il brivido con il senso di avventura, trasformando la casa infestata in un parco giochi dell’ignoto. È un approccio che rende il film accessibile a un pubblico ampio, permettendogli di scivolare senza traumi dal terrore alla meraviglia. Questo compromesso funziona… fino a un certo punto.
La regia di Hooper è precisa, pulita, quasi chirurgica nel costruire la tensione. Non ci sono sbavature: ogni movimento di macchina è calcolato per insinuare un dubbio, per preparare un colpo di scena. Ma quando l’orrore potrebbe affondare davvero i denti, ecco che arriva la mano di Spielberg a tirare il freno, a trasformare il buio in una luce magica, a rendere il terrore spettacolare più che disturbante. È un horror che non lascia lividi, ma accarezza con lamine sottili: il sangue non scorre, ma il brivido resta sotto pelle.

Dal brivido alla fiaba
La prima metà del film è un orologio svizzero dell’angoscia: dettagli inquietanti, escalation lenta ma implacabile, tensione che si insinua nelle crepe della quotidianità. Poi, però, qualcosa si incrina. Proprio quando l’orrore potrebbe colpire più a fondo, la morsa si allenta. Il terrore fisico si trasforma in spettacolo, la suspense si traveste da avventura, e Poltergeist scivola nella rassicurante corsia centrale del grande intrattenimento.
Per un amante dell’horror puro, è un piccolo tradimento: il brivido diventa fuoco d’artificio, il senso di minaccia si dissolve in attrazione da parco a tema. Spielberg sa trasformare la paura in meraviglia — ed è questo il problema. L’anima disturbante di Hooper resta in secondo piano, e la pellicola finisce per lasciare più stupore che inquietudine. Una scelta che rende il film universalmente amabile… ma che, a chi voleva davvero essere spaventato, lascia un sapore dolciastro in bocca.

Uno degli spielberghiani spiriti che infestano la casa.
L’eredità di Poltergeist
Nonostante questo ammorbidimento, Poltergeist resta un film che ha segnato l’immaginario collettivo. Il televisore sintonizzato sul nulla, il They’re here sussurrato dalla piccola Carol Anne, il clown di pezza che da innocuo diventa minaccia: sono immagini che hanno fatto scuola e che ancora oggi vengono citate, parodiate, reinterpretate.
È un horror accessibile, quasi “di ingresso” per chi vuole avvicinarsi al genere senza saltare subito nel gore. È anche, paradossalmente, una delle pellicole più spielberghiane che Spielberg non abbia mai diretto ufficialmente. Un film che ti dice: “Puoi avere paura, ma ricordati che alla fine il buio svanisce e la casa si svuota”.
E forse è proprio questa la sua vera natura: non un incubo che insegue, ma un racconto dell’orrore da consumare con le luci accese. Un compromesso tra il caos di Hooper e la favola di Spielberg, in cui la tensione vive e muore nello stesso respiro.