Figura centrale del cinema iraniano, Abbas Kiarostami ha trasformato i limiti e le restrizioni politiche e morali dettati dalla Rivoluzione islamica del 1979 in un linguaggio visivo unico, in grado di guidare lo spettatore attraverso una riflessione su questioni all’apparenza semplici, ma di fatto universali.
Il cinema iraniano nel contesto storico-politico
L’ondata di cambiamento nel cinema iraniano che percorse il decennio 1969 – 1979 rivendicava un cinema più vicino alla società del tempo e meno omologato alle produzioni indiane e hollywoodiane. Le opere si impreziosirono di un tocco più originale e artistico, otre che politico, sviluppando nello spettatore un gusto estetico che ha guidato anche le successive generazioni di cineasti. La rivoluzione islamica di Khomeini, nel 1979, rovesciò il regno filo-occidentale di Reza Pahlavi, che aveva portato il paese nella prosperità, ma non aveva tenuto conto del grave dislivello sociale che si era creato.
Spesso accostato al Neorealismo italiano, il cinema iraniano ha sempre mantenuto una sua cifra stilistica, un linguaggio che sostiene la poesia del quotidiano, mescolando realtà e finzione, traendo ispirazione dal cinema europeo, ma fornendogli anche nuovi spunti.
Abbas Kiarostami: il sapore del cinema
Privo di una preparazione professionale, come ha sottolineato più volte lo stesso regista, sembra questo il segreto della freschezza dello sguardo di Abbas Kiarostami, il cui occhio innocente proviene da una riscoperta del cinema come medium inseparabile dal suo ambiente sociale, culturale, e politico.
Il cordone ombelicale con la tradizione è immancabile.
Ed è infatti a una raccolta di poemi che si ispira Dov’è la casa del mio amico (1986), primo film della trilogia di Koker, dal nome del villaggio dove sono stati girati anche E la vita continua… (1991) e Sotto gli ulivi (1994).
Dov’è la casa del mio amico è la storia di un ragazzino che si aggira in un mondo di adulti ostili e indifferenti, alla ricerca dell’abitazione di un suo amico, a cui vuole restituire il quaderno capitato per sbaglio nella sua cartella. La trama lineare mette in evidenza con sguardo limpido un tema universale: il ragazzino sente che deve fare la cosa giusta, nonostante il mondo che lo circonda provi ad allontanarlo dal suo intento.
La delicatezza del tocco di Abbas Kiarostami e il suo amore per la vita li si ritrovano nel film Palma d’Oro, Il sapore della ciliegia (1997), storia di un uomo, Badii, che cerca chi lo aiuti a mettere in atto un suicidio, che vorrebbe tentare ma non sa se compirà.

Lo spettatore è un testimone alla ricerca di una risposta
Questo arrovellarsi sulla morte dà vita a un film riflessivo, fatto di attese e interrogazioni. Non conosciamo le sue ragioni, tutto quello che vediamo e sentiamo sono le conversazioni tra il protagonista e i passeggeri, attori non professionisti, che si alternano come compagni di viaggio.
La fotografia e i campi lunghi con cui la macchina da presa esplora la campagna attraversata da Badii ricordano lo stile realistico di cinema-verità, perché è di vita vissuta che si sta parlando.
Come nella maggior parte dei film di Abbas Kiarostami, lo spettatore è un testimone lasciato fuori di proposito dal dibattito, affinché trovi una risposta, sua, intima, a una domanda che resterà aperta per sempre.
Proprio come il suo cinema.