Presentato nella sezione del Concorso Internazionale del Locarno Film Festival 2025, in corsa per il Pardo d’oro, White Snail, produzione tedesca-austriaca con la regia di Elsa Kremser e Levin Peter (coautori di Space Dogs, 2019), dipana il più costitutivo e modulabile dei topoi possibili al cinema, quello boy meets girl (o qui, ancor meglio, una ragazza incontra un ragazzo), con un raro approccio introspettivo di delicatezza e drammaticità, senza voyeurismo e morbosità nelle timide passioni dell’amicizia e dell’amore tra due outsider che flirtano con la morte, nella caratterizzazione rispettosa e afferrabile di due solitari in bilico tra confusione e redenzione, tra disadattamento e spiragli di salvezza reciproca.
Come dichiarato dai due cineasti:
“Il nostro film racconta un punto di svolta nella vita di due giovani bielorussi, un atto di sfida verso lo stigma e l’esclusione. Domande aperte su un futuro ancora indecifrabile, che si consuma nella foschia delle afose notti d’estate”.
Masha (Marya Imbro) è una giovane modella che studia e si perfeziona aspirando a una carriera in Cina (ambita meta produttiva nei nuovi settori di moda), per emigrare da un paese in guerra dove il futuro è una minaccia. Psicologicamente fragile e attratta dal suicidio, incontra in obitorio Misha (Mikhail Senkov), addetto alle autopsie e ispirato pittore dilettante, sensibile ai risvolti metafisici e spirituali del reale. Tra i due nasce un improbabile sodalizio di vicinanza ed empatia, non privo di increspature, che schiude per entrambi l’orizzonte di una svolta, insieme.
Thanatos senza Eros nel fulgore degli affetti
White Snail, lumaca bianca. Titolo inconsueto che si esplica nel corso degli eventi e che allude alle proprietà rigeneranti e antiossidanti della bava dell’animale, consigliata dalla cosmesi naturale. Rinascita e riscatto dal vuoto nichilista che attanaglia una gioventù pressata da una guerra nel cuore dell’Europa, seppur nella prospettiva del fronte belligerante; possibilità di riscoperta, resistenza ed emancipazione (dai dettami estetici imposti) in un altrove tutto interiore, offerto dal ponte con il prossimo, da un altro da sé che sotto le spoglie del diverso genera una rifrazione epifanica.
E in questo il titolo compendia la coincidentia oppositorum del disegno dei personaggi, dai nomi ridondanti e quasi speculari, come alle soglie del sogno o dell’utopia. Lei, Masha, con la carnagione diafana, quasi vitrea e la bionda chioma pallida, l’incedere nervoso e schivo, lunare creatura della notte sempre sul precipizio dalla fine, tra un’overdose di farmaci e la fascinazione per i cadaveri dell’obitorio, ma nell’intelligenza emotiva di una curiosità irrequieta e generosa. Lui, Misha, imbolsito artista di soggetti ossianici e dai cupi cromatismi, anatomopatologo coscienzioso e languido, che sotto la pelle tatuata da bad boy non aspira a celare una malinconia vissuta, sensibile ai turbamenti altrui.
Conversazioni ai lati dei cadaveri, confessioni al chiaro di luna, avventure nella natura selvaggia, giorni dell’abbandono: raramente l’amore può essere figurato con tale autenticità di accenti, nella forza innocente e tenace dell’amicizia, nelle sue intraducibili sintonie e miracolose convergenze, con la complicità a favore di camera di due interpreti in naturalistica e sfumata adesione ai protagonisti.

Per gentile concessione di ©PANAMA FILM / RAUMZEITFILM
La vita come viene, in una regia illuminata
Non un coming of age, ma un cinema delle materiche reticenze in un’esatta fluidità del vivere, nella tenue e ombrosa messinscena di tematiche predilette dalle nuove tendenze d’essai: il corpo, sfibrato dai sacrifici perfezionistici, come consistenza d’anima, lo smarrimento epocale di padri e figli, l’acerba giovinezza come metafora del male di vivere, l’angoscia dell’esibizionismo mediatico, l’omertà accomodante sulla morte e sulla finitudine. Percorsi già esplorati, tra gli altri, dal lituano Toxic di Saulė Bliuvaitė, Pardo d’oro 2024, che qui tuttavia, grazie a Elsa Kremser e Levin Peter, si sublimano in toni più elegiaci, senza tuttavia disperdere il magnetismo d’immedesimazione, in una suspense introspettiva, in una coesa apertura di sguardo verso l’ignoto che radica in noi.
Memore dell’obliquità della poetica di Gus Van Sant e in particolare del suo L’amore che resta (2011), scevro delle pastoie del melò giovanilistico più compiaciuto e ossessivo, White Snail suggella la fede ancora possibile nel cambiamento attraverso il prossimo, anche se ciascuno si salva da solo, anche se i titoli di coda irrompono prima dell’happy ending, con gli interrogativi che l’esistenza non manca di esigere.