Ultimo capitolo della “Teen Apocalypse Trilogy” firmata da Gregg Araki, Nowhere uscì nel 1997 con un definitivo battito d’ali a salutare secolo e millennio in disfacimento.
Le gesta scombinate di un gruppo di post adolescenti nel vuoto di una giornata a Los Angeles scorrono – nonostante il sovrapporsi di eventi – in una immobilità totale: intorno ad essi droghe, fluidità sessuale, violenze improbabili, suicidi, rapimenti alieni in un crescendo tragico-grottesco che non lascia scampo.
Al centro Dark Smith (James Duval), fascinoso antieroe bisex e una cerchia di amici persi in un limbo che è tutt’uno con il “non spazio” che abitano; “L.A. is like Nowhere” (così apre il film), un cratere post apocalittico che prosciuga l’identità in cui tutti sono smarriti.
I fatti narrati sono di poco conto, comuni a tanti coetanei persi tra promiscuità sentimentale, ansia futura, dipendenze, mal di vivere e ribellione senza causa che culminano nel party finale. Intorno la solita America violenta e bigotta, dove la fede viene sbandierata tra allucinati predicatori televisivi, messaggi decontestualizzati lungo strade desolate: si veda la panchina dove campeggia la scritta “God Help Me”. L’ecstasy diviene rito collettivo, eucarestia pagana che non cura, ma almeno anestetizza.
Fotografia dirompente della X generation, Nowhere – come i precedenti Totally F***ed Up e The Doom Generation – celebra senza retorica la resistenza di una generazione tagliata fuori dalla Storia, forte del suo stesso nichilismo, proiettata in un domani che è già oggi e viviamo tuttora sulla nostra pelle.
Etica punk condotta all’estremo, Nowhere non porta da nessuna parte, in un presente appiattito che amplifica la sensazione portandola sempre oltre, senza mai approdare ad una dimensione più alta; è la vastità stessa della megalopoli senza confini, la città degli angeli caduti non si sa dove. Ogni ipotesi di trascendenza è negata, tuttavia non viene meno la speranza, frutto della stessa consapevolezza.
Al di là di ogni connotazione moralistica Dark e il suo gruppo sperimentano una purezza figlia dello spirito indipendente degli anni ‘90, lontanissima dall’edonismo ossessivo del millennio alle porte, dunque carica di significato.
La regia di Araki, forte del recente restauro e dell’assenza di tagli, sbatte in faccia tutto in uno stile assolutamente personale.

Iscritto nel filone New Queer Cinema, Nowhere è molto altro.
Primi piani soffocanti, colori iper saturi, set iconici, stile espressionistico, dialoghi estremi – accompagnati da musiche altrettanto rappresentative – tracciano le linee di una pellicola che fa i conti con la stessa arte del far cinema in un’ottica metacinematografica che divora se stessa.
Dark (alterego dello stesso Araki) è un aspirante cineasta con la cameretta straripante di vinili, cd e videocassette. La vita gli scorre intorno veloce a tal punto da non poter quasi essere ripresa dalla videocamera. Lo sguardo è ingenuo, senza filtri, ma è una giovinezza già condannata alla fine, costretta in un campo d’azione assai limitato; l’orizzonte è claustrofobico e rintocca nelle sonorità shoegaze che sono colonne portanti di Nowhere e di tutto l’immaginario di Araki.
Il titolo del film risuona nell’omonimo lp dei Ride e nel brano dei Curve e proprio in quell’universo onirico e rimbombante trova compimento il romanticismo di Dark.
Lode al Lovers Festival per la celebrazione della Trilogia.
James Duval, presente in sala, spiega come la musica rappresenti la prima fonte di ispirazione rispetto al suo lavoro attoriale e a quello narrativo di Gregg Araki. Racconta del crowdfunding appassionato che diede vita a Nowhere. Invita alla scoperta delle connessioni che legano le persone e che costituiscono l’essenza della vita. Entusiasta e generoso, conserva nello sguardo lo stupore dei suoi personaggi e regala ricordi preziosi.
Si esce dalla sala confortati, meno soli, nonostante tutto. “We fill up our days and nights, we fill up the gaps in our empty little lives, but we know we are doomed, the moment we walk out the room”.
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